David Meghnagi presenterà il libro Gerusalemme e il popolo ebraico di Benedetto Musolino (ed. Libri Liberi) a Roma, alla Camera dei Deputati, Sala Mercede, l' 11 Febbraio 2014 dalle ore 17.00 -19.00 via della Mercede, 55.
Ecco l'introduzione di David Meghnagi:
Quando Benedetto Musolino redige Gerusalemme ed il popolo ebreo, il Meridione è ancora sotto il controllo dei Borboni. A Roma c’è ancora la vergogna del ghetto in cui gli ebrei sono obbligati a risiedere. È però ormai solo una questione di anni. Non più reclusi in luoghi malsani, esposti all’arbitrio dei potenti e all’aggressione periodica della plebe, gli ebrei avrebbero potuto finalmente circolare liberamente per ogni luogo contribuendo al rinnovamento del paese, all’innovazione e allo sviluppo. Nel qui e ora, in Italia come nel resto d’Europa, ciò che più sembra contare è la fine dell’asservimento giuridico e sociale a un ordinamento abietto che li esclude relegandoli ai margini della vita sociale e culturale. Purtuttavia sullo sfondo di mutamenti interni ed esterni alla vita ebraica, il processo di ritorno alla terra dei padri è in realtà già iniziato, senza proclami e in forme silenziose, con la creazione di una vita ebraica non esclusivamente ancorata allo studio dei testi sacri e alla preghiera sulle rovine del Tempio. L’idea del ritorno non avviene nel vuoto e s’interseca con visioni geopolitiche, religiose e valoriali in contrasto fra loro, ma che possono anche convergere. Non per caso, tra il 1800 e il 1875, sono stati pubblicati in inglese circa cinquemila libri su Gerusalemme. In aperto contrasto con la visione dominante in ambito cattolico e ortodosso, dichiaratamente ostile, in alcuni settori della religiosità britannica e americana, il ritorno degli ebrei alla loro terra madre non fa scandalo. Non solo è possibile, ma anche desiderabile. In un’ottica specificamente cristiana, in cui gli ebrei sono in ogni caso subordinati a disegni e bisogni altrui, il loro ritorno è l’inveramento di profezie, premessa del ritorno di Cristo in terra e della “conversione” finale degli ebrei. Nella visione che ne ha Musolino, dichiaratamente laica e d’impostazione filobritannica, la rinascita nazionale ebraica ha una funzione strategica, ma è allo stesso tempo una necessità etica. L’idealizzazione e l’unilateralità con cui l’autore guarda alla Gran Bretagna come epicentro della civiltà e della cultura, non impedisce di intravedere i possibili conflitti futuri che avrebbero potuto in seguito sorgere fra alleati. In un mondo di stati nazionali opposti e in guerra, liberismo e protezionismo non sono teorie innocenti e oggettive. Sono elementi del conflitto fra stati, una loro razionalizzazione ideologica. L’autore ha una visione liberale, ma da uomo di sinistra e attento alle questioni sociali, tiene conto delle ineguaglianze di partenza fra società ed economie facendo dell’intervento statale un elemento di riequilibrio a protezione d’interessi più generali e fondamentali (B. Musolino, Gerusalemme ed il popolo ebreo.,Firenze, Libri Liberi, 2014, p. 272). La dottrina del “libero scambio” è il riflesso della superiorità economica conquistata e della necessità di esportare le merci prodotte. Sino al 1846, la Gran Bretagna è stata una potenza proibizionista. Affermatasi economicamente, si è fatta portabandiera del liberismo. In questa trasformazione non c’è nessuna mano segreta cui appellarsi, come affermano i teorici del liberismo. Nella prospettiva dell’autore, tale scelta ha un valore etico nella misura in cui estende i suoi benefici alle economie più deboli. In mancanza di questa seconda condizione, l’asimmetria può diventare un elemento di disgregazione delle economie più deboli (ibid., p. 271). Lo sviluppo delle ferrovie pone l’impero britannico di fronte a nuove sfide. Potenza marittima per eccellenza, la Gran Bretagna rischia di vedere messi in discussione il controllo dei suoi domini e la supremazia commerciale. Per evitare che ciò accada, è necessario giocare d’anticipo, creando, prima che altre potenze la realizzino per proprio conto, una ferrovia che dal Vicino Oriente raggiunga i suoi possedimenti più lontani. Un progetto così ambizioso ha bisogno di grandi capitali e di una popolazione laboriosa e leale alla ricerca di un riscatto individuale e nazionale. In questa prospettiva gli ebrei sono politicamente un mezzo per un progetto più grande che ne oltrepassa le aspirazioni. Purtuttavia non sono solo e unicamente uno strumento del colonialismo britannico e dei suoi interessi geopolitici, un mezzo per restituire, con la loro “laboriosità” e i loro “capitali” linfa vitale per un Impero Ottomano in declino, che non è più in grado di fronteggiare l’espansione russa a nord e di proteggere i suoi confini a sud (ibid., p. 291). L’empatia con cui l’autore ricostruisce la storia ebraica, la conoscenza con cui ne parla, va oltre l’orizzonte geopolitico in cui è inserita. La rinascita nazionale ebraica è per l’autore un atto morale dovuto che ha un valore paradigmatico per l’intera civiltà umana. La Terra di Israele è da sempre “la terra, promessa ed ereditaria di una nazione celebre e sventurata”, che ha svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo della civiltà e che per secoli e millenni ha strenuamente difeso i suoi valori, la sua identità e cultura. Culla della “prima religione”, della “civiltà” e dell’età “dell’uomo”, la sua terra più antica è stata sempre l’ultimo “centro” in cui andavano a “riunirsi i voti, i desideri, le supreme speranze” di “milioni di esuli”. Con toni lirici e biblici, l’autore non esita ad appellarsi ai diretti interessati perché si destino “dal lungo sonno” in cui sono da secoli avvolti, perché è finalmente giunto il tempo di “operare” e di riunire gli esuli dai “quattro angoli della terra”, per riabilitare “la stanza” dei “padri”. Se in natura, “è sacro il principio per cui ogni popolo” ed “essere vivente” ha diritto “alla sua parte di terra”, nessun popolo, governo o individuo può mettere in discussione il diritto di opporsi “al possesso” ebraico della terra dei padri, cui essi non hanno mai né “moralmente”, né “politicamente” rinunciato. Tale riconoscimento non è solo un diritto inoppugnabile. È un atto dovuto nei confronti di “un popolo” per liberare “una macchia indelebile” contro un popolo che “riunisce tanti titoli di giustizia e di merito” (ibid., pp. 7-11). La costituzione immaginata per gli ebrei è quanto di più avanzato si possa immaginare per l’epoca: un ordinamento liberale e democratico con suffragio maschile universale, libertà di stampa, di culto e d’insegnamento, dove l’obbligo scolastico va dai quattro ai sedici anni e, fatto non meno significativo, la lingua ufficiale è l’ebraico. Uno stato simbolo, in cui gli ebrei fungono da ricettore di proiezione e di sublimazione di ansie e di aspirazioni altrui, in un’area del mondo dominata da un potere autocratico in declino, dove l’emancipazione delle minoranze religiose è largamente imposta dall’esterno per opera delle potenze europee che lo avrebbero presto assoggettato, e non per un’evoluzione interna condivisa dalla maggioranza. In contrasto con la tradizione rabbinica, l’antico Tempio sarebbe stato ricostruito. Il Tesoro avrebbe garantito i salari solo al “gran sacerdote”, ai “membri del Consiglio dei rabbini” e “dei capi” delle confessioni dissidenti. Il resto è a carico dei fedeli delle singole confessioni. Dall’esproprio sono esclusi gli edifici e i territori cristiani che conservano la pienezza dei privilegi accordati dalla Porta in forza delle primitive “capitolazioni” e per effetto degli atti successivi. Anticipando uno sviluppo che fu affermato un secolo dopo dalla “Legge israeliana del ritorno”, la Costituzione di Musolino stabilisce, nell’articolo 16, il diritto di ogni ebreo a stabilirsi nel paese acquistando la nazionalità. L’educazione è obbligatoria per legge ed è stabilita dai quattro ai sedici anni. La religione ufficiale è l’ebraismo rabbinico con libertà di culto garantita per tutti e senza privilegi. Lucido ed empatico, quando descrive le vicissitudini dolorose del passato ebraico in terra cristiana, Musolino non appare in grado di cogliere adeguatamente la posta in gioco quando si tratta di analizzare l’opposizione ottomana, araba e islamica al progetto. L’autore non si chiede se una tale scelta possa confliggere in modo irriducibile con la visione islamica dei “popoli vinti” e la loro subordinazione ontologica alle maggioranze islamiche. Né si pone la domanda di come avrebbero potuto gli ebrei controllare una superficie così ampia e fronteggiare l’ostilità araba. Gli inglesi avrebbero potuto contare sulla presenza di “una vedetta” a tutela delle vie che conducevano ai loro possedimenti nell’estremo oriente. Gli ottomani su una popolazione intelligente e laboriosa che avrebbe contribuito a rendere nuovamente florida l’intera economia della regione, grazie anche all’afflusso di capitali. Quanto alla Porta aveva solo da guadagnare. La rinascita ebraica non avrebbe scalfito in alcun modo l’autorità imperiale nella regione. L’avrebbe anzi rafforzata contribuendo al suo sviluppo economico e alla protezione dei confini occidentali e meridionali. In una convergenza d’interessi fra gli interessi imperiali britannici e quelli ottomani, il “Bosforo ebraico” avrebbe avuto un’estensione di 135 km. Avrebbe incluso “la Fenicia, la Galilea, l’Idumea, e l’Arabia Petrea” e inglobato l’attuale Giordania, la riva occidentale del Giordano e il Libano (art. 1). Una superficie di molto superiore a quella fissata in seguito dalla Dichiarazione Balfour nel 1917 (che gli inglesi ridurranno ulteriormente appena tre anni dopo per fare posto al regno giordano). Per superare le resistenze degli ottomani è sufficiente che il principato ebraico non diventi uno stato indipendente. Il principe “ebreo reggente” sarà un suddito fedele e leale del sultano, tenuto a versare “un tributo annuale”, stabilito all’inizio “alla rendita netta dei sudditi infeudati” con l’obbligo di fornire “un contingente di truppe ogni cinque anni”. Eppure la reazione violenta contro l’emancipazione dei cristiani d’oriente seguita alle “capitolazioni”, la violenza della caccia all’uomo, avrebbe dovuto mostrargli che il rifiuto ottomano aveva fondamenti ben più radicali, legati alla visione che la civiltà islamica aveva dello statuto religioso delle sue minoranze. In questo quadro semplificato, la civiltà araba è come se fosse stata incorporata in quella ottomana e non esistesse con una sua dinamica propria che avrebbe dato corpo nei decenni successivi allo sviluppo del nazionalismo arabo. I diritti delle minoranze nazionali e religiose, idealmente riconosciuti, sono subordinati alle necessità strategiche dell’alleanza britannica ottomana in chiave antirussa. Le rivendicazioni greche e serbe possono attendere. Le aspirazioni all’emancipazione dei cristiani d’oriente dal giogo islamico devono realizzarsi gradualmente, evitando di provocare una reazione xenofoba fra la popolazione islamica. Negli anni in cui Musolino redige le sue tesi, l’emancipazione degli ebrei è per i teorici del Risorgimento solo una questione di tempo. Per necessità, ancor prima che per una scelta valoriale. Perché una società moderna possa adeguatamente funzionare, la libera circolazione delle merci deve necessariamente comportare il diritto delle persone alla proprietà e alla loro libera circolazione e affermazione. Pur con contraddizioni e con delle battute d’arresto, il processo di emancipazione andrà avanti fino a quando nella seconda metà del secolo incontrerà una violenta reazione xenofoba non solo nei paesi oscurantisti, da cui gli ebrei erano fuggiti in massa dai pogrom, ma anche in quelli ritenuti più avanzati e ospitali, in cui erano affluiti in cerca di luoghi più ospitali. Paragonata al resto d’Europa, l’Italia appare in quegli anni un’isola felice. Gli ebrei sono presenti nel parlamento e nella politica, nell’industria e nelle università. Sono un asse portante dell’innovazione e della ricerca e sono presenti nell’esercito e nella polizia. Possono diventare ministri, ricoprire addirittura la carica di presidente del consiglio, diventare sindaco della capitale, prefetti e generali. Chi avrebbe mai pensato che trent’anni dopo, queste indubitabili conquiste, figlie di una stagione unica, sarebbero apparse come un mero inganno dei sensi, per parafrasare l’immagine del doppio sogno di Levi “una tregua”. Rimasto per lungo tempo sconosciuto, il libro di Musolino ha atteso un secolo prima di essere pubblicato. La sua opera più importante sul Risorgimento dovette attendere ancora (Giuseppe Mazzini e i rivoluzionari italiani, a cura di P. Alatri, Cosenza 1982). All’indomani della tragedia, quando ormai ci si doveva rassegnare all’idea che i deportati dall’Italia non sarebbero tornati e bisognava dare un nome e un senso al dolore, l’Unione delle Comunità israelitiche italiane rendeva omaggio a un esponente del Risorgimento che, con mezzo secolo d’anticipo, aveva formulato tesi analoghe a quelle in seguito sviluppate da Theodor Herzl, il padre fondatore del movimento sionista. Come a dire, in un gioco di rimandi simbolici con la ristampa delle Interdizioni di Cattaneo, che l’emancipazione degli ebrei e la rinascita di una vita nazionale ebraica indipendente nella terra dei padri erano da considerarsi inscindibilmente legate e non potevano essere declinate separatamente.
Post scriptum. Questo libro è pubblicato da Libri Liberi per iniziativa del Master Internazionale di II livello in Didattica della Shoah dell’Università di Roma Tre e dell’Associazione Europa Ricerca. La pubblicazione è stata realizzata col contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania. Salvo che per la correzione di alcuni refusi, l’attuale edizione ripropone la versione apparsa nel 1951 per iniziativa di Dante Lattes. L’edizione del libro è stata preceduta da due convegni, che hanno fatto da sfondo al percorso che ha reso possibile l’edizione del libro. Il convegno del 26 gennaio (“Risorgimento italiano e sionismo”) si è tenuto nella Sala Buzzati della Fondazione Corriere della Sera, con il coordinamento di Piero Ostellino, i saluti di Piergaetano Marchetti e Massimiliano Finazzer Flory, le relazioni di Shlomo Avineri, Marco Cuzzi, David Meghnagi e Alceo Riosa. Il convegno del 26 settembre si è tenuto nella Sala del Cenacolo della Camera dei Deputati. Si è aperto con la lettura dei messaggi inviati dal Presidente della Camera Gianfranco Fini e dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Le relazioni sono state tenute da Shlomo Avineri, Riccardo Di Segni, David Meghnagi e Saverio Musolino. La presenza di Avineri, uno studioso di Moses Hess, un esponente di primo piano del pensiero politico e filosofico tedesco e degli albori del sionismo, autore nel 1861 di Roma e Gerusalemme, è stata l’occasione per una riflessione comparata dei due Risorgimenti. Desidero ricordare Vittorio Rossi, con cui ho condiviso in questi anni un’importante collaborazione editoriale finalizzata alla lotta contro il pregiudizio antisemita e contro ogni forma di razzismo, e che in qualità di Presidente di Libri Liberi ha voluto con forza la ristampa di questo libro.