Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 23/01/2014, a pag. 10, gli articoli di Maurizio Molinari titolati " Fra insulti e accuse parte la trattativa " e " Attivisti contro gli uomini del raiss: in sala stampa sfiorata la rissa ", a pag. 11, l'articolo di Francesca Paci dal titolo " I profughi non ci credono più: nessuno vuole davvero la pace ". Da LIBERO, a pag. 18, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " La grande presa in giro delle trattative sulla Siria ".
a destra, l'Onu a Bashar al Assad : " Ragazzaccio, dovresti smetterla ..."
Per il momento, sembrano esserci due possibilità per la Siria: la prima è la continuazione del regime brutale del dittatore Assad, la seconda è la caduta di Assad con conseguente guerra civile dovuta alla presenza, in Siria, di diverse tribù che non riuscirebbero a trovare un accordo.
Sulla realtà delle tribù, invitiamo a leggere l'analisi di Mordechai Kedar, cliccando sul link sottostante
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=&sez=320&id=43559
Ecco i pezzi:
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Fra insulti e accuse parte la trattativa "
Maurizio Molinari
La conferenza di pace sulla Siria inizia con uno scontro duro sul futuro di Bashar al Assad. Quando i delegati di quasi 40 Paesi si siedono attorno al tavolo è Ban Ki-moon, segretario generale dell’Onu, a riceverli e il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, a presentare una piattaforma di dialogo: «I colloqui fra le parti siriane non saranno né semplici né veloci ma sono una possibilità di raggiungere la pace, rispettiamo la sovranità della Siria».
Il ruolo assegnato a Lavrov, che interviene prima dell’americano John Kerry, riconosce a Mosca il merito di aver più di altri contribuito a riunire le parti in guerra da tre anni. Ma quando a parlare è Walid Muallim, ministro degli Esteri di Assad, diventa evidente che Damasco non raccoglie l’invito russo al dialogo: «La rivoluzione siriana è opera di terroristi macellai finanziati dagli sceicchi, ci batteremo ad ogni costo perché la Siria non può essere guidata da traditori al servizio del nemico». Poco dopo è il ministro dell’Informazione, Omran al Zoabi, a aggiungere: «Assad non lascerà il potere, è il nostro presidente e resta tale». Muallim sfora di cinque minuti il limite per gli interventi, Ban Ki-moon lo riprende e lui ribatte: «Io vivo in Siria, lei a New York, faccia parlare me». Il tono di disprezzo descrive l’approccio di Damasco.
La replica è di Ahmed Jabra, il leader della Coalizione dei ribelli che ha esitato a sedersi al tavolo. «Il nostro esercito ha liberato molte regioni, dopo 200 mila morti e 9 milioni di profughi serve una soluzione politica per salvare il nostro Paese - dice Jabra - ma non abbiamo un interlocutore, il tempo è essenziale perché in Siria il tempo è sangue». Kerry gli dà manforte: «Assad non può far parte della transizione, è lui il magnete del terrorismo ed è lui che ha risposto con la violenza alle prime pacifiche proteste nel 2011».
Il convitato di pietra è l’Iran, che non è venuto al fine di ribadire il sostegno ad Assad. Per Emma Bonino, ministro degli Esteri, «è un’autoesclusione da superare» perché «la soluzione della crisi è responsabilità di tutti, Iran incluso». Ma il ministro saudita Saud al Faisal è perentorio: «Teheran deve ritirare soldati ed Hezbollah dalla Siria». In serata i lavori della sessione internazionale si concludono passando il testimone al mediatore Onu Lakhdar Brahimi che oggi vedrà le due delegazioni siriane per concordare le modalità dei colloqui diretti previsti a Ginevra da domani. La strada è in salita: non è sicura neanche la presenza delle due parti nella stessa stanza. Ma lo spiraglio c’è. «Andiamo a dialogare» promette Muallim.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Attivisti contro gli uomini del raiss: in sala stampa sfiorata la rissa "
Sostenitori di Assad
«Bashar, Bashar, la Siria è con te». Il grido ritmato dei sostenitori del raiss accompagna l’inizio dei lavori nei saloni dell’Hotel Palace sulle rive del Lago di Ginevra. Avvolti in bandiere con le tre stelle verdi, simbolo del Baath, innalzano ritratti di Assad e sventolano i drappi degli Hezbollah. Sul lato opposto della sede della conferenza ci sono i parenti delle vittime del regime. Vestiti di nero e mascherati da scheletri hanno cartelli con la scritta: «Salvate la Siria».
Il duello fra regime e ribelli arriva in sala stampa. Quando sul megaschermo appare il ministro siriano Walid Muallim che prende la parola accusando i ribelli di terrorismo, la reporter Hayyi Bouzo di «Orient News» ribatte: «I veri terroristi stanno con Assad». È il parapiglia. Alcuni siriani si alzano si scatto, le si gettano contro, urlando. Servono lunghi minuti per riportare l’ordine nel lato arabo della sala stampa, dove ogni intervento viene tradotto, mentre i reporter europei, russi e americani - fra cui Margaret Warner della Pbs - diventano testimoni dell’entità delle tensioni fra siriani.
Il duello fra le due anime della nazione in guerra si ripropone nel grande salone dove i portavoce degli opposti campi vengono a dire la loro. Per l’opposizione ci sono giovani ingegneri, avvocati, volontari fuggiti dalla guerra. Per loro parla Rafif Jouejati, una quarantenne che vive in Virginia: «Il regime è venuto qui per deragliare il processo di pace». Vicino a lei, alcune giovani funzionarie del Baath sfoggiano anelli con i colori nazionali, spille con la bandiera siriana incrociata a quella russa, pantaloni di pelle e scarpe firmate. La rabbia gli esce dagli occhi ma tacciono perché a guidare le operazioni del campo di Assad è «Madame Shahaban», una elegante signora, consigliere personale del Raiss che indossa una pelliccia ed è circondata da gorilla.
Quando lascia la «spin room» modello siriano a entrare è il ministro dell’Informazione di Assad. Vuole parlare con i media europei ma si trova davanti quelli degli arabi sunniti più avversari del regime. Ne esce un groviglio di spintoni, urla e gesti poco diplomatici che termina solo quando i delegati siriani si allontanano, lasciando dietro di loro una scia di materiale di propaganda: volantini «Sì alla rielezione di Bashar al Assad» e cd sui «crimini dei terroristi».
La tregua fra le fazioni arriva all’ora del pranzo, quando mangiano assieme al bancone del centro svizzero, ritrovandosi spesso nella scelta di rifiutare le baguette del menù perché riempite di salame e prosciutto che i pur laici siriani, ribelli o filo-Assad, scansano a favore di formaggi e salmone. Dentro l’Hotel Palace i lavori sono segnati dalla confusione perché i mille delegati sono alla ricerca dei siriani ma nessuno o quasi li conosce. Capita così che a una segretaria filo-Assad sfugga la frase «Sono appena arrivata da Damasco» finendo in una morsa di mani da stringere, accompagnata dalla banale domanda di un delegato «ma lei con chi sta?».
Nel finale è Ban Ki-moon a precipitare nella faida: durante la conferenza stampa è obbligato a difendersi da delegati e giornalisti filo-Assad aggressivi al punto da obbligare le guardie del corpo ad ammonirli. «Siete un popolo orgoglioso ma la fine della guerra passa attraverso compromessi difficili», dice Ban, ponendo fine a una giornata di faide siriane sul Lago di Ginevra.
LIBERO - Carlo Panella : " La grande presa in giro delle trattative sulla Siria"
Carlo Panella
«Assad non si tocca, sarà questa la linea rossa da non valicare»: con queste parole il ministro degli Esteri siriano Walid al Muallem ha aperto e di fatto chiuso la conferenza Ginevra 2 che ha lo scopo dichiarato di raggiungere un obbiettivo esattamente opposto. La sua ragion d’essere è infatti la ricerca di una accordo tra il governo di Damasco e le forze ribelli per mettere la fine con un governo di transizione ad una guerra civile che ha mietuto 130.000 vittime. Accordo che –come ha ricordato il Segretario di Stato Usa J.f. Kerry «non è possibile se Assad rimane al potere ». Ma Muallem non si è limitato ad annullare il senso stesso della Conferenza. Ha insultato le forze dei ribelli presenti alla Conferenza e sedute davanti a lui con terminivergognosi: «Se si vuole parlare anomedel popolo siriano, non bisognerebbe essere dei traditori, agenti al soldo dei nemici del popolo siriano».
«MANI SPORCHE DI SANGUE»
Non contento, Muallem ha anche insultato Arabia Saudita, Qatar e Turchia (nazioni presenti a Montreux che appoggiano i ribelli e contrastano Assad) con parole di fuoco: «Mi dispiace che i rappresentanti di alcuni Stati seduti in questa stanza abbiano le mani sporche del sangue dei siriani; ora la maschera è caduta e vediamo la vera faccia di coloro che vogliono distruggere la Siria». Ma la strafottenza dei siriani non si è fermata qui: Muallem ha persino litigato platealmente col presidente della Conferenza, il Segretario dell’Onu Ban Ki Moon che gli contestava, con tatto, l’eccessiva lunghezza del suo intervento. Il tutto, mentre in Siria Assad continua a massacrare la popolazione civile e i combattimenti continuano con la abituale virulenza: ieri i morti sono stati 9. I lavori plenari della Conferenza si sono chiusi nel pomeriggio con un rinvio a venerdì per una tornata di 7 giorni di negoziati. Ma con queste premesse, è certo che Ginevra 2 non otterrà nessun risultato di fondo, non porrà in alcun modo fine ai massacri e alla guerra civile. Può solo conseguire quei piccoli risultati parziali, parzialissimi, che permetteranno alla diplomazia occidentale in primis a Barack Obama, di dire di avere ottenuto un qualche successo. È infatti possibile, come ha anticipato Lakhdar Brahimi, inviato dell’Onu in Siria, che le parti concordino scambi di prigionieri, che si definiscano alcuni corridoi umanitari per faregiungere viveri e medicinali alle popolazioni stremate (ma Assad cederà poco sul punto, perché punta a «strizzare» la popolazione civile per fame, per scavare un solco nel suo rapporto con i ribelli) e che si possa addirittura arrivare a una roboante proclamazione di una tregua Ma - ammesso e non concesso che questo risultato che salverebbe la faccia alla strategia diplomatica di Obama venga conseguito - proprio allora l’impalcatura falsa e traballante su cui si regge Ginevra 2 crollerebbe.
FALLIMENTO SCRITTO
Il fallimento totale della «via diplomatica » è infatti già acquisito per la sua totale mancanza di rappresentatività della situazione reale sul terreno della guerra civile: il 90% delle forze ribelli, non partecipa aGinevra 2 e non dà legittimità a una scadenza a cui Assad si presenta senza la minima disponibilità ad una trattativa reale. Anzi.Sonocosì assenti tutte le forze che controllano larghe parti del territorio siriano, a eccezione della screditata e ininfluente Coalizione Nazionale Siriana (Cns) di Ahmed Jarba. Una organizzazione rissosa, i cui dirigenti stanno all’estero (con una boutade si dice che combattono nei fanadiq, alberghi, invece che nei khanadiq, trincee) la cui proiezione armata, l’Esercito Libero Siriano, ha perso sempre più terreno e subito cocenti sconfitte. Compresa la fuga ingloriosa dal suo quartier generale di Atmeh del comandante in capo Selim Idriss, quando il campo è stato conquistato dai miliziani del Fronte Islamico. Non partecipano ai lavori non solo dei gruppi jihadisti legati ad al Qaeda come al Jabhat al Nousra, diretto da Sheik al Joulani, ma anche del Fronte Islamico, il più grande gruppo armato anti Assad, supportato dall’Arabia Saudita e forte di 40-60.000 combattenti. Non partecipa neanche il Consiglio Nazionale Siriano, proiezione dei Fratelli Musulmani e supportato dal Qatar. Né partecipano i ribelli curdi che pure hanno «liberato» gran parte del loro territorio (e che combattono anche contro i qaedisti). Ogni eventuale cessate il fuoco verrà quindi rifiutato dal 90% delle forze combattenti ribelli. Se non si sviluppasse su una tragedia, si dovrebbe dire che Ginevra 2 è una farsa. L’ennesima messa in scena dall’Onu, Obama e Ue.
La STAMPA - Francesca Paci : " I profughi non ci credono più: nessuno vuole davvero la pace "
Francesca Paci
In queste ore le immagini di Montreux rimbalzano dalle 2500 tende ai 23 mila caravan di Zaatari, in ciascuno dei quali brilla una tv.
Nello sterminato campo profughi siriano che con i suoi 100 mila abitanti è ormai la quarta città giordana, l’espressione «Ginevra 2» è nota anche ai bambini che cantilenano agli stranieri «salutateci Assad». Ma per tutti è accompagnata da un sorriso amaro e un’alzata di spalle.
«Come dice un proverbio della tribù Hurani se piove è perché ci sono le nuvole, significa che senza premesse i negoziati non produrranno nulla» nota il 58 enne Bahij Ismail seduto nel container in cui vive con moglie e figlie da quando nel 2012 ha lasciato la Siria. Bahij, gilet grigio e baffi curati, era il sindaco di Khirbat al Ghazali, vicino Daraa, finché, disgustato dalla repressione delle proteste, non abbandonò il governo ricevendo in cambio minacce e aggressioni. L’odio, ammette, sta divorando il suo popolo: «Avremmo bisogno del cessate il fuoco, la fine dei bombardamenti, la liberazione dei prigionieri, l’accesso agli aiuti umanitari. Lo otterremo da Ginevra 2? Dubito. Intanto soffochiamo, con il regime convinto di fronteggiare solo terroristi e l’opposizione irriducibile a qualsiasi compromesso che risparmi gli avversari. Siamo così stremati che non c’importa più chi governerà domani, Assad o un altro è lo stesso, la politica verrà dopo».
Il morale è a terra nel campo invaso dai disperati che ieri scappavano dall’insicurezza e oggi, nel 54% dei casi, dalla fame. Solo un anno fa si riconoscevano ovunque le bandiere dei ribelli del Free Syrian Army. Ma la battaglia di Qusayr, che la scorsa primavera ha ribaltato le sorti del conflitto a favore di Assad, ha segnato il punto di non ritorno.
«I rifugiati hanno capito che non sarebbero rientrati in casa presto e questo paradossalmente ha ridotto la tensione, ora piantano fiori davanti al caravan e mandano i figli a scuola» nota Jonathan Campbell, coordinatore dell’emergenza del World Food Programme, l’agenzia Onu che ogni mattina distribuisce a Zaatari 22 tonnellate di pane.
Chiunque vorrebbe che Montreux funzionasse. La popolazione di Zaatari, che cresce di 6 neonati e 300 nuovi arrivi al giorno. Ma anche la Giordania, un Paese senza acqua e costretto a importare l’87% del cibo. Otto su dieci dei 600 mila profughi affluiti nel piccolo regno Hascemita vivono fuori dal campo, mescolati ai 6 milioni di abitanti con cui si contendono lavori da 7 dinari al giorno (7 euro) e case, i cui affitti sono lievitati da 70 a 250 dinari.
«Ginevra 2? È inutile, solo Dio può aiutarci» commenta Ahmed spendendo i 24 dinari mensili del voucher del Wfp al supermercato di Zaatari Tazweed, uno dei 65 negozi locali convenzionati per redistribuire in Giordania gli aiuti di cui necessita almeno il 58% dei profughi. La speranza, dice la moglie Laila, velata come tutte le donne di Zaatari, l’hanno persa quando il marito, disoccupato dal 2012, è andato 7 mesi in Libano per guadagnare 1500 dollari: «Lo scorso novembre abbiamo lasciato Idlib». Da quando la guerra ha travolto l’intera Siria in Giordania non entrano più solo rifugiati dalla vicina regione di Daraa, tradizionalmente ostile al regime, ma da Aleppo, Damasco, Idlib, le zone dove non arrivano gli aiuti.
«Sarebbe già qualcosa se Ginevra 2 favorisse l’apertura di corridoi umanitari» confida il responsabile dell’agenzia umanitaria di Bruxelles Echo Carlos Afonso Gallego.
Se proprio devono raccomandarsi, i profughi ripetono «Insciallah» anziché «Ginevra 2». «Prego, la soluzione non si troverà su questa terra e di certo non in Svizzera» afferma Ruaida abu Zaida, fuggita da Daraa dove gestiva il negozio di abiti da sposa che ha rilanciato qui, una delle 600 botteghe di «Champs Elisee», la via principale di Zaatari pattugliata dalla polizia giordana come una vera strada commerciale. I matrimoni non sono più di 10 al mese ma affittando i vestiti per 30 dinari al giorno lei ce la fa.
A sembrare lontana non è solo Montroux, con i campi da golf irrigati generosamente laddove Zaatari sopravvive con 4 milioni di litri di acqua al giorno. «Se vengo in Europa ho qualche chance?» chiede il contadino Ahmad Suleiman, 47 anni e le rughe di un centenario. Aspetta il suo turno di aiuti nel centro di distribuzione di Wadi al Samir, periferia sud di Amman. Si asciuga gli occhi con la kefia rossa: «Mi alzavo all’alba per arare i campi vicino ad Aleppo e ora lo faccio per mendicare. Che vergogna non poter nutrire i miei dieci figli. Non ho fiducia in Ginevra 2, ognuno pensa solo a sé, regime e opposizione si scannano senza distinguere e noi siamo le vittime». Chi lo ascolta, come Adhef Khalaf, scuote la testa e mostra sul Toshiba la sua casa distrutta a Daraya, Damasco: «Nemmeno mille Ginevra produrrebbero un risultato. Mio padre era un ufficiale dell’esercito e ha disertato, solo a noi sta a cuore la Siria».
A Zaatari come per le strade di Amman i siriani si sentono abbandonati. «Io sono partito ma i miei genitori, chiusi dentro il campo di Yarmouk, mangiano da settimane l’erba del prato e Damasco non è esattamente la Svizzera verde» butta là, tagliente, il macellaio Nasruddin Ahmad al Masri. Le tv sono tutte accese, la speranza no.
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