Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 18/01/2014, a pag.1-12, con il titolo "I miei 13 anni a raccontare l'America" il commento autobiografico di Maurizio Molinari sul percorso di corrispondente da New York a Gerusalemme.
Maurizio Molinari
Il 5 gennaio 2001, giorno del mio arrivo a New York, l’America è lacerata dall’esito della riconta in Florida, per strada sono in pochi a usare i cellulari, Facebook e Twitter ancora non esistono e il personale del mio hotel di Midtown si prepara a fronteggiare un’imponente nevicata. Sono passate poco più di due settimane da quando Gianni Riotta, condirettore,mi ha telefonato mentre ero sul treno da Anversa a Bruxelles, per comunicarmi la decisione presa assieme al direttore Marcello Sorgi: «Vai a New York, fa per te».Trovo una città e una Nazione concentrata dalla sentenza della Corte Suprema che ha assegnato a Bush la Florida e dunque la presidenza. Non si parla d’altro e la prima immagine che mi rimane impressa è Al Gore che, nelle vesti di presidente del Senato, annuncia all’aula e all’America la vittoria del rivale. Nel suo giorno più amaro, Gore esprime rispetto per le istituzioni e per l’avversario, patriottismo e distacco dalle emozioni. Diventa presidente un George W. Bush tentennante. Il discorso dell’inaugurazione non suscita emozioni, la prima battaglia sulla limitazione dell’uso delle cellule staminali è fiacca. Appare un leader debole ma per farmi cambiare idea basta seguirlo nel primo viaggio dopo la vittoria. Va a Guanajuato, a visitare il messicano Vicente Fox, ma ciò che più conta è la tappa precedente nella sua Crawford,Texas. Nazione, orgoglio e fede.
La Casa Bianca posiziona la sala stampa itinerante nel liceo vicino al ranch dei Bush. All’entrata ci sono i disegni dei bambini in cui si parla di «country », «proud», «faith» - nazione, orgoglio e fede - identificandoli con George W.
La stessa sera alla cena texana nel «Community Center» in mezzo ad ogni tavolo c’è uno stivale da cowboy, e non un cesto di fiori. Nella pancia dello Stato più grande d’America prevale il richiamo ai valori della tradizione e dunque il rifiuto degli anni dei Clinton, con troppi scandali per i gusti conservatori. GeorgeW. ha vinto perché è l’anti-Clinton ma non ha ancora una sua missione. Me ne accorgo anche nella Roosevelt Room della Casa Bianca quando, a inizio giugno, durante la prima intervista che mi concede si concentra su quanto fanno altri leader, e in particolare Giovanni Paolo II «il Papa delle libertà ». Al suo fianco c’è Karen Hughes, l’amica texana e consigliere più fidato, più lontano Condoleezza Rice. Lui guarda in continuazione la Hughes per cercare conferme. Nell’estate del 2001 New York pullula di eventi e colori ma si sente la mancanza di una piazza e a rimediare è il WorldTrade Center, offrendo lo spazio fra le Torri Gemelle a eventi musicali. Nella prima settimana di settembre tocca a complessi gaelici. É un trionfo di pubblico. Il 9 settembre parto con mia moglie per quella che sarebbe stata la vacanza più breve: appena sbarcato su una piccola isola greca ricevo la notizia dell’attacco alle Torri gemelle.
Non smonto nemmeno il bagaglio e prendo il primo traghetto di un viaggio di ritorno che durerà 4giorni. Non ho scordato la lezione:mai più una vacanza fuori dai confini americani. Appena lo spazio aereo americano viene riaperto riesco a salire sul primo aereo dell’Air Canada che decolla da Londra per Toronto, da dove una notte di auto mi porta all’alba di venerdì a varcare il George Washington Bridge dalle cui travi pende una gigantesca «Old Glory», la bandiera a stelle e strisce. Tra la polvere e l’orrore delle Torri La città è ammutolita, l’odore dell’aria è acre, Ground Zero è in una nuvola di polveri. La prima persona con cui parlo è il giovane portiere dell’Hotel Hudson: «Niente sarà mai più come prima». Sono le giornate che passo nell’accampamento dei volontari a GroundZero. Gente comune che si presenta davanti ai tendoni creati sulla West Highway per aiutare in qualsiasi modo. E applaude al passaggio dei camion dei pompieri, gli eroi di Midtown. Quando Bush sale su un mucchio di macerie e grida nel microfono «chi ha abbattuto questi edifici ci sentirà molto presto» è il giorno in cui l’America inizia a cambiare. Il presidente trova la sua missione perché è lanazione che vuole reagire per riscattarsi dall’orrore subito e dall’angoscia dei grappoli di foto di persone scomparse che coprono i muri di una Downtown ancora impolverata dalla cenere che contiene i resti delle vittime. L’America si ritrova nella trincea della guerra scatenata dai terroristi e la mia vita,come quella di ogni newyorchese, cambia. Si teme un nuovo attacco, questa volta con i gas. Nella profumeria su Madison Avenue mettono in vendita le maschere antigas, nelle case si preparano le «stanze protette », la tv consiglia di «spostarsi verso l’alto» se «si annusano odori acri, insoliti, strani». Le lettere all’antrace minacciano chiunque tocchi la posta. Aver vissuto a Gerusalemme, quando studiavo Scienze Politiche, mi aiuta a comprendere la reazione dei newyorchesi. Ripetono il comportamento degli israeliani davanti agli attentati: niente pathos, seguono le istruzioni date da radio e tv, si fidano di chi indossa una divisa e contano sulle truppe per braccare l’avversario. «United We Stand», siamo uniti, è il motto della «resilience» - la capacità di resistere - che consente ai cittadini di riprendere la vita ma con una consapevolezza in più: il nemico può attaccare ovunque e veste abiti civili. I 19 kamikaze di Al Qaeda sono tutti musulmani e la comunità islamica ad Atlantic Avenue si chiude a riccio, teme il peggio.Ma avviene l’opposto: i vicini di casa bussano alle porte delle famiglie arabe per portare dolci. È una scena che rimane impressa: nasce dalla convinzione popolare che includere significa essere più forti.Si spiega così anche quanto mi dice un tassista pakistano, accorgendosi dell’accento straniero: «È qui da pochi mesi? Bene, lei è un baby-newyorker». Ricordo di essermi chiesto in quale altra città europea, o del mondo,mi avrebbero detto altrettanto.L’America è più unita ma è in trincea. Me lo spiega Condoleezza Rice in un incontro nel suo ufficio nella West Wing durante il quale ciò che colpisce è la forza dello sguardo: non lascia mai gli occhi dell’interlocutore, non guarda gli appunti o i collaboratori, sa cosa vuole dire e si ferma solo dopo averlo fatto. In confronto Paul Wolfowitz, il vicecapo della Difesa fautore dell’intervento in Iraq, è assai meno teso quando da dietro la scrivania in legno pesante al Pentagono mi spiega perchè «la guerra ad Al Qaeda non si fermerà all’Afghanistan». Fra i leader politici ed economici intervistati in questi anni l’unico ad avermi ricevuto senza cravatta, e con il colletto sbottonato, è stato Henry Kissinger. In una stanza del St Regis di Roma, dopo un inseguimento sui cieli dell’Atlantico durato tre giorni, alle 23 passate e con l’intento di parlare non di politica internazionale ma di «un grande italiano che amava l’America»,GianniAgnelli.Quando veniva nell’ufficio de «La Stampa» al Seagram Building l’Avvocato mi subissava di domande su Bush, Cheney, Rumsfeld e Powell. Posava il bastone con la testa argentata su un tavolo di legno circolare e iniziava ad approfondire ogni dettaglio. Voleva sapere dove andava l’America e quali ripercussioni ci sarebbero state in Europa e in Italia. «La sua preoccupazione costante è stata tenere America ed Europa legate»mi disse Kissinger. Accampato nella città fantasma Bush nel 2004 vince a valanga la rielezione grazie al genio di Karl Rove ma l’anno seguente la sua presidenza finisce di fatto nel disastro di Katrina, l’uragano che nell’agosto 2005 inonda New Orleans. La città è isolata e irraggiungibile, così mi accampo a Baton Rouge. Dormo per una settimana sul divano della lobby di un hotel occupato dai profughi ed è uno di loro che mi spiega come entrare, via terra, nella città allagata. Prende la piantina e indica la strada, sfruttando ponti e autostrade sopraelevate. Arrivato fra i disperati del Dome assisto a scene di degrado e violenza che saranno superate, quattro anni dopo, solo da Port-au-Prince divorata dal terremoto di Haiti, con le strade coperte di cadaveri.
Obama e l’era dei social network
L’America di Barack Obama debutta con un messaggio video che brucia sul tempo la rivale Hillary Clinton e fotografa un’America dove i cellulari sono invecchiati in fretta e l’informazione è divenuta digitale: domina Facebook, la Casa Bianca comunica via email con i reporter, i social network impongono ai candidati di «conversare» con gli elettori e solo il «Team O» si dimostra capace di farlo. Il primo presidente afroamericano che si ispira ad Abramo Lincoln è anche il primo a rappresentare una nazione protagonista dell’«Information Technology ». Nell’Election Night che lo porta alla Casa Bianca l’intero parterre di reporter, in un capannone gigante nel Grant Park di Chicago, è gestito da un’unica volontaria capacedi ottimizzare l’uso dell’hi- tech del XXI secolo. Ma sull’«Air Press One», l’aereo charter dei giornalisti al seguito del presidente, l’eccesso di nuove tecnologie non piace troppo perché Obama e il suo team comunicano sempre più via web, mentre Bush e i suoi passavano più tempo a discutere in carne ed ossa. Più crescono i social network più Barack li usa, preferisce gli «hangout» alle conferenze stampa, le visite aTwitter ai colloqui con il «NewYork Times», le foto diffuse via Instagram a quelle scattate dai fotoreporter. Il risultato è un presidente che centra facilmente la rielezione, grazie ad un genio dei supermercati arruolato dalla campagna,ma il suo quartier generale è una fortezza impenetrabile. Per tregiorni sosto davanti all’entrata al 130 East Randolph Street, a Chicago,ma è tutto inutile: ottengo solo una scarna email «qui non si entra». Determinato nell’estendere i diritti del ceto medio e convinto nemico della povertà,Obama porta l’InformationTechnology alla Casa Bianca e ricostruisce l’America dal di dentro, sanando molte delle ferite ereditate dalla crisi finanziaria del 2008. A fotografare i cambiamenti portati da Obama sono le lacrime di John Lewis, il deputato afroamericano ex compagno di battaglie d iMartin Luther King, che nel giorno del primo giuramento di Barack mi dice «iniziò tutto marciando senza violenza» come anche la confessione di Michael Walzer davanti al trionfo delle nozze gay: «Ammetto, non l’avevo previsto».Ma la ferita più profonda sono gli scatoloni dei dipendenti di LehmanBrother, licenziati in tronco nel giorno del crack del 15 settembre 2008 che travolge le vite dimilioni di persone. Per sanarla del tutto non sono bastati cinque anni anche se ho capito che il peggio era alle spalle quando, in agosto,una broker immobiliare mi ha confessato: «Mai venduto tanti appartamenti ancora non costruiti».
Barricati in casa a NewYork
L’intervista che «44»mi concede nel 2012 è frutto della volontà di abbracciare Mario Monti prima ancora del suo arrivo a Washington. L’impegno del «Team Obama» è massiccio, capillare, perché il presidente è convinto che «l’Italia va nella giusta direzione»liberandosi di Silvio Berlusconi, con cui ha convissuto politicamente ma che non ha mai amato. Già durante la campagna del 2008 una portavoce di Barack liquida Berlusconi come «uomo del passato» e nel 2011 il giudizio, questa volta di uno dei più stretti collaboratori del presidente, si spinge a definire il premier italiano «radioattivo »: nessuno vuole stargli accanto, nemmeno per una foto. Ma anche Monti si rivela una meteora e a Washington l’italiano più costante si rivela così Sergio Marchionne, grazie al salvataggio di Chrysler, uno degli argomenti-chiave della Convention di Charlotte che spiana la strada alla rielezione.
Tredici anni dopo, l’America che lascio per Gerusalemme è una nazione che Bush ha saputo difendere e Obama è riuscito a rinnovare ma possono esserci pochi dubbi sul fatto che per me, mia moglie e i nostri quattro figli nati a Manhattan le prove più difficili siano venute dal clima estremo. Gli uragani Irene e Sandy hanno portato i venti-killer dei Tropici nel cuore di cristallo della Grande Mela obbligandoci a vivere barricati in casa, con ascensori bloccati, scorte di cibo, torce e galloni di acqua a volontà. Fino al record di gelo registrato a Central Park proprio mentre uscivo con le valigie per il viaggio verso la mia nuova casa in Medio Oriente.
Per inviare alla Stampa la propria opinione, cliccare sulla e-mail sottostante