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Il Foglio Rassegna Stampa
16.01.2014 L'islam non c'entra con la violenza. Se lo dice il terrorista dell'11 settembre...
commento di Mattia Ferraresi

Testata: Il Foglio
Data: 16 gennaio 2014
Pagina: 3
Autore: Mattia Ferraresi
Titolo: «La mente dell’11/9 ci spiega che la violenza è estranea all’islam»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 16/01/2014, a pag. 3, l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo "La mente dell’11/9 ci spiega che la violenza è estranea all’islam".


Mattia Ferraresi    Khalid Sheikh Mohammed

La titolazione del pezzo è ambigua, sembra quasi che prenda sul serio il testo del terrorista Khalid Sheikh Mohammed, responsabile dell'attentato dell'11 settembre.
Nel pezzo si legge "
Quello che ora il terrorista vuole spiegare al mondo è che tutto questo non è stato compiuto in nome dell’islam: “Il Corano ci concerta proibisce di usare la forza come mezzo per la conversione” e aggiunge che la via che porta alla verità “non passa dai muscoli e dalla forza, ma dalla mente e dalla saggezza”. Il motivo di un’aggressione che definisce legittima non è squisitamente religioso, ma politico, è una risposta agli attacchi dell’America contro i musulmani e una vendetta proporzionata contro il sostegno dato a Israele in funzione anti islamica.".
La violenza, quindi, è legittima, ma non dettata dall'islam. Interessante.
Quindi le lotte intestine fra musulmani che si scannano nei vari Paesi islamici non hanno nulla a che vedere con la fede? un musulmano che ne uccide un altro, non dovrebbe essere condannato a morte, come non si stancano di ripeterlo per quanto riguarda gli 'infedeli' ? E l'odio per Israele ?
L'odio per gli occidentali non è dettato da motivi religiosi? E allora che cosa significano tutte le citazioni del Corano che infarciscono  i discorsi dei terroristi islamici?


Ecco il pezzo:

New York. La prima parte del manifesto ideologico-politico della mente dell’11 settembre, Khalid Sheikh Mohammed, ottenuta e pubblicata dall’Huffington Post, si apre con un esergo tratto dal Corano sulla perseveranza dei fedeli contro il male. Il versetto è accompagnato, per contrasto, da una serie di citazioni di “crociati” occidentali – così chiama anche i suoi carcerieri di Guantanamo, dove sta affrontando il processo davanti a una Corte militare – a cui il testo si rivolge. Una delle frasi è uno stralcio del dialogo fra l’imperatore Manuele II Paleologo e un colto persiano che Benedetto XVI ha reso universalmente noto nel grande discorso all’Università di Ratisbona: “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava”. Con un refuso che potrebbe offrire il destro a interpretazioni psicoanalitiche, Khalid Sheikh Mohammed data il discorso di Ratisbona al 12 settembre 2000 – in realtà è del 2006 – un anno prima che l’attacco da lui pianificato contro l’America fosse tragicamente eseguito e che l’occidente prendesse a riflettere sul rapporto fra islam e violenza. Allora la guerra al terrore era inimmaginabile per l’America ma non per Khalid Sheikh Mohammed, ingegnere meccanico laureato in North Carolina che già nel 1994, nelle Filippine, si rigirava nella testa l’idea di riempire di esplosivo aerei di linea pieni di passeggeri americani o di far schiantare un ultraleggero sulla sede della Cia a Langley. Nel 1996, nelle grotte di Tora Bora, ha presentato a Osama bin Laden la bozza del piano che, una volta compiuto, avrebbe superato anche i suoi più deliranti sogni di terrore. Quello che ora il terrorista vuole spiegare al mondo è che tutto questo non è stato compiuto in nome dell’islam: “Il Corano ci concerta proibisce di usare la forza come mezzo per la conversione” e aggiunge che la via che porta alla verità “non passa dai muscoli e dalla forza, ma dalla mente e dalla saggezza”. Il motivo di un’aggressione che definisce legittima non è squisitamente religioso, ma politico, è una risposta agli attacchi dell’America contro i musulmani e una vendetta proporzionata contro il sostegno dato a Israele in funzione anti islamica. Le 36 pagine pubblicate ieri costituiscono un sommario della banalizzazione del male, passaggio interpretativo dalla guerra fra fedeli e infedeli a quella fra oppressori e oppressi, vicenda che si risolve nei termini della politica estera, non in un’apocalisse di civiltà: “Non credete a quelli che vi dicono che i mujaheddin combattono gli infedeli per convertirli all’islam o che vi combattiamo perché praticate la democrazia, la libertà e dite di rispettare i diritti umani”. Chiunque suggerisca un collegamento strutturale fra l’islam e la violenza, che sia un imperatore bizantino o Nixon che descrive il pregiudizio diffuso fra gli americani sui musulmani, viene contrastato dalla paradossale lettura “laica” della guerra al terrore offerta da Mohammed. I servizi d’intelligence occidentali, dice, “nascondono il motivo per cui i mujaheddin hanno compiuto gli attacchi dell’11 settembre e la verità sulla guerra al terrore”. Più che la disfida eterna fra versioni incompatibili della verità o la conversione coatta dell’occidente è il principio di azione- reazione il motivo che emerge in queste pagine condite, naturalmente, di deliranti teorie del complotto su servizi segreti, dominazione ebraica e cospirazione dei media perfettamente sovrapponibili a quelle che l’occidente ha prodotto da sé, senza bisogno della dichiarazione scritta del terrorista. L’immagine del soldato in lotta contro il nemico è anche quella che Mohammed ha sottolineato scegliendo di presentarsi alle udienze preliminari di quello che chiama un “kangaroo trial”, un processo farsa, con la divisa mimetica e la barba tinta con succo di frutta (in mancanza dell’henné) al modo dei pashtun: una divisa bellica, non sacerdotale.

Il mio spirito è libero

Khalid Sheikh Mohammed ha concepito il suo manifesto in tre parti. Quella pubblicata – che porta la data del 31 ottobre 2013 – è un “invito alla felicità” per i “crociati” che stanno amministrando il processo, vergata per “compiere il mio dovere religioso di invitare tutti i non musulmani con cui ho a che fare a convertirsi all’islam”. La seconda parte, su cui sta ancora lavorando, dovrebbe spiegare nel dettaglio le motivazioni dell’11 settembre, mentre la terza si concentra sulle “vere ragioni” della guerra al terrore scatenata dagli Stati Uniti, presumibilmente giustificando con quell’atto di aggressione tutte le violenze venute dopo l’11 settembre, anche la morte del giornalista ebreo americano Daniel Pearl, che Mohammed dice di avere decapitato con le sue mani. Le confutazioni della Trinità e della divinità di Gesù, che non scintillano per rigore teologico, e le occasionali intemerate contro Israele, che non scintillano per originalità, non sono le parti più interessanti di questo documento storico. Più rilevante è il capitolo sulla “strada smarrita della felicità per l’occidente”. Mohammed spiega che grazie alla sua fede “vivo in isolamento ma sono molte felice perché il mio spirito è libero anche se il mio corpo è tenuto prigioniero”, mentre “il Dio degli occidentali dice che gli uomini e le donne possono fare tutto ciò che vogliono” ma tutta questa libertà conduce all’infelicità. Se un Parlamento lo decide “un uomo può sposare un uomo e una donna può sposare una donna, ma questi sono crimini sociali e porteranno soltanto infelicità nelle loro vite, distruggeranno le famiglie e questo distruggerà la società”. E’ qui che il terrorista traccia la linea di demarcazione culturale fra l’islam oppresso e libero e l’occidente sazio e infelice, cultura sfibrata “dal divorzio, dagli stupri, dagli omicidi, dai suicidi, dalla depressione, dall’aborto, dai disturbi psicologici e dalla droga”; e tutto questo, sostiene Mohammed, è il frutto marcio del pensiero di “Darwin, Marx, Freud, Durkheim e tutti gli altri che non hanno voluto seguire la legge di Dio”. “Allo stesso modo – continua – centinaia di americani si arruolano nell’esercito, con l’equipaggiamento più avanzato e il miglior cibo in Afghanistan e in Iraq, e giocano alla PlayStation mentre i musulmani non hanno nemmeno una giacca per ripararsi dal freddo sulle montagne; ma alla fine i soldati americani tornano a casa e si suicidano”. Questo, e non quello sul campo di battaglia, è lo scontro di civiltà che il terrorista vuole mettere nero su bianco.

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