Israele, l’addio a Sharon con i razzi da Gaza cronaca di Maurizio Molinari, commenti di Carlo Rossella, Carlo Panella, Giulio Meotti
Testata:La Stampa - Il Foglio Autore: Maurizio Molinari - Carlo Rossella - Carlo Panella - Giulio Meotti Titolo: «Parlando di guerra e pace nel ranch dell’eroe informale Sharon - La pietà di Sharon - Ha insegnato agli ebrei come sopravvivere in medio oriente»
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 14/01/2014, a pag. 12, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Israele, l’addio a Sharon fra razzi e mugugni Usa ". Dal FOGLIO, a pag. 2, l'articolo di Carlo Rossella dal titolo "Parlando di guerra e pace nel ranch dell’eroe informale Sharon", a pag. I, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " La pietà di Sharon ", l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " Ha insegnato agli ebrei come sopravvivere in medio oriente ".
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Israele, l’addio a Sharon fra razzi e mugugni Usa "
Maurizio Molinari la bara di Ariel Sharon
Alle esequie di Ariel Sharon si sovrappongono memoria e diplomazia. Prima davanti alla Knesset, il Parlamento di Israele, e poi nel ranch dei Sicomori nel Negev, sono i leader nazionali a rendere omaggio alla memoria dell’ex premier. «La sicurezza di Israele si è retta sulle spalle di Sharon» dice il presidente Shimon Peres mentre il premier Benjamin Netanyahu lo definisce «uno dei più grandi generali della Storia del popolo ebraico». Ma quando prende la parola Joe Biden, vicepresidente Usa, è la diplomazia che irrompe nella cerimonia. «Sharon era un coraggioso la cui stella polare è sempre stata la sicurezza del suo popolo ma è stato anche un leader controverso» dice Biden, sottolineando come «la scelta più controversa fu quella che prese chiedendo a diecimila israeliani di lasciare le loro case a Gaza al fine di rafforzare Israele». Il richiamo di Biden alla decisione di Sharon di ritirarsi dalla Striscia di Gaza nel 2005, collegandolo all’imperativo della sicurezza di Israele, assomiglia ad un messaggio a Netanyahu, quasi a indicargli che c’è un precedente a cui richiamarsi nell’attuale trattativa con l’Autorità palestinese di Abu Mazen per raggiungere un accordo sulla fine del conflitto. Anche Tony Blair, ex premier britannico inviato del Quartetto (Onu, Usa, Ue e Russia) in Medio Oriente, sottolinea l’eredità politica del ritiro da Gaza: «Sharon è stato un leader coraggioso e un uomo di pace». Marta Dassù, viceministro degli Esteri presente per l’Italia, riassume: «Per noi europei battersi per la soluzione di due Stati è il modo migliore per sviluppare l’eredità di Sharon: la sicurezza di Israele come Stato ebraico e democratico». Netanyahu si mostra consapevole di dover fare i conti con l’eredità dello smantellamento dei 21 insediamenti ebraici dalla Striscia: «Sharon fu anche un pragmatico, con il quale non sono sempre andato d’accordo» dice, evocando proprio il dissenso politico rispetto al ritiro del 2005 che lo portò a diventare leader del Likud. La presenza di un folto numero di plenipotenziari stranieri, a cominciare dagli inviati di Mosca e Pechino, innesca un vortice di incontri a latere con Biden ancora protagonista in serata per i bilaterali con Peres e Netanyahu al fine di approfondire i temi nell’agenda del negoziato condotto dal Segretario di Stato, John Kerry. «Israele va incontro a scelte difficili» riassume Peres accogliendo il vicepresidente Usa. La scelta di Biden e Blair di sottolineare il ruolo di Sharon come «uomo di pace» punta ad esercitare pressioni su Netanyahu ma non è condivisa dall’Autorità palestinese. «È un errore grave, Sharon fu soprattutto un eroe negativo delle guerre regionali» dice l’ex negoziatore Nabil Shaat e Hanan Ashrawi, consigliere di Abu Mazen, aggiunge: «Scegliendo sempre la violenza minò la pace possibile». E Hamas si fa sentire con il lancio di almeno un razzo da Gaza durante le esequie, portando l’aviazione israeliana a reagire colpendo il luogo da dove era partito, senza causare vittime.
Il FOGLIO - Carlo Rossella : " Parlando di guerra e pace nel ranch dell’eroe informale Sharon "
Carlo Rossella Ariel Sharon
Al direttore - Oggi si terranno in Israele i funerali di Ariel Sharon. Non posso parteciparvi ma piango quell’uomo come tutto il popolo di Israele. Ebbi modo, quando ero prima inviato e poi direttore del settimanale Panorama, di incontrare Sharon diverse volte, a Gerusalemme o nella sua fattoria, “il ranch dei sicomori” dalle parti di Sderot, nel deserto del Negev. Una proprietà bella e prospera, fiore all’occhiello dell’agricoltura israeliana e della perizia agronomica di Sharon. Lui stesso, in auto o a piedi, mi accompagnò nella visita fra i campi, cogliendo quelle melanzane che poi avrebbe fatto cucinare sulla piastra all’ora di colazione. L’ultima volta che incontrai Sharon fu ai primi di maggio del 2002. Lui era premier e aveva dovuto interrompere un viaggio negli Stati Uniti a causa di un criminale attentato terroristico palestinese. Il sette maggio, un martedì, mentre stava per lasciare la Casa Bianca dopo il colloquio col presidente George W. Bush, gli era giunta la notizia che i terroristi avevano colpito a Rishon Lezion, alla periferia industriale di Tel Aviv. Il kamikaze era entrato in una sala giochi piena di giovani: 16 i morti, 60 i feriti. Una strage firmata da Hamas. Sharon partì subito per Tel Aviv, onde star vicino al suo popolo e per organizzare la risposta. Lo vidi proprio nel ranch, in quelle ore difficili, terribili, per Israele. Era seduto al tavolo del soggiorno che dà ancora oggi sul giardino della residenza. Due divani, quattro poltrone e un gran tavolo da disegno, con tante sedie attorno. Fui fatto accomodare su un sofà accanto alla grande finestra dalla quale si vedevano le palme muoversi per il leggero e caldo vento. Lui stava dall’altro lato dello stanzone con una decina fra generali e ufficiali. Sul tavolo una grande carta militare, con tanti segni rossi. Sotto il tavolo due nipotini di Sharon giocavano con in mano due carri armati giocattolo e si muovevano fra le gambe dei militari. Sharon fu molto premuroso con me. Mi fece servire dell’acqua fresca e del tè, mi fece accompagnare, visto che la riunione si prolungava, a fare una passeggiata nella fattoria. Verso le cinque, finalmente parlammo. Mi chiese dell’Italia, di Berlusconi (allora a Palazzo Chigi), della sinistra, dell’economia, del rapporto coi paesi arabi. Sapendo le sue abitudini gli diedi risposte molto stringate, visto che non gli sono mai piaciute le persone verbose. Vestiva con camicia dalle maniche corte, portata fuori dai pantaloni kaki e col collo aperto dei coloni, alla maniera di Ben-Gurion. Ai piedi un paio di sandali. Il primo ministro di Israele era un uomo informale, simpatico, dai modi spicci e dalle risposte chiare, sicure, mai evasive. Di quel colloquio con quel personaggio straordinario, padre fondatore di Israele e militare di grande coraggio, ricordo una frase, ancora oggi di attualità, sul terrorismo. Mi disse: “La guerra contro il terrorismo non sarà breve. Hanno colpito e colpiranno. Ogni giorno le nostre forze di sicurezza bloccano dei terroristi. Tanti ne abbiamo catturati. Tanti ne abbiamo interrogati. E dopo gli interrogatori altri sono stati presi. Abbiamo trovato quantità enormi di armi, dai razzi agli esplosivi. Oggi per i terroristi la vita è più difficile. Quando sappiamo che in un posto c’è un terrorista o un suo complice, andiamo a prenderli. Ovunque essi si trovino. I terroristi debbono sapere che Israele non fa compromessi quando è in gioco la sicurezza dei cittadini e l’esistenza stessa dello stato. Non ci sono rifugi sicuri per i terroristi, né zone nelle quali Israele non possa intervenire. Siamo pronti a fare compromessi, ma non, ripeto, sulla sicurezza dei cittadini e sulla esistenza dello stato”. Parole sante, che valgono per tutti, pronunciate da un uomo che né Israele né gli uomini liberi che credono nella democrazia e nella libertà potranno mai dimenticare. Il tramonto era rosso, giallo e viola quando lasciai la fattoria salutando Sharon anche da lontano, dal finestrino, finché il primo ministro, fermo sull’ingresso della casa, non diventò una piccola macchia bianca e lontana.
Il FOGLIO - Carlo Panella : " La pietà di Sharon "
Carlo Panella Ariel Sharon
Il 17 agosto del 2005 Ariel Sharon mandò Tsahal, l’esercito di Israele, disarmato, a sgomberare gli insediamenti ebraici impiantati da 38 anni nella Striscia di Gaza. E stupì il mondo. Quel giorno tutti compresero quello che soltanto chi conosce Israele, quindi il suo esercito, e quindi Sharon, sa bene. Quei soldati disarmati, che abbracciavano piangendo i settlers mentre con dolce, lenta, paziente violenza li sradicavano dalla loro utopia terrena, erano strani soldati. Quei coloni che – armati sino ai denti fino al giorno prima – urlando dal dolore obbedivano senza impiegare un’arma alla violenza dei soldati e abbandonavano ai bulldozer le case costruite per decenni, erano strani coloni. E strano era quel generale. Quel “feroce” Ariel Sharon che in biblica solitudine, da capo del governo di Israele, dopo aver giurato che mai lo avrebbe fatto, aveva dato quell’ordine di sgombero. Pochi, in quei giorni, hanno saputo leggere la terribile, intima coerenza di Ariel Sharon, che era sempre lo stesso, quello del passo Mitla dell’ottobre del 1956, quello di Ismailia del 1973, quello di Sabra e Chatila del 1982, quello della passeggiata sulla Spianata delle moschee del settembre del 2000. Pochi hanno compreso che, nell’arco di 63 anni, perché aveva impugnato la sua prima arma a 14 anni nel 1942, Sharon era stato abbracciato dalla storia del suo popolo. E che, soffrendo come solo un eroe sa soffrire, si era lasciato convincere dalla violenza subìta ed esercitata. Aveva compreso – come solo un leader e un eroe può comprendere – che è possibile vincere non solo attaccando a testa bassa, ma anche ritirandosi a testa alta. La sua scuola fu quella degli ebrei della sua generazione. Nacque, come tanti sionisti, con un cognome che non sarà poi il suo. Venne alla luce, nel villaggio di Kfar Malal, nella Palestina sotto mandato britannico, il 27 febbraio del 1928 da padre polacco- tedesco e da madre russa. Il suo cognome era Scheinermann. Sharon, che in ebraico vuol dire bosco, era ed è la denominazione della grande piana sotto le colline di Israele che degrada sul Mediterraneo, e diventò il suo vero nome. Il nome di ebreo sionista. Non più di ebreo d’Europa. Un divorzio, che vuol dire tutto. A otto anni la sua vita fu già in pericolo, come quella di tutti gli ebrei di Palestina. Il Gran Mufti di Gerusalemme, Haj Amin al Husseini, nel 1936, aveva rifiutato la proposta inglese – accettata dai sionisti – di assegnare agli ebrei un minuscolo e indifendibile stato e di consegnare l’80 per cento della Palestina agli arabi e aveva dato inizio a pogrom e a una rivolta antiebraica. A soli 14 anni, nel 1942, Ariel lasciò lo studio del violino, si arruolò nell’Haganah, la milizia dei sionisti, e iniziò la sua vita di soldato che non finirà mai. Durante tutto il conflitto, i sionisti sostennero generosamente lo sforzo bellico degli inglesi. Tutta la leadership palestinese invece era a Berlino, alleata con Hitler, e da lì il Gran Mufti Husseini proclamò il jihad a fianco dell’Asse. Dopo la guerra, Sharon s’iscrisse, come il padre, al Mapai, il Partito laburista di David Ben-Gurion. E combatté, combatté, combatté: la guerra del 1948, quella del 1956, quella del 1967, quella del 1973. Dimostrò subito straordinarie doti di comando. A vent’anni, durante la prima guerra arabo- israeliana, comandò la brigata di fanteria Alexandroni. A 27 fondò e organizzò la formidabile “unità 101”, una formazione corazzata aviotrasportata con cui sfondò le linee nemiche e arrivò in due giorni al canale di Suez durante la guerra del 1956. E disobbedendo a Moshe Dayan, conquistò con una battaglia sanguinosa lo strategico passo di Mitla nel Sinai. Dopo quella lite con Dayan, lo stato maggiore di Tsahal si rese conto di avere in lui una formidabile risorsa, ma anche un formidabile problema. Era infatti un combattente di ferro, un affascinante conduttore di uomini, e aveva un coraggio personale inaudito. Ma non obbediva. Non accettava di inserirsi in schemi strategici che non controllava, anzi li contestava. E improvvisava sue originali strategie nel corso della battaglia, sul terreno. Ma la cosa imperdonabile era che spesso aveva ragione lui. E i generali che cercavano di imbrigliarlo nei loro schemi strategici invece avevano torto. Per di più, Sharon vinceva sempre. E raggiungeva ogni volta, incredibilmente, anche con forze esigue, l’obiettivo che si era prefissato. Per comprendere come abbia sempre funzionato la mente di Ariel Sharon è indispensabile guardare agli anni che nessuno ricorda mai, perché furono quelli in cui egiziani e israeliani – Anwar al Sadat, Moshe Dayan, re Hussein di Giordania e Sharon – tracciarono il primo scenario di pace in Palestina. Fallirono perché l’Olp di Yasser Arafat, spalleggiato dagli altri governi arabi, dall’Unione Sovietica e da una troppo pavida Europa, rifiutò allora quello che l’Olp di Abu Mazen si appresta ad accettare oggi. Tutte le biografie riportano l’epico litigio durato sette giorni, dall’8 al 15 ottobre del 1973, tra Moshe Dayan, ministro della Difesa d’Israele, e Ariel Sharon, comandante di una strategica divisione corazzata sul Sinai. Sharon intendeva contrattaccare gli egiziani che erano riusciti ad attraversare il canale di Suez e si erano attestati sul Sinai, travolgendo in più punti la linea difensiva Bar Lev, su cui era attestato Tsahal. Ma quella guerra era la prima e unica guerra araba che non puntava a “distruggere Israele”, come aveva voluto fare Nasser e ancora voleva fare Yasser Arafat. All’opposto, era stata scatenata da Sadat per trattare con Israele. Se si guarda alla mappa della disposizione delle due armate al momento della sospensione del conflitto, il 24 ottobre 1973, si vede che vi erano tre macchie d’inchiostro. Due macchie rappresentavano il territorio occupato dall’armata egiziana. Queste però non erano congiunte ma separate, in corrispondenza dei laghi Amari, al centro del canale, da una grande macchia che rappresentava il territorio controllato dalla divisione di Sharon, che oltrepassava il canale e si spandeva per 1.200 chilometri sul territorio egiziano, con apice a Ismailia, il cui bordo occidentale distava poco più di cento chilometri dal Cairo. Era la rappresentazione grafica di due strategie militari contrapposte ma identiche: egiziani e israeliani occupavano territorio nemico non per sferrare l’attacco decisivo, per distruggere l’avversario, ma per attestarsi e avere merce di scambio, per trattare. Sharon – litigando ogni giorno, più volte, dal telefono da campo, con Dayan – si era infilato con la sua divisione corazzata tra le due morse dell’esercito egiziano ed era entrato in Egitto. Una manovra da manuale, che trasformò la pesante ritirata di Israele dal Sinai in una vittoria. Sharon a 50 miglia dal Cairo, nonostante Dayan, rappresentava un tale pericolo che il mondo arabo, Arabia Saudita in testa, scatenò l’embargo petrolifero totale all’occidente. Solo questo lo fermò. Da quella guerra, e dalla strategia attuata magistralmente sul campo da Sharon, nacque la pace tra Israele ed Egitto. E non fu un caso che proprio quell’irruento generale laburista, una volta diventato ministro dell’Agricoltura del governo di centrodestra del Likud di Menachem Begin, sia stato poi partecipe attivo della storica visita di Sadat alla Knesset di Gerusalemme del 19 novembre 1977. E successivamente del trattato di pace siglato a Camp David nel 1978 e del primo, drammatico, sgombero delle colonie israeliane nel Sinai nei primi anni Ottanta. Tutta la biografia di Sharon ruota attorno al trattato di pace siglato da Sadat e Begin il 17 settembre del 1978, che non si limitava a sancire la restituzione del Sinai all’Egitto e il riconoscimento pieno da parte del più grande stato arabo dello stato di Israele. Il 90 per cento dell’accordo riguardava la Transgiordania e Gaza, delineava un processo di disimpegno dell’occupazione militare israeliana, subordinato a un democratico processo di formazione elettorale di una rappresentanza politica dei palestinesi. Un percorso poi seguito fedelmente dagli altri trattati finalmente siglati nel 1993 e nel 1998. Percorso poi tradito dall’incredibile rifiuto di Arafat delle offerte di Ehud Barak nel 2000 e poi ripreso – identico nella sua struttura – dalla road map e da tutte le trattative successive, incluse quelle tentate da Barack Obama. Il principio strategico che Sharon ha sempre perseguito caparbiamente, anche commettendo plateali errori, è quello delineato e disegnato sul canale di Suez nel 1973: consolidare al massimo le proprie posizioni di forza per poi trattare un accordo di pace che garantisca la sicurezza di Israele. Questa era anche la logica della sua sciagurata impresa in Libano nel 1982. Pensò allora di dare un contributo decisivo, sul terreno, alla conquista del governo di Beirut da parte dei cristiano-maroniti di Bachir Gemayel. Questo avrebbe portato all’espulsione dell’Olp che aveva tentato di conquistare, assieme alla sinistra araba libanese, quello stesso governo, per arrivare quindi a un trattato di pace definitivo tra Israele e Libano. Non era il progetto di un pazzo esaltato, aveva l’appoggio del segretario di stato americano, Alexander Haig. Ma quel progetto fallì. E per la stessa ragione per cui il trattato con l’Egitto si arenò nel 1981. Il 14 settembre del 1982, infatti, Gemayel fu ucciso in un attentato a Beirut, esattamente come il 6 ottobre del 1981 Anwar al Sadat era stato ucciso al Cairo nel primo attentato del terrorismo islamico. Lasciamo a chi pensa che Ariel Sharon sia stato il responsabile della strage di Sabra e Chatila l’impossibile compito di spiegare quale differenza vi sia stata tra quella strage e l’identica, e ancora più sanguinaria, di Tell al Zatar nel giugno-luglio del 1976. Una strage con più vittime palestinesi di Sabra e Chatila e che i cristiani libanesi, coadiuvati da palestinesi filo siriani e da siriani, avevano compiuto per ben cinquantadue giorni, indisturbati, nel campo palestinese. Nell’indifferenza del mondo intero. Noi abbiamo chiaro che, tanto è profonda la coerenza strategica di Ariel Sharon, altrettanto lo è la sua figura umana. Una personalità rara e complessa, simile a quella di altri leader israeliani che furono dipinti, soprattutto in Europa, come feroci massacratori (quante vignette con Begin e Sharon vestiti da SS abbiamo dovuto vedere sulle prime pagine dei giornali non solo arabi…). E che invece, plasmati dalla formidabile democrazia d’Israele, hanno poi saputo costruire, con intelligenza, accordi di pace con arabi e palestinesi. Vite segnate da un dialogo continuo con la morte. Morte data, morte subìta. Sharon ha vissuto – ma se l’è cercato – il dolore più grande per un generale di Tsahal: 400 mila israeliani in piazza dei Re, a Tel Aviv, tre giorni dopo Sabra e Chatila, l’hanno accusato di avere compromesso l’onore di Israele per non aver impedito ai miliziani arabo-cristiani di Gegea e Gemayel di massacrare civili palestinesi e i feddayn armati e nascosti nel campo. Solo Dio e Sharon sanno qual è stata realmente la sua colpa. Se è stato complice o pure ignavo. Se poteva schierare Tsahal a salvare i palestinesi. O se aveva fatto – al solito – un gesto avventato circondando un campo palestinese senza potervi penetrare, ma neanche senza poter impedire che i cristiani vi penetrassero, pena un altro, diverso, massacro. Ma proprio la scelta atroce di Sharon a Sabra e Chatila – e i suoi gesti successivi ci hanno dimostrato che forse era innocente – ci consegnano lo spessore insopportabile dei suoi giorni. Così assolutamente diverso, Sharon è anche così assolutamente simile ad altri guerrieri israeliani che sembrano usciti da racconti omerici: Yitzhak Rabin, Menachem Begin, Moshe Dayan, Ehud Barak. Uomini educati alla scuola della morte: del sangue impastato alla terra. Tutti intimamente e prepotentemente leader politici nel momento stesso, nell’istante stesso, in cui erano leader militari. Nessuno formato in Accademia militare, tutti formati sul campo. Tutti coinvolti allo spasimo, sin da giovanissimi nello straordinario calvario della discussione sulla “purezza delle armi” che accompagnò ogni loro azione armata, anche quelle feroci. Con una riflessione corale e pubblica, spesso spietata e autocritica, sull’etica che doveva guidare Tsahal, l’esercito del popolo di Israele. Del popolo degli ebrei. Nessun esercito al mondo, nessun generale al mondo si è formato a questa scuola. Nessun generale ha mai vissuto il problema terribile che ha segnato la vita di Ariel Sharon e dei generali israeliani: stabilire quale sia e quale non sia il territorio della propria patria. Sembra un problema formale ma è l’essenza stessa del tormento di Israele e del suo esercito. Paradossalmente è stata proprio la volontà degli arabi di distruggere Israele a tenere aperto il tema. Nel 1948-49 infatti, nel momento stesso in cui hanno firmato i vari armistizi, Libano, Siria, Giordania ed Egitto hanno rifiutato di riconoscere le linee armistiziali (la linea verde) quali confini dello stato di Israele, di cui non riconoscevano neanche il diritto a esistere. I “confini” di Israele prima del 1967 non sono confini. Lo diventarono soltanto nei confronti dell’Egitto nel 1978 e della Giordania nel 1994, e Ariel Sharon fu parte attiva nel definirli e nel riconoscerli. Ma quali sono oggi i confini definitivi col Libano? E con la Siria? E con lo stato palestinese? Può stabilirlo soltanto la trattativa che gli arabi rifiutarono nel 1948, nel 1956 e nel 1967. Per anni, Sharon è stato il leader dei coloni degli insediamenti e ha capeggiato il movimento che puntava ad arraffare il più possibile, allargando i confini di Eretz Israel: del Grande Israele. Ma lui, come l’ex terrorista Menachem Begin, come il saggio David Ben Gurion e come Yitzhak Rabin – che pure aveva ordinato di spaccare le braccia dei bambini della prima Intifada – ha sempre saputo che se gli arabi avessero cessato di voler distruggere Israele, avessero chiesto di stabilire finalmente i confini, Israele avrebbe dovuto accettare l’accordo. Come nel 1978 con Sadat. Come nel 1993 con Arafat. Lui, Ariel Sharon, ha sempre pensato che il leader dell’Olp non volesse la trattativa sui confini che aveva rifiutato quando l’aveva avuta a portata di mano, nel 1978, con Sadat. Sharon ha sempre pensato, come pensava Sadat, che Arafat fosse un leader opportunista e terrorista, e che il suo rifiuto del 97 per cento offerto da Bill Clinton e da Barak a Camp David e poi a Taba nel 2000 e 2001 fosse la prova di un suo jihadismo radicato, intrinseco. Forte di questa certezza, Sharon ha contrastato la Seconda Intifada con la stessa durezza con cui Rabin aveva affrontato la prima. Adeguando la risposta all’incredibile volume di morte delle stragi dei kamikaze che Arafat finanziava, facendo finta di condannarli. Ha realizzato il progetto della sinistra pacifista laburista di costruire la Barriera difensiva. Ha applicato spietatamente il codice di guerra a Hamas che voleva e vuole tuttora distruggere Israele e ha ucciso con omicidi mirati i suoi leader, Ahmed Yassin e Abdel Aziz al Rantissi. Ha aspettato, con caparbia pazienza, che Arafat morisse. Ma appena il rais terrorista è morto, è corso in aiuto del suo successore Abu Mazen. Ha imparato la lezione di Sadat: ha fatto un gesto. Un gesto vero, concreto, di quelli che segnano la storia e che rompono la storia: gli ha consegnato la Striscia di Gaza. Ha poi trattato i boss del Likud che elaborano le loro strategie miopi, come ha sempre trattato i generali dello stato maggiore. Se ne è andato per la sua strada. Ha lasciato il Likud e ha formato il suo partito, Kadima, il movimento degli israeliani che vogliono firmare un accordo, una pace, forti della propria forza, senza schemi ideologici. Nella sua vita, nessun dolore privato gli è stato risparmiato. Neanche la corsa più disperata di un padre, col suo piccolo e amatissimo figlio Gur di soli 12 anni in braccio, colpito da un proiettile alla testa da un suo amico tredicenne: “L’ho trasportato fra le mie braccia e me ne stavo lì, senza sapere bene che cosa fare, sul ciglio della strada, cercando un passaggio per portarlo all’ospedale più vicino, e vedevo mio figlio morire senza essere capace di salvarlo”. Anni prima, la morte della prima moglie Margalit, madre di Gur, in un incidente d’auto. Poi, nel 2000, la morte per cancro di Lily, sorella minore di Margalit, sua adorata seconda moglie. Oggi che Sharon è morto, a 85 anni, dopo un coma di sette anni dall’ictus che lo colpì nel gennaio del 2006, gli stessi che l’hanno sempre considerato un mostro lo piangono in tutto il mondo, come la più preziosa speranza di pace.
Il FOGLIO - Giulio Meotti : " Ha insegnato agli ebrei come sopravvivere in medio oriente "
Giulio Meotti David Ben Gurion con Ariel Sharon
Roma. “Ariel Sharon è stato il dio Shiva di Israele, il grande costruttore e il grande distruttore”. E’ così che commenta al Foglio la morte del generale e politico israeliano Yossi Klein Halevi, l’autore del nuovo libro “Like Dreamers”, l’intellettuale ebreo-americano che vive a Gerusalemme da trent’anni e dove lavora per quotidiani e centri studi. “Sharon è l’unico leader israeliano che abbia smantellato gli insediamenti, nel Sinai nel 1982 e a Gaza nel 2005, insediamenti che lui stesso aveva costruito”. Ma Sharon è stato anche molto di più, spiega Klein Halevi: “E’ stato l’eroe militare che non è mai passato dalla scuola ufficiali e che ha introdotto l’ethos della vittoria nell’esercito. Sharon, per primo, ha portato la guerra sul campo del nemico, lo ha fatto in Giordania, in Egitto, in Libano. Negli anni Cinquanta, Sharon, allora un giovane militare, organizza la prima unità di commandos dell’esercito, la ‘101’. I suoi raid di rappresaglia contro il terrorismo arabo in Giordania e a Gaza furono un modello per un esercito israeliano demoralizzato dalle perdite della guerra del 1948. I suoi critici dicono che le sue missioni, però, lasciavano dietro di sé troppi cadaveri, di civili arabi e di soldati israeliani. Il grande momento di Ariel Sharon come comandante è nel 1973 con la guerra dello Yom Kippur, quando condusse paracadutisti israeliani attraverso il Canale di Suez e portò la guerra sul territorio egiziano, trasformando una iniziale sconfitta israeliana in una vittoria ancora studiata nelle accademie militari di tutto il mondo. Lo status di Sharon come uno dei più grandi eroi di Israele sembrava inviolabile. Ma meno di un decennio dopo, come ministro della Difesa, Sharon ha avviato l’invasione del Libano. Nessuno aveva infuso l’esercito israeliano di una maggiore motivazione a combattere di Ariel Sharon, e nessuno ha minato quel morale più di Ariel Sharon. La guerra in Libano, che durò diciotto anni prima che gli ultimi soldati israeliani venissero ritirati nel 2000, divenne la prima guerra che Israele ha effettivamente perso. La carriera di Sharon sembrava finita in Libano. Eppure, quando la Seconda Intifada scoppiò nel 2000, una nazione disperata che si sentiva incapace di far fronte a una travolgente minaccia si è rivolta a Sharon”. L’elezione di Ariel Sharon come primo ministro nel 2001 è stata non solo la storia di un ritorno politico, ma di un grande statista che ha interiorizzato gli errori del passato. “In Libano Sharon capì che non poteva fare una guerra senza l’appoggio del paese. Un errore che avrebbe compreso durante la Seconda Intifada, il momento più drammatico della storia israeliana, quando Sharon non rispose subito alle atrocità terroristiche, ma attese, fino a costruire il consenso per l’operazione militare che avrebbe distrutto le infrastrutture del terrore. Attese perfino che la stampa di sinistra lo criticasse per l’attendismo: ‘Dov’è Sharon?’. Gli israeliani stavano cedendo il loro spazio pubblico, erano diventati timorosi perfino di incontrarsi con altri esseri umani. Sotto Sharon, nell’arco di due anni un Israele unito sconfisse l’Intifada”. Si dice, malignamente, che Sharon nel 2005 ha contribuito alla nascita di uno stato palestinese, quello di Hamas a Gaza. “Sharon non è mai stato un sentimentale né ha mai creduto nelle possibilità di un accordo di pace. Così, ad esempio, ritirandosi da Gaza dimostrò proprio che non credeva ci fossero e ci sarebbero stati partner palestinesi per fare la pace, altrimenti avrebbe raccordato con loro quel ritiro strategico. Per Sharon, invece, Israele aveva bisogno di gesti unilaterali, di prendere nelle proprie mani il destino del popolo ebraico”. Secondo Yossi Klein Halevi, Sharon però sarà ricordato soprattutto per quello che ha creato in seno alla mentalità ebraica israeliana: “Sharon è stato il prototipo e l’iniziatore del soldato ebreo che non ha altra scelta se non quella di vincere le guerre. La sua vita, in ogni sua fase, è stata definita da una sola, singola missione: insegnare agli ebrei come sopravvivere in medio oriente”.
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