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Il Giornale Rassegna Stampa
30.12.2013 Fantascienza israeliana: 'Idromania' di Assaf Gavron
intervista di Boris Sollazzo

Testata: Il Giornale
Data: 30 dicembre 2013
Pagina: 23
Autore: Assaf Gavron
Titolo: «Il mio thriller ha sete di futuro»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 30/12/2013, a pag. 23, l'intervista di Boris Sollazzo ad Assaf Gavron dal titolo "Il mio thriller ha sete di futuro".


Assaf Gavron, Idromania (ed. Giuntina)

Incontri uno scrittore israe­liano che immagina il mondo schiavo di multina­zionali ucraine, giappone­si e cinesi, il suo Paese invaso dai palestinesi e il Medio Oriente pri­vo d’acqua, il tutto fra poco più di mezzo secolo, nel geniale e di­stopico Idromania (Giuntina, pagg.232,euro 15) e non ti aspet­ti un 45enne con la faccia da ra­gazzo che fa passare la sua identi­tà (anche) attraverso il tifo per l’Arsenal.Da questo piccolo par­ticolare, eredità dei genitori in­glesi immigrati vicino Gerusa­lemme- «mio padre mi portò da piccolo in quel luogo meraviglio­so che è Highbury, ho vissuto 10 anni in Inghilterra» (e poi anche in Canada, a Berlino e ora a Tel Aviv) - ti rendi conto che Assaf Gavron è sempre fuori dagli schemi. La conferma arrivereb­be da La mia storia, la tua storia
(Mondadori, 2009) o Hagiva (
La collina ): dai kamikaze ai coloni, passando per i kibbutz, lui ha de­molito le certezze ideologiche, gli odi e gli stupidi orgogli per guardare oltre, mettersi nei pan­ni più scomodi, magari usando il genere, diventando il maestro del thriller fantapolitico tra il Mar Rosso e il Mar Morto.

Come nasce Idromania ?

«Da un gioco con me stesso: mi sono immaginato a 99 anni. E ho pensato che sarebbe stato il 2067 e che nel mio paese, Israe­le, al massimo ogni 10 anni la sto­ria, i confini, i rapporti di forza vengono stravolti. E allora li ho immaginati capovolti. Non sa­rebbe così strano, in fondo: nel 1967 è successo a nostro favore, perché un secolo dopo non do­vrebbe succedere il contrario? Da lì ho costruito uno scenario politico e tecnologico che si ba­sava su un altro evento molto probabile: una siccità mondia­le ».

Una grande storia di genere per sbugiardare le ideologie di cui è schiavo il Medio Oriente?

«Senza dubbio, ma vale anche il processo opposto: le ideologie e un futuro possibile sono basi ot­time per un thriller fantapoliti­co. Quello che faccio qui è non fossilizzarmi sul mio Paese, ma immaginarlo come il laborato­rio che è da sempre. Manca l’ac­qua? Aumenta la forza della Cina? Automatica­mente cade il potere degli Stati Uniti, su cui noi contiamo molto, forse troppo. Qualcosa a cui dobbiamo pensa­re, combattere per la pace forse non è solo la cosa giusta da fare, potrebbe banalmente convenir­ci. Detto questo la mia non è una predizione, è una fantasia non improbabile!».

Una rottura totale con la tra­dizione della letteratura israeliana moderna?

«Non ho nulla contro Oz, Yeo­shua o Grossman. Ma né io, né i miei coetanei, li leggiamo più. Un ricambio generazionale è ne­cessario, a maggior ragione in Israele dove tutto cambia in fret­ta. Loro vengono da un’epoca difficile ma anche euforica, quel­la dei kibbutz e di una gioventù che ha costruito il Paese, ma ora i temi politici, economici, ecologi­ci, sociali non possiamo evitarli. Vediamo le proteste di chi non approva come viene governato questo mondo. Loro, semplice­mente, vengono dal passato e non hanno saputo capire il pre­sente. Trovo nella mia genera­zione una varietà maggiore di sti­li e posizioni, una capacità crit­i­ca più grande e non credo sia un caso. Loro continuano a essere letti e amati. Li stimo, li rispetto, li ho apprezzati, ma non li trovo più interessanti».

Quando è avvenuta questa ri­voluzione?

«Forse è cominciata quando venne ucciso Yitzhak Rabin, ha avuto il suo culmine tra le offerte generose di Ehud Barak rifiutate con arroganza da Arafat e la Se­conda Intifada, si è compiuta con la costruzione del muro.Tut­to ciò ha cambiato l’identità isra­eliana, ci ha messo di fronte a una parte di noi che non cono­scevamo e che forse non voleva­mo. Molti di noi, così, hanno cer­cato una strada diversa: in La mia storia, la tua storia credo di aver portato avanti uno dei pri­mi tentativi di guardare tutto questo da entrambi i lati,l’israe­liano e il palestinese. Questi miei racconti - e Idromania è il tentativo di andare oltre - sono dolorosi ma liberatori. So che non potremo andare avanti co­sì, coltivando odio e divisione. Dobbiamo essere realisti e risol­vere la situazione».

La cultura può contribuire?

«Non sono così presuntuoso, ma i miei amici irlandesi mi han­no sempre detto che le poesie di Bobby Sands hanno fatto di più, per la pace nel loro Paese, delle sue armi. Intendiamoci, non ho ambizioni didattiche o di scrive­re manifesti politici, questa è let­teratura di genere. Ma di fronte alle contraddizioni in cui vivo non chiudo gli occhi. E magari quel modo di “usarle” può apri­re nuove strade, può rendere più elastiche le nostre menti».

Un po’ come Philip K. Dick: ai contemporanei creava di­sagio e disorientamento, ora appare profetico.

«Un bel complimento, ma am­metto che la sua riflessione sul­l’identità e i suoi conflitti, penso a Blade Runner , mi ha sempre at­tratto. Quel modo di investigare le persone lo sento, con le debite proporzioni ovviamente, anche in me, cerco di liberare la mia im­maginazione partendo dalle stesse basi. E non credo sia un ca­so che, come lui, molti autori miei coetanei abbiano scelto il “genere”,per raccontare una re­altà bloccata. C’è la necessità, per chi scrive e legge, di rompere l’impasse che viviamo.Siamo al­le porte di grandi cambiamenti, così proviamo a vederli. Mi sem­bra­che in Israele lo abbiamo ca­pito prima di altri, il “genere”è di­ventata la chiave nella letteratu­ra, in tv- da In Treatment a Home­land , molte serie ora famose so­no nate da noi- , nel cinema. Co­sì è più facile leggere la realtà, tro­vare visioni originali sul futuro e, banalmente, raccontare buone storie. Cosa che per noi scrittori è la cosa più importante».

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