Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 03/01/2014, a pag. 1-34, gli articoli di Giampaolo Cadalanu e Marek Halter titolati " Biglietto per Israele " e " Uguali, ma sempre sospetti. Siamo capri espiatori ideali ".
Giampaolo Cadalanu - " Biglietto per Israele "
Giampaolo Cadalanu
in alto a destra, aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv
All'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv si affacciano tutti con un filo di timidezza e il sorriso sulle labbra. L’emozione della terra promessa è viva. Per chi lascia la Francia e le sue nuove inattese ostilità vale lo slogan “Israel c’est ma maison”, Israele è la mia casa. L’Europacomincia a far paura.
Mamma e papà stringono al petto i figli piccoli, i bambini più grandi sorridono incerti ai fotografi, l’orsacchiotto sotto braccio, mentre scendono dal Boeing bianco con la striscia azzurra. All’aeroporto Ben Gurion si affacciano tutti con un filo di timidezza e il sorriso sulle labbra. L’emozione della terra promessa è viva, soverchiante, totale. Israele, finalmente. Per chi lascia la Francia e le sue nuove inattese ostilità vale lo slogan “Israel c’est ma maison”, Israele è la mia casa. E per tutti, lasciate le scalette dell’aereo El Al come fossero le passerelle della nave Exodus che portava i migranti ebrei nel 1947, è il momento di seppellire le delusioni del Vecchio Continente e lasciarsi abbracciare nella nuova famiglia. L’anno prossimo a Gerusalemme, si auguravano tradizionalmente gli ebrei di tutto il mondo. Ma l’anno prossimo è lontano, forse non c’è più tempo per aspettare, se l’Europa comincia a far paura.
La parola è ritornata, forte come non si sentiva da anni: Aliyah, l’ascesa, la decisione di abbracciare fino in fondo l’ideale sionista e trasferirsi in Israele. Non è ancora un esodo, ma la tendenza è chiara. Nel 2013 gli Olim, cioè gli ebrei che hanno fatto l’Aliyah, sono aumentati ancora: più sette per cento rispetto all’anno precedente, segnala l’Agenzia ebraica per Israele.
E dei 19.200 nuovi cittadini, oltre un terzo è partito dall’Europa occidentale: soprattutto dalla Francia (con un aumento del 63 per cento rispetto al 2012), ma anche dall’Olanda (più 57 per cento) e dal Belgio (46 per cento). I motivi sono espliciti: alle ragioni dell’economia si aggiunge il disagio per le ombre dell’antisemitismo in crescita. «Le cifre assolute non sono impressionanti, ma la tendenza è significativa », dice Sergio Della Pergola, massima autorità in tema di demografia del popolo ebraico. Assieme ad altri esperti, Della Pergola ha lavorato a un grande sondaggio dell’Agenzia europea per i Diritti fondamentali, con lo scopo di mettere a fuoco esperienze e percezioni della popolazione ebraica negli otto Stati dell’Unione che ne ospitano la stragrande maggioranza. I risultati, resi pubblici nelle scorse settimane, non sono confortanti: due terzi degliintervistati considerano l’antisemitismo un problema reale, tre quarti lo considerano in aumento negli ultimi cinque anni, uno su due ha paura di aggressioni verbali, uno su tre teme persino laviolenza fisica. E 29 su cento hanno considerato la possibilità di lasciare il paese dove vivono, proprio per la paura che l’ostilità diventi aperta.
«È insopportabile dover assistere alle funzioni religiose sotto la protezione della polizia», ha detto un’ebrea tedesca ai rilevatori. Ma l’incubo dei pogrom non sembra davvero attuale: «In questo momento ci sono tre motivi per preferire Israele al-l’Europa», dice Della Pergola: «Il primo è la situazione economica nel vecchio continente, con la crisi che colpisce gli strati medio-bassi della società. Poi c’è il fattore economico israeliano: qui la disoccupazione è bassa, mentre gli indicatori della crescita sono positivi, e c’è una buona capacità di assorbimento della forza lavoro. E infine c’è una percezione di antisemitismo in crescita, difficile da cogliere in modo preciso, ma presente». Insomma, i fattori economici sono due, simmetrici: e la conferma di quanto siano importanti è anche nell’età dei nuovi immigrati, visto che sei su dieci hanno menodi 35 anni. Per Natan Sharansky, presidente dell’Agenzia ebraica, «questa è un’era in cui l’Aliyah è una scelta, non l’unica salvezza». Ma resta il terzo motivo, psicologico, forse più impalpabile ma non meno decisivo.
«In Francia le pressioni stanno diventando insostenibili, soprattutto per chi si riconosce pubblicamente nell’identità ebraica», aggiunge Erik Cohen, docente di Antropologia e Sociologia all’università Bar-Ilan, anch’eglicuratore del rapporto per l’Agenzia europea: «Al contrario che in Ungheria, dove l’antisemitismo ha matrici politiche, in Francia è un tema sociale e culturale. Ma lasciare il paese dove si vive non è facile, anzi. Andarsene richiede sacrifici. Io sono di origini marocchine, ricordo quando sono stato accolto in Francia, 56 anni fa. È stato meraviglioso. Ci hanno aiutato in tutto, ho avuto un sostegno daquando ho cominciato a studiare fino al dottorato. Ma la Francia di oggi non è più quella dei miei ricordi».
L’Italia invece propone agli ebrei un’immagine meno inquietante. «I nuovi arrivi so-no poche centinaia», conferma Beniamino Lazar, avvocato e presidente del Comites, che raccoglie gli italiani di Israele: «C’è un aumento, ma legato soprattutto ai motivi economici. Non ho mai sentito invece di persone che hanno lasciato l’Italia per paura, come invece è successo per Francia, Belgio. Credo che in questi paesi si possa vedere un legame fra l’antisemitismo e la presenza diffusa di arabi oltranzisti». Un anziano italiano, intervistato in modo anonimo per il sondaggio dell’agenzia europea, ha commentato: «Penso che in Italia l’antisemitismo stia diminuendo, anche se lentamente ». Se in Francia ci sono stati persino attacchi omicidi, nel nostro paese l’ostilità antiebraica sembra marginale: «Le istituzioni hanno sempre un atteggiamento corretto. Tutt’al più ci sono cadute di stile, come quella di Berlusconi, secondo cui Mussolini aveva fatto bene fino alle leggi razziali. Una dichiarazione resa proprio mentre a Milano si ricordava la Shoah davanti al binario 21, da cui partivano i convogli per Auschwitz», dice Della Pergola.
Neanche l’atterraggio in una realtà completamente nuova è facile. Israele è un paese abituato ad accogliere immigrati da tutto il mondo, offre corsi di lingue e assistenza, ma l’inserimento non è facile. «Anche se l’inizio è duro, gli europei in genere non hanno troppe difficoltà.Ben più complicato è ad esempio per gli anziani ebrei provenienti dall’Etiopia. Ma in fondo, questo è un paese dove vivono persone da 120 nazioni diverse», conclude Lazar.
Una parte del disagio, però, resterà, anche fuggendo dall’Europa e approdando alla terra d’Israele: il rapporto dell’agenzia europea prova al di là di ogni dubbio che lo spazio prediletto per razzismo e pregiudizi è nel mondo virtuale, dove le espressioni antisemite continuano ad aumentare. «Da quando vado su Facebook, ho più commenti antisemiti di quanti ne avevo sentito in tutta la vita. E questo dà unprofondo disagio, anche se è slegato dalla vita quotidiana », ha detto un’ebrea di mezza età ai rilevatori europei. «Internet è il terreno più contaminato, ma in fondo è solo un clic, qualcosa che si può scegliere di evitare», taglia corto Della Pergola: «Però questo vale fino a un certo punto. Quando sul web compaiono liste di ebrei, come è successo, allora la preoccupazione è giustificata ».
Marek Halter - " Uguali, ma sempre sospetti. Siamo capri espiatori ideali "
Marek Halter
Nella perenne ricerca di un capro espiatorio, le società occidentali hanno provato a prendersela con i neri, con gli arabi, perfino con i rom. Ma alla fine sono rispuntati fuori gli ebrei. Eppure, nel corso della nostra storia recente, gli ebrei sono stati protetti dall’odio comune grazie al tabù della Shoah. Dopo Auschwitz, per vent’anni sono stati quasi dimenticati. Ma nel 1967, la Guerra dei sei giorni ha permesso agli antisemiti di spaccare in due la questione ebraica: da un lato gli ebrei, dall’altro Israele, diventata “potenza occupante”.
Sul piano ideologico, si poteva dire: «Non sono antisemita, ma sono contro i sionisti». E pensare che, prima che quella guerra scoppiasse, quando il presidente egiziano Nasser ammassò truppe nella Penisola del Sinai lungo il confine israeliano e l’esercito iracheno schierò le unità corazzate in Giordania, tutti temettero il peggio per Israele. Dopo i massacri della Seconda guerra mondiale, un altro genocidio di ebrei sarebbe stato intollerabile. Ma la guerra la vinse Israele. Pochi anni fa, quando è scoppiata la crisi economica mondiale, si è cominciato a cercare un capro espiatorio. E non si è subito pensato agli ebrei, ma piuttosto allo straniero, al clandestino, all’immigrato che ruba il lavoro, che fa crescere la disoccupazione, che rompe il mercato delle prestazioni professionali e altre stupidaggini del genere.
La stessa società occidentale ha poi individuato un’altra categoria contro cui lanciare i propri anatemi: con gli attentati, si è infatti scoperta l’esistenza degli islamisti, che per molti è sinonimo di musulmani. Due giorni fa, riferendosi agli attentatori di Volgograd, il presidente russo Putin ha più volte mischiato nel suo discorso le parole “jihadisti” e “arabi”. Curiosamente, in Francia stavolta il razzismo anti-musulmano non ha attecchito. Tant’è che alcuni esponenti del partito più xenofobo, il Front National, stanno perfino cercando di reclutare tra le loro truppe personaggi e politici di origine nordafricana. Si è allora cercato un altro capro espiatorio ideale, trovandolo nei rom, accusati di rubare nella metropolitana, di esercitare accattonaggio, di non volersi integrare. Ma anche loro, alla fine sono passati di moda. Il ministro dell’Interno, Manuel Valls, ne ha respinti un centinaio, ha smantellato qualche loro campo. Poi, di loro non si è più parlato.
Intanto, però, la crisi non è scomparsa, la disoccupazione aumenta, le piccole imprese falliscono. E di chi è la colpa? Ebbene, la colpa è finalmente ricaduta sugli ebrei, che diventano gli accusati eccellenti, capri espiatori per definizione, perché è la loro stessa presenza che può far nascere dubbi nelle menti di molti, e perché possono facilmente passare per rivoluzionari senza ovviamente essere tutti né come Carlo Marx né tanto meno come Rosa Luxemburg. Una volta chiesi al primo premier della storia di Israele, Ben Gurion, chi era il suo ebreo preferito, e lui mi rispose Gesù, «odiato dai romani perché li richiamava all’ordine ».
A Parigi, il comico Dieudonné ha un teatro che riempie con le sue battute antisemite. Ci sono duemila persone che ridono assieme lui delle camere a gas, e ci sono sportivi ultrapagati che lo omaggiano negli stadi facendo il saluto nazista. Il ministro Valls ha cercato di vietare la sua nuova tournée, con il risultato che il pensiero di Dieudonné è tracimato dal suo teatrino e ha invaso la Francia. Il grande dibattito di questi giorni verte sul diritto di censurare o meno gli spettacoli di un feroce antisemita. D’accordo, siamo in democrazia, e ognuno ha il diritto di esprimersi. Ma non credo che tutte le idee siano accettabili. Altrimenti dovremmo tollerare anche Hitler. È importante distinguere tra razzisti e antisemiti: i primi non amano il diverso, gli altri detestano coloro che gli somigliano come due gocce d’acqua, che parlano la stessa lingua, mangiano le stesse cose e amano gli stessi film. L’antisemitismo è l’odio del proprio simile, di essere uguale a te, che però ha qualcosa di sospetto, forse perché invece di pregare in chiesa lo fa in sinagoga.
Non dico che siamo alla vigilia della Notte dei cristalli, ma il momento è grave. Coloro che partono per Israele sentono che è arrivato il momento di farlo. Agli inizi del XX secolo, per sfuggire ai pogrom in Russia centinaia di migliaia di ebrei emigrarono negli Stati Uniti. Oggi, per molti ebrei, Israele è l’America di una volta.
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