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L'Espresso Rassegna Stampa
17.01.2014 Quando Claude Lanzmann incontrò Benjamin Murmelstein
commento di Wlodek Goldkorn

Testata: L'Espresso
Data: 17 gennaio 2014
Pagina: 84
Autore: Wlodek Goldkorn
Titolo: «Se questo è un giusto»

Riportiamo dall'ESPRESSO di oggi, 17/01/2014, a pag. 84, l'articolo di Wlodek Goldkorn dal titolo "Se questo è un giusto".


Benjamin Murmelstein con Claude Lanzmann


David Meghnagi con Wolf Murmlestein
Per maggiori informazioni sul film Wolf, cliccare sul link sottostante
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=999930&sez=120&id=51539

Quando Claude Lanzmann apre la porta del suo appartamento a Montparnasse a Parigi, la prima cosa che il visitatore vede è un gigantesco poster di "Shoah" appeso alla parete di Fronte. "Shoah" è il film di dieci ore e 13 minuti che l'intellettuale e regista francese presentò al mondo nel 1985. Quel capolavoro rivoluzionò la storia del cinema, il modo con cui guardiamo l'Olocausto e le opere d'arte dedicate allo sterminio degli ebrei. Simone de Beauvoir, filosofa, scrittrice, compagna di vita di Jean-Paul Sartre, ne ebbe a dire: «Abbiamo letto, dopo la guerra, un gran numero di testimonianze sui ghetti, sui campi di sterminio; ne eravamo sconvolti. Ma oggi ci accorgiamo di non aver saputo niente". Spostando lo sguardo verso sinistra sempre nell'ingresso, c'è una fila di scaffali con la collezione di "Les Temps Modemes", rivista fondata da Sartre, e che dal 1986 è diretta dal padrone di casa. Poi si entra nel cuore del territorio in cui si muove la ragione e l'immaginazione di Lanzmann. Nel grande e luminoso studio (una parete di vetro è alle spalle della scrivania) che serve pure da salotto, oltre ai soliti libri, oltre alla statuetta dell'orso d'Oro, premio conferitogli alla carriera al Festival di Berlino un anno fa, si sente forte la presenza della de Beauvoir e di Sartre. Simone è stata l'amante ufficiale di lanzmann per molti anni. Jean-Paul, maestro e amico. Di lei si vedono tantissime foto. Anche di Sartre ce ne sono, ma meno. Uno scaffale, con tanto di targhetta, è dedicato alle opere di lei. Un altro (sempre con la targhetta) ai libri di lui. Sul tavolo da caffè, volumi posati in una decina di strati l'unosopra l'altro. In alto: le opere di Camus e diverse copie di "Un vivant qui passe", libro trascrizione del testo dell'omonimo film in cui Lanzmann intervistava Maurice Rossel: svizzero, ai tempi della seconda guerra mondiale delegato della Croce Rossa a Berlino. Rossel potè visitare Auschwitz. nel 1943. Un anno dopo era, sempre con la delegazione della Croce Rossa,a Theresienstadt, considerato, a sua volta, il "ghetto modello" voluto dai tedeschi sulla terra della ex Cecoslovacchia: la propaganda nazista ci ha girato un film celebre, intitolato "Il Fiihrer dona una città agli ebrei". Vi si vedono ebrei che suonano musica, giocano a calcio, mangiano bene in linde mense, assistono a spettacoli teatrali, usufruiscono di ottimi servizi medici. ll regista, Kurt Gerron (ebreo lui stesso, costretto dalle Ss a questo lavoro), poco dopo aver compiuto la sua opera venne deportato ad Auschwitz e assassinato. E di Theresienstadt parla l'ultimo film di Lanzmann, presentato al Festival di Cannes,e cheora, perla giornata della memoria, si potrà vedere in Italia. Ghetto modello, dunque: in quel luogo, i nazisti rinchiusero circa 140 mila ebrei; per Io più boemi, austriaci, tedeschi; quindi di lingua germanica, appartenenti a ceri medioalti. Erano musicisti, artisti, professori. A Theresienstadt sono state deportate le sorelle di Freud. E anche Ottla Kafka, la sorella di Franz: si offrì volontaria per accompagnare bambini orfani nell'estremo viaggio ad Auschwitz. Finì trasformata in fumo nel cielo grigio della Polonia. E come in tutti i ghetti, anche in quel luogo i tedeschi vollero che gli affari quotidiani fossero sbrigati da una specie di consiglio ebraico, lo Judenrat, con a capo lo Judenaeltesre (il decano degli ebrei). In genere i capi degli Judenrat, se non sono morti suicidi, come fu il caso di Adam Czerniakowdi Varsavia (si tolse la vira quando seppe dell'imminente deportazione dei suoi concittadini),venivano trucidati dai nazisti, quando diventavano inutili o ingombranti. L'unica eccezione ne: Benjamin Murmelstein, l'ultimo decano di Theresienstadt. Ed èlui il protagonista del film "L'ultimo degli ingiusti", appunto. Ingiusto perché così si definisce Murmelstein stesso. Nel 1975, Lanzmann va a trovarlo a Roma. Non ha ancora cominciato a girare "Shoah", ma è interessato a parlare con quell'uomo che aveva la nomea di collaborazionista e di cui il grande studioso della storia Gershom Scholem scrisse: «Gli ebrei dovrebbero impiccarlo». Rabbino di formazione, nato nel 1905 a Leopoli, trasferitosi a Vienna e diventato esponente importante della comunità locale, nel 1938 dopo l'annessione dell'Austria alla Germania, la sua strada incrocia quella di Eichmann, lo specialista della questione ebraica incaricato di accelerare l'emigrazione degli ebrei dal Paese. Arrestato dai cecoslovacchi a] termine della guerra, assolto da un tribunale, approda a Roma. Commercia in mobili. Frequenta da studioso le biblioteche della Santa Sede. Nel 1961 pubblica un libro sulla sua esperienza cotto il nazismo. Non gli è permesso di far parte della comunità ebraica e quando muore, nel 1989,gli viene assegnato un posto ai margini del cimitero; quello riservato agli infami. Lanzmann lo riabilita. All'inizio dell'intervista il regista sembra diffidente. Alla fine, sotto l'arco di Tito (simbolo della sconfitta degli ebrei ma anche della sopravvivenza), lo ringrazia per la sua amicizia. Sono passati da allora 38 anni. E nel suo studio oggi Lanzmann (che sarà in Italia per presentare il film a partire dal 26 gennaio) ricorda il contesto di allora.Ai tempi dell'incontro si era ad appena una dozzina di anni dal processo Eichmann a Gerusalemme e a quello dei funzionari di Auschwitz a Francoforte. Era fresca anche la memoria della guerra in Algeria. la condanna dei nazisti (per niente scontata nell'atmosfera della guerra fredda) e la denuncia delle torture e della brutalità colonia lista definivano la scomoda e coraggiosa posizione politica e culturale del gruppo di "[.es Temps Modernes". Ma allora perché Lanzmann, un intellettuale di sinistra e antifascista, era andato a cercare un uomo considerato un collaborazionista? «Non sono mai esistiti collaborazionisti ebrei, risponde: «C'erano francesi collaborazionisti, belgi collaborazionisti; gente che ha condiviso l'ideologia nazista. Per gli ebrei era diverso: erano persone che non avevano scelta; costrette, con forza brutale o con la menzogna a fare ciò che hanno fatto. Avevo letto molto su questo tema, compreso il monumentale volume dello storico Isaia Trunk "Judenrat". Là si citano casi di consigli ebraici dove tutti si erano suicidati». Ma Murmelstein, appunto non si era suicidato. Mancanza di coraggio? Voglia di vivere a qualunque costo? Sono domande pesanti; e poi come si fa a giudicare oggi? Murmelstein, nel film prova a rispondere. Ed èconvincente,anche grazie all'empatia mostrata da Lanzmann. Dice di aver messo in atto la strategia di Sheherazade, l'eroina di "Mille e una notte": inventarsi narrazioni che il potere ritenesse talmente importanti da non mandare a morte chi racconta. Faccia arguta, occhi vivaci, sapienza antica, Murmelstein dice: «Sono stati i nazisti a trasformare Theresienstadt, con le visite della Croce Rossa, in un luogo di cui il mondo intero conosceva l'esistenza. Quindi sarebbe stato difficile sopprimerci.. Per mettere in atto questa strategia della visibilità e dell'essere indispensabili ai fini di propaganda e della guerra occorreva disciplina e un rapporto di fiducia coi nazisti. Lui aveva così introdotto una settimana di lavoro di ben 70 ore. Ma ha anche instaurato condizioni di sanità accettabili (stupefacente il racconto di come aveva debellato l'epidemia di tifo). E ha abbattuto i privilegi dei potenti (si fa per dire) del ghetto. Si è assunto molte responsabilità pur di proteggere la sua gente dai nazisti. Infine, insiste sul fatto che era consapevole di essere un" re da camevale»,uno schiavo che poi sarebbe stato ucciso. Gli è andata bene, forse perché, parole sue, più che El-Cid, cavaliere coraggioso e coerente era un Sancho Panza,servo realista. Ma poi, tra le righe viene fuori che il coraggio non gli mancava. Racconta di essere stato l'unico ebreo autorizzato a star seduto alla presenza di Eichmann. Ha giocato col diavolo, Murmeistein. Ha vinto? Lanzmann sorride: «Sa perché non ho messo questa intervista dentro il mio "Shoah" ? Perché "Shoah" è un film epico.E questa non è una storia epica. Spiega: «Sono arrivato da Murmelstein perché mi interessava la questione del presunto collaborazionismo degli ebrei». Infatti, molto si è parlato del ruolo dei Consigli ebraici nei ghetti. Hannah Arendt ne sottolinea il ruolo nel celebre libro "La banalità del male". La filosofa sosteneva che senza il loro apporto organizzativo e senza la loro convinzione che occorresse obbedire alle autorità, anche naziste, per i tedeschi sarebbe stato più difficile sterminare le loro vittime. Ne era convinto anche uno dei più importanti storici dell'Olocausto, Raul Hilberg ("La distruzione degli ebrei"). «Hilberg è stato ingiusto con Murmelstein e crudele nei confronti dei membri degli Judenrat », dice oggi Lanzmann. «Ma gli ho fatto cambiare idea su questo tema. Sono stato io a far tradurre i Diari di Czemiakow (il capo suicida dello Judcnrat di Varsavia) in americano. Leggendoli, Hilberg ha capito il dramma di queste persone e ha cambiato prospettiva». Poi, continua il racconto delle giornate romane: «Probabilmente ero in preda a una follia. Ma ogni giorno, dalla mattina e fino a sera, mettevo in moto la cinepresa per parlare con Murmelstein. I colloqui li abbiamo fatti all'Hotel Nazionale, soprattutto sulla terrazza. Non avevo un produttore prontoa sostenere una simile iniziativa». Ammette: «Dopo una settimana di conversazioni ho provato una simpatia fraterna per lui. Ero rimasto incantato dalla sua intelligenza; dal suo senso dell'umorismo, dalla sua furbizia e sapienza». Precisa: «All'inizio Murmelstein non voleva parlare. Ci ho messo del tempo per convincerlo. Quando ha cominciato non voleva raccontare i dettagli. Ma era necessario che dicesse tutto». E infatti Murmelstein rivela pure i particolari più scabrosi della sua attività; e non risparmia i suoi predecessori nello judenrat di Theresienstadt. Lanzmann comunque era preparato. Testimonia: «Prima di venire a Roma sono stato a Gerusalemme per vedere il numero due dello Judenrat di Kaunas in Lituania: I ejb Garfunkel. Fra malatissimo. Sua moglienon voleva farci incontrare ( "Lei rischia di ucciderlo con le sue domande", diceva). i Io l'ho supplicata: "Mi ci faccia parlare". Lui si è rivelato un uomo adorabile. E solo dopo quei due colloqui mi sono deciso a fare "Shoah" ». Alla domanda se Murmelstein gli aveva parlato della comunità di Roma, dove era "l'innominabile", quasi una damnatio memoriae in vita, risponde: «No. Neanche una parola». Poi ricorda che il protagonista del film, prima della guerra, aveva accompagnato un rabbino di Vienna verso l'esilio a Londra, che poi decise di tornare a Vienna per occupparsi della sua gente e che l'allora gran rabbino deIl'Impero britannico gli disse: «Onore al rabbino che torna a casa non a quello che fugge». Murmelstein era un eroe? Lanzmann tace, poi sussurra: «La sua è stata una vita eroica. E nel mio film è sincero e onesto. Lui non ha ammazzato nessuno Il mio nome è Wolf e non ha compilato liste di deportati». Il discorso si sposta sulla possibilità di fare della fiction sull'Olocausto. E sul fatto che lui, Lanzmann, ha severamente criticato Steven Spielberg per il suo "Schindler's List". «Abbiamo avuto un conflitto serio. Ontologico. Su cosa è la Shoah e cosa ne può fare il cinema», dice. Poi racconta di aver incontrato il regista americano a Can-nes e di aver ricevuto i suoi complimenti. Infine tira fuori una lettera, firmata Steven Spielberg. Un capoverso comincia con le parole : « Your film about Murntelstein has knocked the wind out of me» (il suo film su Murmelstein mi ha tolto il respiro). Prima di congedarsi Lanzmann lancia una provocazione: «Nessuno è stato ad Auschwitz. Nessuno. Prenda il caso degli ebrei ungheresi. Ci sono le foto della donne (ma anche degli uomini) sulla rampa di Birkenau nel 1944, in preda all'angoscia, che sentono che sta per succedere il peggio, ma non lo possono immaginare. Loro sono stati scelti per morire subito. Ma non hanno conosciuto Auschwitz. Sono morti nelll'oscurità delle camere a gas. Sono morti senza aver preso coscienza della propria morte... E i testimoni diretti come Primo Levi? Sta parlando di coloro che sono stati scelti per vivere. Loro non hanno conosciuto l'esperienza delle camere a gas. Primo Levi lo capiva benissimo. Non ci sono testimoni delle camere a gas...». Ma se è così, e dato che gli ultimi superstiti della Shoah stanno scomparendo, come preservare la memoria? ..Non faccia domande simili! La memoria è preservata. Infatti, ne stiamo parlando. E se ne parlerà ancora ».

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