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Il senso di una mostra annullata A destra, come Anp e Hamas vedono il risultato dei colloqui di pace Cari amici, chi di voi è attento alle questioni mediorientali e al comportamento degli organismi soprannazionali che dovrebbero anche essere “super partes”, ma clamorosamente non lo sono, ha certamente letto con interesse l'accenno nella rubrica IC7 compilata da Federico Steinhaus (http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=52106) e poi l'articolo di “Libero” riportato ieri (http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=16&sez=120&id=52119) sul “rinvio” (eufemismo per annullamento) deciso dall'Unesco riguardo a una mostra organizzata dal centro Simon Wiesenthal, che si doveva aprire proprio in questi giorni nella sua sede di Parigi sul tema «Il popolo, il libro, la terra: i 3500 anni di relazione del popolo ebraico con la Terra Santa». Il rinvio o annullamento che sia è stato deciso dall'Unesco a conferenza stampa effettuata e ad allestimento finito, in seguito alla protesta di un gruppo di stati arabi, che non c'entravano affatto. Giustamente IC ha intitolato l'articolo parlando di “genuflessione” dell'Unesco ai dictat arabi: una forma di “proskynesis”, come si chiamava l'omaggio richiesto dagli imperatori di Bisanzio, che è perfettamente usuale per l'Unesco, per l'Onu e per tutte le sue organizzazioni sussidiarie, che insomma ci indigna (http://abcnews.go.com/International/wireStory/netanyahu-slams-unesco-delay-jewish-exhibit-21588646) ma non ci sorprende.
Vale però la pena di andare più a fondo. Perché gli ambasciatori di tutti gli stati arabi, che hanno faccende più urgenti da risolvere, le guerre civili in Siria, Libia e Iraq in espansione al Libano, la crisi in Egitto, gli scontri in Yemen, il conflitto fra Arabia e Usa, eccetera eccetera, passano il loro tempo a occuparsi di una mostra di storia, in cui si dovevano esporre documenti molto noti, come i reperti archeologici riferiti ai regni di Giuda e di Israele, le occupazioni egizie babilonesi romane e islamiche, l'attività di insegnamento e di scrittura che continuò nel corso dei secoli fra Gerusalemme, Tiberiade, Tzfat e Hebron – tutte cose ben note? Come se per ragioni “antimperialiste” qualcuno si opponesse a una mostra sui templi greci nel Mediterraneo o sulle strade romane... piuttosto folle, non trovate? Eppure questa opposizione c'è stata, durissima e per ora vincente anche contro il parere americano, non diversa da quella che ha visto l'autorità palestinese cercare di impedire la grande e bellissima mostra su Erode che l'anno scorso era stata allestita al museo ebraico di Gerusalemme: una mostra non solo celebrativa, ma anche critica, preparata secondo il metodo storico oltre che spettacolare, su un personaggio che sta anche nel Vangelo e negli scritti degli storici romani – che però ai palestinisti dava un terribile fastidio. Bisogna chiedersene il perché.
Una risposta chiarissima si trova in questa intervista (http://www.aawsat.net/2014/01/article55327533) del ministro degli esteri dell'Autorità Palestinese Riyad Al-Maliki concessa all' Asharq al-Awsat, il più importante giornale arabo stampato in occidente (http://en.wikipedia.org/wiki/Asharq_Al-Awsat). A parte molte amenità propagandistiche, Al Maliki risponde così all'ultima domanda dell'intervistatore: Qual è il punto più difficile delle trattative con Israele? “ E' la questione del riconoscimento del carattere ebraico dello Stato di Israele. Questo è un problema fortemente controverso. Sarebbe pericoloso riconoscerlo, perché questo significherebbe la nostra accettazione della dissoluzione della nostra storia, dei legami e del nostro diritto storico alla Palestina. Noi non lo accetteremo mai in nessuna circostanza. ” In sostanza, il ministro degli esteri dell'AP sta dicendo che se dovessero riconoscere che il popolo ebraico ha un legame storico con Israele, la loro “storia”, i loro “legami” e le loro pretese si dissolverebbero. Se Israele è storicamente ebraico non può essere “palestinese” e tutta l'invenzione di un popolo “palestinese” e di una storia “palestinese” (al cui interno pretendono di far rientrare addirittura Gesù) “si dissolve”. E' un'ammissione importante, per la semplice ragione che il legame di Gerusalemme e del suo territorio con il popolo ebraico è un fatto della storia (non una “narrativa” o altre cose fumose del genere). Ci sono decine di migliaia di reperti archeologici, di testimonianze storiche, di racconti di visitatori, di toponimi che lo testimoniano. Non ultima la Bibbia ebraica e Cristiana e perfino il Corano. Si discute delle date più antiche, di dettagli. Ma vi sono iscrizioni egiziane (intorno al 1200 di prima della nostra epoca), siriache, dei piccoli stati confinati come Moav, babilonesi, persiane, vi sono monete, reperti di scrittura ebraica su frammenti di terracotta e monete e lapidi, vi è quel che dicono gli storici greci e romani ed egizi certamente non molto affettuosi con gli ebrei, le testimonianze cristiane – anche a ignorare tutta la letteratura ebraica. E dunque, se ha ragione Al Maliki e l'ebraicità di Israele fa cadere le pretese arabe su quel territorio, se Palestina è un'espressione geografica (come Balcani o Caucaso o Patagonia, cui non corrisponde alcuna nazionalità precisa: http://www.mythsandfacts.org/article_view.asp?articleID=273), e insomma tutte le pretese palestiniste si rivelano per quel che sono: non la rivendicazione del proprio diritto, ma il tentativo di combattere un nemico. Ecco perché gli ambasciatori arabi e l'Autorità Palestinese non sopportano la storia, neppure al suo livello più ovvio: il Tempio di Gerusalemme, cui accenna anche il Corano, era a Gerusalemme, Gesù che fu ucciso in quanto “rex Iudaeorum” e di cui i Vangeli confermano la pretesa messianica esponendo una dettagliata discendenza dal re Davide, era ebreo, eccetera eccetera. Se tutto ciò è vero, l'invenzione di un popolo palestinese (lo ripeto di “un popolo”, non dei singoli individui arabi che da tempo più o meno lunghi, spesso molto recenti, erano presenti sul territorio dello Stato di Israele) si rivela semplicemente come un'arma offensiva contro gli ebrei (al cui funzionamento è stata subordinata anche l'esistenza individuali dei “palestinesi”, costretti a vivere per generazioni nei campi profughi e non integrati nel paese dove vivevano, come è successo invece ai profughi ebrai fuggiti dai paesi arabi e in generale a tutti i profughi di guerra, per esempio in Europa agli istriani e Dalmati). Sul piano intellettuale, è una strategia suicida, che richiede la continua negazione della realtà per dar corpo a una insostenibile “narrativa palestinese”, anche se sul piano politico esse può ottenere dei successi per la viltà e la disonestà intellettuale di una classe dirigente internazionale, di cui l'Unesco è un buon esempio. Ce n'era delle altre possibili, come quella di dire che i “palestinesi” non sono altro che discendenti del popolo di Israele convertiti all'islamismo (l'ho sentito predicare da un bizzarro personaggio durante un incontro in un viaggio di IC). O semplicemente ammettere che gli arabi sono indigeni solo in Arabia Saudita, ma hanno arabizzato l'Egitto e la Siria, il Maghreb e l'Iraq, zone che non appartenevano loro né etnicamente né religiosamente, come del resto i Turchi hanno conquistato l'Anatolia, l'Armenia e un bel pezzo dei Balcani, inclusa Costantinopoli, senza averne alcun diritto, sulla base della pura forza. La teoria islamica è che una terra conquistata dai musulmani è loro per sempre: è un pensiero razzista, coerente col trattamento inumano cui hanno sottoposto per secoli i loro conquistati, imponendo la scelta fra subordinazione, in sostanza schiavitù, conversione o fuga. E' così che si sono diffusi, anche in quella terra che si è chiamata da sempre Eretz Israel o Giudea. Abbiano il coraggio di dire che la vogliono perché una volta l'hanno conquistata con le armi... ma anche così probabilmente la loro pretesa apparirebbe poco giustificata. I paesi arabi che hanno ottenuto la cancellazione della mostra del Centro Wiesenthal ( http://www.focusonisrael.org/2014/01/21/unesco-mostra-ebrei-israele-cancellazione/) hanno avuto l'ardire di affermare che la mostra “danneggiava le trattative di pace”, un po' come quelli che affermano che gli insediamenti ebraici che ridanno vegetazione e capacità economica alle terre incolte di Giudea e Samaria sono “ostacoli alla pace” e che devono essere resi Judenrein – una pretesa che nella storia ha il solo precedente del nazismo . Il problema è che questo atteggiamento - “o fate esattamente tutto quel che noi vogliamo, o non ci sarà pace" (http://www.israelnationalnews.com/News/News.aspx/171955#.Ut6yWBAuLVQ) – è il vero ostacolo. Ed è un ostacolo volontario, come mostra la “legge” dell'AP sui rifugiati, che è evidentemente fatta apposta per evitare qualunque possibilità di accordo. Legge sul diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi - Approvata il 16 dicembre 2008 Capite che una mostra un trattato, un negoziato, la storia, tutto ciò che si frappone all'odio antisemita degli arabi, non ha per loro nessun valore. E capite anche il senso della genuflessione dell'Unesco: una resa che non tradisce solo il mondo ebraico e Israele (che almeno ha la determinazione e i mezzi per difendersi da sé), ma tutto il mondo che una volta, con molto ottimismo si chiamava libero. Se lasceremo fare questi signori, il risultato sarà la barbarie di un nuovo medioevo islamico. Questo è il senso di un'innocua mostra storica annullata dall'ente internazionale che avrebbe il compito istituzionale di difendere e promuovere la cultura. Ugo Volli |
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