Riprendiamo da LETTURA/CORRIERE della SERA di oggi, 05/01/2014, a pag-22/23, il reportage di Lorenzo Cremonesi da Nazareth Illit sul Kibbutz che cambia, insieme a un commento di Cino Zucchi sulle nuove strutture abitative. Israele è sempre più un Paese innovativo, questi due servizi lo confermano.
Lorenzo Cremonesi: " Il Kibbutz va in città "

Un'immagine di Nazareth Illit
A prima vista il massiccio palazzaccio in cemento scrostato tutto sembra tranne che un kibbutz. Si trova su di una collina alberata nella parte nuova di Nazareth: la Illit a maggioranza ebraica, voluta negli anni Cinquanta dai leader del nuovo Stato per controbilanciare la vecchia area urbana cristiana e musulmana, la città araba più popolosa di Israele. Ricorda una vecchia scuola in crisi, magari un ricovero per anziani con pochi mezzi, oppure un nucleo di appartamenti di periferia edificati in stile sovietico. Sino a cinque anni fa era utilizzato come centro di accoglienza per i nuovi immigrati ebrei: qualche falascià dell’Etiopia e soprattutto russi. Ci restavano per un poco, giusto il tempo di studiare qualche nozione di ebraico e capire dove andare a vivere in modo permanente. Ma dal settembre scorso all’entrata è ben visibile un cartello blu. C’è scritto Kibbutz Mishol , che significa sentiero, passaggio.
Attira l’attenzione per il fatto che contrasta con qualsiasi nozione del kibbutz così come lo conosciamo e come i suoi fautori lo hanno in gran parte narrato sin dalle prime comunità agricole sioniste agli inizi del Novecento. Nulla a che vedere con le tradizionali casette sparse nel verde, mancano i giardini fioriti, le stalle, i silos, i capannoni, le fabbriche delle cooperative. Non c’è la consueta piscina, che pure da almeno mezzo secolo marca il successo economico e la qualità della vita per i «figli del sogno». Sono assenti gli edifici centrali dell’amministrazione, le strutture separate per i bambini, la mensa comune. Al posto del lavoro collettivo nei campi, ogni mattina in maggioranza gli haverim (compagni) si recano a lavorare come maestri, psicologi, educatori nelle strutture sociali della bassa Galilea. «Siamo parte di una rivoluzione silenziosa che sta cambiando la struttura tradizionale delle comuni israeliane, ma è anche parte integrante della sua storia più antica», sostiene James Grant-Rosenhead, 39 anni, immigrato dall’Inghilterra alla fine degli anni Novanta con l’intenzione molto chiara sin dall’inizio di fondare quello che lui definisce «il più grande kibbutz urbano d’Israele».
Da leader entusiasta dell’idea socialista non coercitiva, favorevole a una vita collettivista che tuttavia assicuri la libertà individuale, James sa bene che in questo periodo di crisi economica nel mondo occidentale il suo esperimento sociale attira forti attenzioni. «Noi seguiamo da vicino il fenomeno del cosiddetto cohousing negli Stati Uniti e soprattutto nel nord Europa. Gruppi di cittadini scelgono liberamente di condividere larga parte della loro esistenza e dei loro redditi. Rinunciano a una fetta del privato per stare assieme e sentirsi più sicuri, più garantiti, meno soli. Il nostro kibbutz urbano ha molti aspetti in comune con loro», osserva. Ma la tradizione israeliana ha peculiarità scaturite da una lunga storia. Mishol ne è una sintesi possibile. Lo abitano oggi un’ottantina di adulti (in maggioranza meno che trentenni) e quaranta bambini. Si dividono i 110 appartamenti (6 mila metri quadrati complessivi) dell’ex centro di accoglienza. Le abitazioni più piccole, circa 25 metri quadrati, vanno ai single. Le grandi arrivano a 78 metri quadri e sono destinate alle famiglie con più figli. Tutte sono servite di bagno e cucinino. Alcuni appartamenti sono stati trasformati in locali comuni.
L’ethos prevalente è quello dei padri fondatori. «Tutte le risorse economiche sono comunitarie. Nessuno tiene per sé lo stipendio, ma lo versa automaticamente ogni mese sul conto bancario unico del kibbutz», spiega a «la Lettura» Tirza Perez, la tesoriera trentaduenne originaria di Moshav Yodfat (il moshav è una forma di fattoria collettivistica sviluppata negli anni Trenta, dove però permangono ampi ambiti di proprietà privata), che dirige la parte amministrativa da un piccolo ufficio al pianoterra. A lei il compito oneroso di far quadrare i conti. Le entrate annuali, fondate sui salari dei membri, assommano a circa un milione e 200 mila euro. Una media mensile di 1.300 euro per stipendio. «Il nostro tasso di scolarizzazione è alto. Ma quasi tutti abbiamo scelto di lavorare nel campo educativo pubblico, che tradizionalmente paga poco», dice. Le spese fisse sono tante: 230 mila euro per l’affitto dello stabile comprese acqua, luce e tasse. Oltre a 200 mila euro per la benzina e il mantenimento delle dieci automobili collettive. E 120 mila euro per l’educazione dei bambini. Alla fine, tolti gli imprevisti, ciò che il kibbutz paga mensilmente sono 200 euro a testa per gli adulti e 120 per i bambini. E in questo budget rientrano cibo, vestiti, divertimenti e piccole spese sanitarie.
«Tutti prendono la stessa cifra, che siano ingegneri informatici o giardinieri. Certo, per la maggioranza è una forte rinuncia. Se vivessimo privatamente in una città avremmo salari molto più alti. Ma crediamo nel valore della comune. La nostra qualità della vita è impagabile», afferma Robin Zahavi Merkel, 36 anni, immigrato dal Canada nel 2000. L’organizzazione sociale interna è il frutto di un antico dibattito. «Sin dal primo kibbutz, fondato nel 1909 a Degania, sul Giordano a sud del Lago di Tiberiade, i giovani socialisti sionisti si divisero tra tolstojani (che si ispiravano al modello sociale dello scrittore russo), sostenitori di piccoli gruppi di pionieri mirati a cambiare intimamente il carattere del nuovo ebreo rinato dalla terra dei padri, e nazionalisti, convinti invece che la comune fosse il modo migliore per coltivare i campi e conquistare la nostra patria. Da allora, a fasi alterne, il nostro movimento ha sempre visto la dialettica, a tratti anche aspra, tra fautori della kvutzà , la piccola comune con 10 o 15 persone al massimo, e il grande kibbutz cooperativo, che già alla fine degli anni Venti poteva superare i mille membri», ricorda Muki Tzur, settantacinquenne ideologo e studioso residente a Kibbutz Ein Gev , sulla sponda occidentale di Tiberiade.
Allora il «nuovo ebreo», contadino e produttore, nato sulle ceneri di quello arrivato dalla diaspora, avrebbe dovuto «conquistare» il lavoro e il suolo nazionali. Fu un successo clamoroso. I membri dei kibbutz non superarono mai il 5% degli israeliani ma per lungo tempo ne incarnarono i valori identitari. Quel ruolo, quello zelo missionario, giunsero però a esaurimento negli anni Settanta. Meno di dieci anni dopo, 270 kibbutz con quasi 150 mila membri in tutto il Paese erano in crisi profonda. Da avanguardie dell’impresa sionista ne erano diventati la retroguardia viziata, esclusivista, tagliata fuori, incapace di tenere il passo con i tempi. Fu la crisi demografica, il tracollo economico, la fine di un modello. Con i giovani in fuga verso le città e gli anziani incapaci di mantenersi da soli.
Per conseguenza, i kibbutz scesero allora a quasi 100 mila membri, in modi e livelli diversi abbandonarono il socialismo originario, accettarono l’idea del reddito privato, chiusero le mense collettive, gli asili nido cooperativi. L’unico modo di mantenere il kibbutz fu quello di stravolgerlo, trasformarlo nel profondo. «Tanti kibbutz ora accettano che i loro membri posseggano vetture private e non paghino per la mensa comune. Molti impiegano lavoratori esterni. La crisi economica inoltre ha riportato tanti giovani a casa. In questo modo siamo risaliti a 140 mila membri», dice Tzur. Oggi i membri di Mishol vedono nel loro modello una via di rinascita significativa. Negli ultimi 10-15 anni sono fiorite circa 150 esperienze di comunità urbane organizzate in Israele. Pare raccolgano sino a 3 mila persone. Molti sono influenzati dalla crescita dei movimenti religiosi, altri da quelli dei coloni ebrei in Cisgiordania. Tutte forme ideologiche che gli haverim di Mishol però vedono con grande sospetto. «Noi siamo profondamente laici. E tanti tra noi sono contrari persino a servire con l’esercito nei Territori occupati», confida a «la Lettura» James. A suo dire, il segreto del successo del nuovo kibbutz è che sarebbe tornato a servire la collettività. «Trent’anni fa il movimento perse la spinta propulsiva perché non rispondeva più ai bisogni di Israele. Era diventato fine a se stesso, egoista, geloso dei propri privilegi. Ora non siamo contadini. Non serve più. Ma siamo maestri, assistenti sociali, stiamo nel cuore delle città dove vive la maggioranza degli israeliani. Aiutiamo i poveri, i disagiati, siamo di supporto nelle scuole per i bambini con handicap, negli ospedali».
Ma anche a Mishol si propone l’antico dibattito tra piccolo e grande. Dice lui: «Abbiamo risolto il dilemma frazionando il kibbutz in otto gruppi (kvutzot ) mediamente composti da dieci membri ciascuno. Si sono divisi i vari piani del nostro edificio. E ogni gruppo ha in comune una lavanderia, oltre a una piccola mensa con cucina e la biblioteca. A turno i suoi membri fanno la spesa e cucinano per gli altri. Almeno due volte al mese tengono un’assemblea per decidere gli aspetti contingenti: le scelte del cibo, la richiesta di uno di loro di poter fare un viaggio, la pulizia dei locali loro affidati, i turni per le vacanze». Le auto vengono prenotate via computer con un programma elaborato specificamente dai due informatici della comune. Ma può anche avvenire che si debba attendere oltre una settimana per potervi accedere. Non è facile accettare le regole comunitarie, specie per chi viene dall’individualismo delle città. Ammettono a Mishol : «Tanti vengono, guardano, magari provano per qualche settimana, ma poi lasciano. Può sembrare bellissimo non dare importanza al denaro in comunità, dona un senso di grande leggerezza. Eppure si rivela gravoso esserne limitati dai bisogni degli altri. Resta con noi chi è educato sin da giovane alla condivisione. È un processo intimo, lungo, radicale».
Cino Zucchi: " Nuovi quartieri a misura di nuovi abitanti"

Un'immagine del Kibbutz Mishol
Dormire, lavarsi, studiare, preparare il cibo, riposarsi: la ricerca funzionalista del secolo scorso ha tentato di ridisegnare l’alloggio di massa secondo necessità universali, capaci di riformare sia l’ipocrisia dell’abitare borghese che il degrado degli slum della metropoli industriale. Ma l’elenco dei bisogni che l’alloggio moderno deve soddisfare andrebbe oggi aggiornato alla luce dei nuovi desideri e stili di vita. Se i manuali razionalisti contenevano le sagome stilizzate di un’umanità «standard», i progetti delle nuove abitazioni dovrebbero ospitare le icone variegate dei city users . Il concetto di «personalizzazione» ha ormai unito corpo, abbigliamento, gusti musicali e letterari degli abitanti, trasformando le pareti dell’ambiente domestico in un rifugio idiosincratico reso possibile dalle infinite scelte del «menù a tendina». Sia il modello collettivista delle «unità d’abitazione» che la risposta individualista della villetta suburbana hanno tuttavia segregato il concetto di casa da quello più complesso dell’abitare nella città: da sfondo della vita collettiva, quest’ultima è spesso diventata solo un luogo di lavoro, di servizio o di intrattenimento. I cambiamenti della società e dei suoi modi di vita hanno bisogno di risposte inedite. La sperimentazione progettuale contemporanea sul tema dell’abitare guarda con interesse a soggetti ai quali il mercato immobiliare degli ultimi anni non ha saputo rispondere: famiglie monoparentali o coppie anomale, coabitazione di studenti o giovani professionisti, lavoro domestico, cohousing, gruppi etnici o sociali con esigenze particolari, portatori di handicap, anziani autosufficienti o no. Ma la semplice sommatoria di molte cellule abitative non è di per sé capace di generare lo spazio collettivo della città. La dimensione privata e quella pubblica hanno bisogno di interfacce o luoghi di transizione capaci di attivare un dialogo tra le diverse scale. Il grande interesse di alcune esperienze di urban design e di housing sociale contemporaneo — socialdemocrazie come l’Olanda ne hanno dato esempi particolarmente felici — dimostra come una sperimentazione libera, capace di imparare dagli ambienti storici, può costituire un sano antidoto all’atomizzazione suburbana. La città europea — una risposta elaborata nei secoli con un sapiente meccanismo di prova ed errore — ha in fondo dimostrato di saper adattarsi bene a bisogni non immaginabili nel momento della sua edificazione. Se la città non fosse in grado di sopravvivere ai destini individuali delle generazioni che l’hanno costruita, dovremmo distruggerla e rifarla ogni trent’anni. Un giusto rapporto tra innovazione e conservazione è anche la base per affrontare una delle questioni fondamentali di questo secolo, quella della sostenibilità. Essa non va limitata ai temi pur importanti del risparmio energetico e dell’uso delle energie alternative, ma va estesa a quelli della durata degli edifici e della qualità ambientale nel suo complesso. L’architettura «sostenibile» non deve essere una specialità, né deve ridursi a una sorta di «stile ecologico». Molti studi dimostrano come un abitante del centro consumi meno della metà dell’energia di uno dei sobborghi. Una densità adeguata è una delle condizioni principali della città sostenibile; ma questo obiettivo va raggiunto in maniera differenziata, aumentando la «porosità» e il verde nella città storica e creando nuovi luoghi urbani nello sprawl che la circonda. La città europea ha bisogno di metabolizzare meglio il mosaico di sottoculture che la connota sempre più, accettando nel suo corpo ordinato le anomalie vitali che rendono viva la dimensione metropolitana e integrandola con una nuova qualità del paesaggio e del verde. Dalla nuova casa, dalla nuova città vorremmo questo, che fosse al contempo rassicurante e inattesa; con la speranza di trovare nelle complessità e contraddizioni del territorio contemporaneo quel senso di «naturalezza» che emana dagli ambienti storici che fanno ancora da sfondo amato alla nostra vita quotidiana.
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