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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
03.01.2014 Negoziati Israele-palestinesi: gli errori di John Kerry
cronaca e intervista ad Ari Shavit di Lorenzo Cremonesi

Testata: Corriere della Sera
Data: 03 gennaio 2014
Pagina: 12
Autore: Lorenzo Cremonesi
Titolo: «Kerry inciampa sugli arabi d’Israele - braicità del nostro Stato è una richiesta legittima»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 03/01/2014, a pag. 12, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo " Kerry inciampa sugli arabi d’Israele ", a pag. 13, la sua intervista ad Ari Shavit dal titolo " L’ebraicità del nostro Stato è una richiesta legittima ".
Ecco i due articoli:

" Kerry inciampa sugli arabi d’Israele "

John Kerry, seduto sulla gabbia che rinchiude Jonathan Pollard, a  Bibi Netanyahu mentre apre la gabbia dalla quale volano via i terroristi rilasciati : "Bravo, complimenti".

GERUSALEMME — Dire difficile sembra ancora poco. Parlare di «missione impossibile» forse è troppo. Ma certamente il segretario di Stato americano John Kerry è tornato ieri a Gerusalemme accompagnato da un’atmosfera di profondo scetticismo sulla possibilità di rilanciare concretamente i negoziati tra israeliani e palestinesi. È la sua decima missione nella regione in meno di un anno. E lui stesso ha ricordato che negli ultimi cinque mesi le due parti si sono incontrate ben «venti volte». Kerry ha visto in serata il premier Benjamin Netanyahu. Oggi lo rivedrà prima di incontrare a Ramallah il presidente palestinese Mahmoud Abbas. E la sua spola potrebbe durare anche oltre domenica. «Vorremmo concludere un accordo quadro complessivo su cui lavorare nei prossimi mesi. Ora sappiamo tutti quali sono i problemi sul tavolo e i loro parametri. Nelle prossime settimane i due leader dovranno prendere decisioni dure» ha dichiarato l’americano. Vicino a lui il premier israeliano non ha perso l’occasione per accusare Abbas e i leader palestinesi di «non essere interessati alla pace».
I temi sono quelli di sempre, dominano il dibattito dal tempo degli accordi di Oslo nel 1993: la definizione dei confini tra Israele e futuro Stato palestinese (come modificare quelli del 1967?); sicurezza; sovranità su Gerusalemme; profughi (quanti palestinesi potranno tornare alle loro case e come compensare gli altri?); aggiustamenti giuridici; la formula del riconoscimento reciproco; controllo delle acque; modalità di collegamento tra Cisgiordania e Gaza. Sullo sfondo restano completamente irrisolte la questione delle colonie ebraiche in Cisgiordania assieme a quella della guerra civile interna tra l’autorità palestinese erede dell’Olp in Cisgiordania e i fondamentalisti islamici di Hamas, che dominano a Gaza e sono legati a filo doppio ai Fratelli Musulmani egiziani.
Il governo Netanyahu ha inoltre aggiunto due nuove richieste, perorate in particolare dal ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, ma che sono già state rifiutate con durezza dai palestinesi.
La prima riguarda il riconoscimento di Israele quale «Stato ebraico». La seconda propone invece uno scambio territoriale. Israele mira infatti a conservare il pieno controllo sui nuovi quartieri costruiti a Gerusalemme est e sui gruppi di colonie ebraiche più importanti in Cisgiordania. In cambio è pronto a cedere larghi settori del cosiddetto «triangolo», la regione più densamente popolata da arabi attorno alla cittadina di Um el-Fahm, situata all’interno dei confini precedenti le conquiste della guerra del 1967. La stampa locale sottolinea che in questo caso oltre 300.000 arabi israeliani potrebbero passare con le loro proprietà sotto la sovranità del futuro Stato palestinese.
Tra i critici più duri sono però proprio molti tra i circa un milione e seicentomila arabi cittadini a tutti gli effetti di Israele.
«È una proposta deludente, oltraggiosa. Ci trattano come pedine degli scacchi. Non siamo cittadini, ma merce di scambio nelle mani del governo. Il nostro status non è affatto paragonabile a quello dei coloni ebrei illegali in Cisgiordania» hanno tuonato in parlamento i deputati arabi. Una delle verità non dette ad alta voce è che molti arabi israeliani, sebbene protestino di essere «trattati come cittadini di serie b», sono terrorizzati dalla prospettiva di venire integrati nel caos dei governi palestinesi di Cisgiordania e Gaza. Qui da fine estate il tasso della violenza è in crescita e la prospettiva di una «terza intifada» più sanguinosa delle due precedenti viene paventata da più parti.

" L’ebraicità del nostro Stato è una richiesta legittima "


Lorenzo Cremonesi    Ari Shavit

Da segnalare quanto affermato da Ari Shavit, uno dei fondatori di " Pace Adesso" "(Shalom Achshav): «Ottima la richiesta che i palestinesi riconoscano Israele Stato ebraico.» Ma l'Anp continuerà a dire di no ? E' questa negazione ad impedire l'avanzata dei colloqui.

GERUSALEMME — «Ottima la richiesta che i palestinesi riconoscano Israele Stato ebraico. Ma pessima quella di scambiare terre con il futuro Stato palestinese per diminuire il numero dei cittadini arabi in Israele». È interessante e non convenzionale il punto di vista di Ari Shavit sulle proposte del governo Netanyahu per la ripresa dei negoziati con l’autorità palestinese. Scrittore, commentatore per il quotidiano Ha’aretz , il suo nuovo libro appena pubblicato in inglese, «La mia Terra Promessa», ha raccolto un vasto plauso da parte della critica internazionale.
Lei è noto per le sue posizioni liberali. Cosa pensa delle critiche espresse anche in Occidente sulla questione dello «Stato ebraico»?
«So di essere non convenzionale. Ma io sono un fermo sostenitore di questa richiesta avanzata dal nostro governo. Anzi, penso sia stato un errore non averla presentata ad Yasser Arafat già ai tempi dei negoziati di Oslo nel 1993».
Ma non diminuisce la legittimità dei cittadini non ebrei di Israele?
«Ovvio che io creda in un Israele democratico, pluralista, con diritti eguali per tutti i suoi cittadini, ebrei e non ebrei, cristiani, musulmani o altro. La questione non si pone neppure. Però si deve capire che per generazioni noi e i palestinesi abbiamo metodicamente negato la legittimità delle aspirazioni e dell’identità reciproche. Infine nel Duemila a Camp David l’allora premier laburista Ehud Barak ha riconosciuto lo Stato palestinese. Più tardi lo ha fatto anche la destra israeliana nella voce di Benjamin Netanyahu in occasione del celebre discorso di Bar Ilan. Tempo che i palestinesi faccino lo stesso nei nostri confronti. Tra l’altro questo passo li aiuterà a compierne un altro per loro molto più complicato. È ovvio infatti che negli accordi finali i palestinesi dovranno definitivamente accettare di cancellare il diritto al ritorno alle case natali per i figli dei profughi del 1948. Il riconoscimento dello Stato ebraico faciliterà dunque per loro il compromesso ideologico della fine del diritto del ritorno».
Come ottenerlo?
«La nascita di due Stati sulla base dei confini del 1967 sarà un enorme incentivo. John Kerry mi sembra molto determinato a lavorare in questo senso. Ma soprattutto mi aspetto un grande aiuto dall’Europa. Sono contento di parlare con un giornale europeo per ricordare che il vostro continente sta all’origine della tragedia ebraica dell’ultimo secolo. Antisemitismo, persecuzione, razzismo e Olocausto sono figli dell’Europa. L’Europa ha un dovere morale nei confronti degli ebrei e dall’Europa, mi attendo un grande aiuto per la pace tra arabi e israeliani».
E come vede il principio dello scambio di popolazione e territori tra Israele e Palestina?
«Non mi piace affatto, è profondamente illiberale. Uno Stato democratico non decide sulla nazionalità dei propri cittadini. Non abbiamo il diritto di tagliare via arbitrariamente decine di migliaia di palestinesi con le loro terre. Un altro conto è che loro decidano liberamente di andarsene. Ma non è questo il caso oggi».
Il Medio Oriente tutto attorno è in fibrillazione. Le «primavere arabe» hanno scatenato violenza e fanatismo. Non è spaventato dalla prospettiva di un ritiro israeliano?
«Certo che lo sono. E il mondo ha il dovere di ascoltare i timori delle destre israeliane contrarie a compromessi territoriali. I motivi non sono solo ideologici. Potremmo trovarci i terroristi alle porte di Tel Aviv. Da qui la necessità di procedere con i piedi di piombo. Occorre prendere e dare tempo, si rischia altrimenti di rimanere ingolfati nel caos».

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