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Il Foglio Rassegna Stampa
09.01.2014 Iraq nel caos anche grazie al ritiro americano
in uscita il memoir di Bob Gates. Commento di Paola Peduzzi

Testata: Il Foglio
Data: 09 gennaio 2014
Pagina: 1
Autore: Paola Peduzzi
Titolo: «L’umiliazione americana a Fallujah»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 09/01/2014, in prima pagina, l'articolo di Paola Peduzzi dal titolo "L’umiliazione americana a Fallujah".


Paola Peduzzi    Bob Gates

Milano. Nel memoir in uscita martedì prossimo, l’ex capo del Pentagono Bob Gates racconta che nei meeting con gli obamiani si sentiva a disagio. Gates era spesso il più anziano – era soprannominato “Yoda”, il grande Jedi verde con le orecchie a punta di “Guerre stellari” – e soprattutto era un rimasuglio dell’Amministrazione Bush: Barack Obama l’aveva confermato come segretario alla Difesa per dare concretezza alla sua iniziale ispirazione lincolniana del “team of rivals” (e perché gli serviva competenza e qualcuno che sapesse trattare con i generali e l’esercito: Gates lo faceva dal 2006). Capitava spesso, in quei meeting, che si parlasse male, molto male, di Bush e Gates si chiedeva: “Cosa sono, invisibile?”, ma le discussioni, nella Situation room, “non lasciavano spazio a discriminanti: tutto era orrendo, e Obama e i suoi erano arrivati appena in tempo ‘to save the day’”. Gates era il simbolo della continuità in un contesto che la rifiutava, la continuità, e che pretendeva di rivoluzionare la politica estera americana – e la percezione dell’America nel mondo – rifiutando la dottrina dell’esportazione della democrazia, chiudendo le guerre iniziate da Bush, gestendo il conflitto di civiltà con flotte di droni, spesso così poco accurati, e lasciando che sul terreno emissari americani e politici locali se la cavassero come meglio riuscivano. Oggi sappiamo che la continuità mancata – al di là di Gates, che dopo due anni e mezzo si è dimesso dall’Amministrazione Obama – e la fretta di ritirarsi da guerre costose e impopolari stanno mettendo in pericolo i rapporti di fiducia tra medio oriente e occidente, oltre che la stabilità di una regione strategicamente rilevante. La caduta di Fallujah, in Iraq, riconquistata dai fondamentalisti dello Stato islamico (eredi diretti di al Qaida, stessa ideologia, stessa efferatezza, stessa ambizione al Califfato pur rifiutando la leadership di Ayman Zawahiri), è la sintesi di tutto quel che è andato storto in questi anni. Il Financial Times ieri, nel suo primo editoriale, spiegava che la caduta di Fallujah, che “nel 2004 era stato il teatro della battaglia più sanguinosa che gli Stati Uniti avevano affrontato dai tempi del Vietnam”, rappresenta “un momento umiliante per l’America”. Il surge iracheno, voluto da Bush assieme al generale Petraeus, invertì le sorti della campagna irachena e “ha aperto la strada al ritiro americano”, pure se lo stesso Obama era contrario a quell’aumento di truppe (avrebbe fatto un surge riluttante nel 2009 in Afghanistan, ma di scarso successo e presto abbandonato). Quando le truppe americane hanno lasciato l’Iraq – “Welcome home”, scandì Obama accogliendo i soldati rientrati – la strategia americana nel paese è rimasta nelle mani del premier sciita Nouri al Maliki, che aveva promesso l’inclusione dei sunniti nella vita politica irachena e che ha fatto tutto il contrario, con grande violenza. La crisi siriana, con gli sciiti a difesa del regime di Bashar el Assad, ha fatto il resto. Si può pensare che l’origine di questo disastro politico-militare americano sia comunque la “guerra sbagliata” voluta da Bush, come ha sintetizzato Vittorio Zucconi, corrispondente dall’America di Repubblica, su Twitter la settimana scorsa: “Bandiera di al-Qaeda (quella che non esiste…) sventola su Falluja, Iraq, dove Bush aveva esportato ’sta ceppa”. Ma non è così: Obama voleva restaurare una politica americana illuminata ma si è limitato a ritirarsi, in fretta e senza badare ai processi di transizione in corso. “Tradendo la causa siriana”, come scrive il Ft, Obama ha innescato un effetto domino al contrario, guidato dagli eredi di al Qaida e contrastato dalle forze sciite che fanno capo a Teheran. E togliendo gli ultimi fondi alle ong pro democrazia che operavano nella regione, s’è pure dimenticato di “’sta ceppa”.

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