Lavie Tidhar sostiene di avere mille identità, noi non ne siamo così certi. È nato 37 anni fa in Israele, in un kibbutz, da una madre della Transilvania venuta al mondo in un campo profughi post Shoah in Germania e da un padre sabra da più generazioni, si è spostato a 16 anni con i genitori andati in Sud Africa per lavoro, e poi, da solo, ha preso il volo e ha abitato a Londra, in Laos, Thailandia, Melanesia, Africa in qua e là, crediamo un po’ di New York..., di nuovo Israele, di nuovo Gran Bretagna e poi chissà. Lui si sente la globalizzazione in persona. Scrive in inglese perché in ebraico non riesce ad essere pubblicato – «il mercato è troppo piccolo» dice, «è molto frustrante » – (se non in una sua prima raccolta di poesie), e ha una inventività ucronica (ovvero una capacità di ricostruire la storia sulla base di dati fantastici) che spiazza e pone domande. Il suo gesto creativo (che si tramuta anche in fumetti, sceneggiature cinematografiche, racconti, antologie discience fictionsu blog vari e su carta e non sappiamo che altro) negli ultimi anni gli ha valso vari premi in Inghilterrae soprattutto, con il romanzo ora edito in Italia col titolo Wanted (ma in inglese era il più esplicito Osama), (Gargoyle, trad. di Lorenzo Vetta e Annabella Campanozzi, pagg. 334, euro 18) ha vinto il prestigioso World Fantasy Award 2012, guadagnandosi paragoni entusiasti con il primo Philip K. Dick. Lo chiamiamo su Skype a Londra, visto che inWanted Lavie Tidhar si è immaginato un mondo senza terrorismo. Lui, israeliano, che di attentati, veri, ha visto martellato il suo paese e che, per di più, si è trovato a Dares- Salaam, in Tanzania, proprio nel momento delle bombedi Al-Qaeda all’Ambasciata Usa del 7 agosto 1998 e ad aver dormito poche notti prima, a Nairobi, nello stesso hotel dei terroristi che attaccarono anche lì la sede diplomatica americana sempre il 7 agosto (228 morti complessivi e 4000 feriti). E aver sfiorato anche i kamikaze di Londra. E poi non è solo il fatto che inWanted non c’è terrorismo: Osama Bin Laden e la sua serie di stragi vi appaiono come un’invenzione esclusivamente letteraria, o meglio libri di narrativa trash scritti da un certo Mike Longshott, una collana pulp che l’investigatore Joe, quasi uscito dalla penna di Chandler, divora nel suo rifugio solitario sul Mekong. Nairobi, Dar-es-Salaam, Londra, Spagna, Twin Towers, Sinai... un capitolo dopo l’altro, un’esplosione dopo l’altra, e con esse le tracce degli uomini che l’hanno causate. E le vittime. Una donna affascinante, ipnotica, chiede a Joe di rintracciare Mike Longshott. Per farlo avrà un budget illimitato. E Joe accetta, forse anche per amore, con l’impressione di essere sempre seguito, a Parigi come a Londra, a New York, in Afghanistan... Chi lo sta pedinando? Attorno a lui viene ucciso qualcuno e dovunque c’è un gran profumo d’oppio. Realtà e finzione si lambiscono. Tutto è nebbioso, concentrico, e in mezzo ci passano pezzi di storia, passati, futuri di un mondo parallelo, pieno di ombre, una costruzione che ricorda sì Dick, ma anche Tarantino e il miglior noir. Chi è Longshott, perché scrive di quest’apocalisse? Forse nelle grotte di Tora-Bora lo scopriremo. Ma intanto, chiediamo a Tidhar, che operazione ha fatto con Wanted? Ha esorcizzato il Terrore che conosce così da vicino? «Non pensavo direttamente a Israele. Ci sono molti modi di leggere il libro, un romanzo pulp, perché il terrorismo non può non far pensare alpulp, unaghost story, un’ucronia, una storia psicologica e d’amore. Piena di riferimenti, alla fantascienza, aCasablanca, ma anche a momenti che hanno cambiato il Novecento, come la presenza britannica nel Medio Oriente. Sì, non pensavo a Israele dove in fondo il conflitto è chiaro, ma allo scontro tra Al Qaeda e l’Occidente che non capisce cosa succeda. Volevo interrogarmi su cosa ci fosse nella testa dei terroristi e al tempo stesso immaginarmi colpito da loro, in un letto di ospedale». Però poi ha dipinto un mondo senza attentati cupo, abitato da solitudine, nebbie, ubriachezza,oppio. «Il mondo in cui si muove Joe cerca di fuggire la realtà». La Storia vera corre in un libro nel libro. È una citazione dellaSvastica sul soledi Philip Dick che ipotizza la vittoria di Hitler ma in cui c’è anche il romanzo di un certo Abendsen in cui invece i nazisti hanno per-so, o è un meccanismo che ha un significato particolare per lei? «Il riferimento a Dick è ovvio, ma le influenze sono molte altre, Chandler in primis. Ho creato un libro nel libro perché è un congegno che mi ha sempre interessato. Penso che gli autori realisti mentano, scrivono comunque fiction.E quel che viviamo è già così bizzarro, non capiamo niente del perché l’universo sia così. La realtà va già oltre il possibile, è violenta, sì, pulp. Frankenstein è fiction, ma pensi a Mengele o a Auschwitz... qualcuno poteva immaginare qualcosa di così terribile? Ad esempio sono sospettosissimo della maggior parte degli autori israeliani realisti, costruiscono una narrativa che è l’opposto diquella palestinese». Veramente sono pieni di considerazione dell’altro. Non si tacciono niente. «Mah. Comunque scelgo la mia fuga dalla realtà, la fantascienza. E poi, guardi come facciamo quest’intervista, alle nostre immagini virtuali, siamo noi la fantascienza degli anni’50, no?». C’è fantascienza in Israele? «Inizia. Ma non la chiamerei fantascienza. Penso al mio amico Shimon Adaf che ha vinto l’ultimo premio Sapir. È eccezionale. Oppure a Yoav Avni, il suo What if immagina che Israele sia stato fondato in Uganda, come fu offerto a Herzl nel 1904. È la mia generazione che sta cambiando le cose: affrontare temi reali in modi irrealistici ». L’ha fatto anche nel suo libro uscito da poco in inglese The Violent Century, dove ripercorre il Novecento ipotizzando dei supereroi al servizio di ogni potenza. Un romanzo andato benissimo. «Volevo scrivere un libro divertente, e avevo in mente tutti quei supereroi, da Superman a Batman, creati da autori ebrei rifugiati in America: sognavano di poter vincere i nazisti! Io sono fatto di queste cose, ce l’ho dentro di me. Ora ho appena scritto un romanzo su Hitler, la miglior cosa che abbia mai fatto. Sono entrato anche dentro la sua testa. Non è stato piacevole». A me sembra proprio un israeliano che continua a interrogarsi, come tutti gli ebrei, sulla Shoah, il terrorismo, Israele... anche se lo fa davvero fuori da ogni schema. «Non lo so... ho vissuto in così tanti posti... e ho scoperto anche la diaspora... un po’ come essere membro di una tribù... Certo quando sono in Israele ho un accento più israeliano degli israeliani. Ah, mi son dimenticato. Sa chi era veramente Mike Longshott? Era uno scrittore pulp israeliano degli anni ’60: scriveva libri pornografici su delle donne sadiche che facevano le guardie nei lager. Era una specie di valvola di sfogo: in quegli anni non si poteva parlare di Shoah».
Per inviare la propria opinione a Repubblica, cliccare sull'e-mail sottostante