Romanzare la Shoah comporta dei rischi enormi, soprattutto se lo strumento è il cinema. Dopo La vita è bella di Roberto Benigni, che verrà ricordato per avere immaginato un campo di sterminio esistito solo nella mente del regista, arriva sugli schermi Anita B. di Roberto Faenza.
Ne abbiamo letto soltanto la trama e riteniamo che non lo andremo a vedere. Ma anche per i pochi spezzoni visti nel trailer, il film di Faenza ci appare come l'ennesimo romanzo inventato su una improbabile storia che non può non influenzare quell'opinione pubblica - che esiste - che, invece di leggere libri seri sullo sterminio degli ebrei, preferisce informarsi attraverso qualche film strappalacrime, come è stato il film di Benigni.
Non è un caso che Faenza, tra le cui caratteristiche che ci spingono a non andare a vedere il suo film, abbia scelto tra i protagonisti Moni Ovadia, il comico dalla doppia responsabilità, perché in quanto ebreo e demonizzatore dello Stato di Israele, si presta come pochi all'applauso dei delegittimatori dello Stato ebraico. Buoni motivi, questi, per scegliere un altro film.
Riportiamo dal VENERDI' di REPUBBLICA di oggi, 10/01/2014, a pag. 114, l'intervista di Luigi irdi a Moni Ovadia dal titolo "Israele non ha l'esclusiva della nostra memoria: la Shoah è universale". Non aggiungiamo commenti, in quanto le risposte di Moni Ovadia sono più che sufficienti.
Roberto Benigni, Roberto Faenza, Moni Ovadia
Tutti sanno che Moni Ovadia è quello con lo zucchetto in testa. Ma il regista Roberto Faenza, nel film Anita B. (al cinema dal 16 gennaio), gli ha imposto un cappellone a falde da rabbino praghese nell'immediato dopoguerra. Plot in sintesi (dal romanzo di Edith Bruck Quanta stella c'è nel cielo): un'adolescente scampata ad Auschwitz trova asilo in una famiglia ceca che detesta anche solo l'idea di parlare dei campi di sterminio. Vietato ricordare.
«Il sopravvissuto è sempre ingombrante. pur sempre il testimone di una immane tragedia Il desiderio di rimuovere è eternamente in agguato. Però mi pare che il film valorizzi di più il desiderio del ritorno alla vita della protagonista, che alla fine parte in cerca di una nuova felicità e dell'amore».
Ovadia, che fa, rimuove subito anche lei?
«Ma no. È naturale però che a un'esperienza di morte si risponda, come nel caso di Anita, con un desiderio di vita».
Bene, qualcuno tenta di dimenticare, altri vogliono ricordare. Un bivio che nel film riguarda anche la nascita dello Stato di Israele, di cui la memoria è un elemento fondante.
«La mettiamo subito così? Ma Anita, quando decide di partire, non sa nemmeno bene cosa sia il Sionismo e Israele ancora non esiste come Stato. Semplicemente capisce che, se rimane, dovrà pagare, come ebrea, dei prezzi che non vuol pagare. La Palestina le appare semplicemente come il luogo dove si può vivere».
Appunto. Come a decine di migliaia di ebrei europei dopo la guerra.
«Certo. Ma è vero che l'ebreo nuovo che si vuole costruire in Israele è completamente diverso da quello della Diaspora. È un contadino, un soldato, più che un intellettuale. È una nuova realtà, che si cerca. Perfino Ben-Gurion condusse una sua battaglia personale contro l'uso dello yiddish, come a voler sradicare dal futuro di Israele la figura dell'ebreo colto, tormentato e malinconico, l'intellettuale della crisi, per aprire la strada a un nuovo modello».
È ben strano che si sia cercato di azzerare proprio il ricordo dell'ebreo che è stato sterminato, non le pare?
«Gran paradosso. Negli anni Quaranta, però, il vero elemento fondante, per dirla in una battuta, era costruire un luogo dove l'espressione "sporco ebreo" significasse solo un ebreo che non si lava. Solo in anni più recenti la Shoah è diventata ideologicamente un elemento di legittimazione della sicurezza dello Stato di Israele».
Sta dicendo che la Shoah è diventata più uno strumento di consolidamento di Israele come Stato che non un motore della sua nascita?
«Qualcosa del genere. Guardi i politici italiani, soprattutto quelli che hanno bisogno di rifarsi una verginità. Vanno ad Auschwitz in pellegrinaggio e poi dichiarano mi sento israeliano».
A parte l'ipocrisia di vecchi fascisti cosa ci trova di strano?
«Perché uno si deve sentire israeliano se quelli sterminati erano gli ebrei della Diaspora? Capirei di più se uno dicesse: Mi sento anch'io un ebreo polacco. Voglio dire che Israele non può assumere su di sé l'intera titolarità della Shoah. Per una parte, di sicuro, ma ancora oggi il 55 per cento degli ebrei vive nella Diaspora».
Sta mettendo in discussione il valore della Shoah come baricentro storico-morale della nascita di Israele.
«Allora chiarisco. Israele ha titolarità nella Shoah ma non può sussumere in sé l'intero ebraismo, come se non ci fosse altra memoria ebraica se non quella riconducibile a Israele».
Quindi, secondo lei, Israele non è il portatore unico e centrale della memoria. «Secondo me, no».
Però si comporta come se lo fosse.
«La titolarità esclusiva della Shoah serve come costante elemento di legittimazione della politica del governo israeliano quale che sia. Ribadisco, però, che è una mia opinione personale».
Che senso ha questa precisazione? È chiaro che stiamo discutendo delle sue opinioni.
«Beh, sa com'è, ricevo decine di e-mail al giorno in cui mi definiscono antisemita e nemico del popolo ebreo, pensi un po'. Solo perché critico il governo di Netanyahu. Mi riempiono di insulti».
Magari le dicono sporco ebreo.
«Poco ci manca».
Insomma, non vuole regalare la Shoah a Israele.
«La Shoah è un evento universale. Sono stati assassinati milioni di ebrei, mezzo milione di Rom e Sinti, che, tra l'altro, non sono stati ancora riconosciuti ufficialmente come vittime dello sterminio nazista. Insomma, sono contrario alla israelizzazione della Shoah. Sono perché rimanga un evento universale, strettamente legato al nazifascismo, alla morte di milioni di antinazisti, di tre milioni di slavi, di omosessuali, testimoni di Geova, eccetera. Non faccio differenze tra gli sterminati, anche se so benissimo che la persecuzione degli ebrei è stata uno specifico del nazismo».
Eppure, oggi la memoria associa la Shoah agli ebrei
«È un errore madornale. È una memoria truccata».
Se la memoria si può truccare allora bisogna chiedersi quanto a lungo resisterà.
«Nel contesto ebraico durerà per sempre. Finché ci saranno ebrei, ci sarà memoria. Il ricordo fa parte dei doveri fondanti dell'ebreo. Ricorderai cosa ti ha fattoAmalek... Il ricordo è un impegno costante».
Tornando al film di Faenza, II c'è una famiglia che non vuole assolutamente ricordare, vuole eliminare ogni memoria dei campi. Quindi, come vede, non tutti la pensano come lei. Qualcuno potrebbe voler dimenticare anche oggi.
«Tra gli ebrei questo è un atteggiamento Eline Powell, scoperta da Dustin Hoffman in Quartet è la protagonista di Anita B. assolutamente marginale e minoritario».
E fuori dal contesto ebraico?
«C'è un po' da preoccuparsi, sì. Gli attacchi negazionisti sono sempre più frequenti, subdoli e insidiosi. Il negazionismo lavora incessantemente». Sembrerebbe solo il problema di quattro scemi.
«Eh no, non sono solo quattro scemi. Attenzione. Il partito Jobbik al potere in Ungheria non sono quattro scemi. Non sono quattro scemi quelli che vanno dietro a Marine Le Pen in Francia».
L'Italia secondo lei è un Paese antisemita?
«Bah, non proprio, anche se qualche segno di tanto in tanto appare».
Primo Levi, in Se non ora quando?, mette in bocca a un ufficiale inglese una difesa molto generosa degli italiani da questo punto di vista. Del genere italiani brava gente.
«Non sono d'accordo. Un popolo del tutto privo di sentimenti antisemiti non avrebbe permesso che si cacciassero dalle scuole bambini di sei o sette anni perché ebrei, senza muovere un'unghia I bulgari e i danesi furono capaci di ribellarsi, gli italiani no».
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