Sulla guerra sempre più sanguinosa in Libano, riprendiamo oggi, 28/12/2013, i commenti di Roberto Toscano sulla STAMPA, preceduto da una nostra nota, di Guido Olimpio e Cecilia Zecchinelli sul CORRIERE della SERA.
a destra, nel tondino, Mohammed Shattah, ucciso nell'attentato a Beirut
La Stampa-Roberto Toscano: " Il contagio che infetta il Libano" pag.1-31
Roberto Toscano
Roberto Toscano più che sostituire l'appannato Vittorio Emanele Parsi quale editorialista di politica estera del quotidiano torinese, ne rappresenta una copia. Inconcludente, riassume le varie situazioni senza che gli sfugga mai un commento che aiuti a capire quanto accade,. Nell' articolo che segue commette alcuni errori:
1) definisce 'islam politico-moderato' quello dei Fratelli Musulmani, quando neppure i laudatores più estremi si permettono più di fare
2) I rifugiati palestinesi non hanno mai orientato la politica libanese in nessun senso, non hanno mai contato nulla, non avendo mai goduto di nessun diritto, nessuna integrazione nel Paese, considerati forza lavoro e basta. Non ha senso la citazione di Toscano, dettata da motivi di compiacenza verso l'Anp, da sempre trattata con i guanti-
3) Le reazioni di difesa di Israele sul Libano, dettate soltanto in risposta agli attacchi firmati Hezbollah, i veri padroni del Libano, sono definite da Toscano " ripetute aggressioni " il che rivela il suo retro-pensiero.
4) tutto il resto dell'articolo è la solita tiritera del ' non solo ma anche', lo stile di Parsi che rientra con la firma di Toscano.
Ecco l'articolo:
Le bombe sono tornate a scoppiare in Libano, e sempre di più – in questa inquietante finedel 2013 – ritorna lo spettro del riaccendersi dei conflitti politici e settari di un Paese esiguo di territorio e ricco di denominazioni religiose e gruppi politici.Dopo i quindici anni (1975-90) di atroce guerra civile, la stanchezza di tutti, finalmente consapevoli dell’impossibilità di conseguire unanoneffimeravittoria,aveva fatto sperare che il Libano fosse obbligato alla coesistenza. E obbligato ad una pace fatta di costanti equilibri e dosaggi sia a livello governativo che istituzionale. Ma adesso, cosa sta accadendo? Certo, la spiegazione più immediata è che il Libano è vittima del «contagio siriano». Il Paese è legato storicamente alla Siria (di cui faceva parte fino all’indipendenza, nel 1943) e il regime siriano ha sempre dimostrato di considerarlo qualcosa di più che non semplicemente un «estero vicino»,ma ha costantemente esercitato nei suoi confronti pesanti interferenze politiche tradottesi, durante la guerra civile, in una occupazionemilitare sotto le mentite spoglie di una funzione di mantenimento della pace. Non è quindi sorprendente che la ormai biennale guerra civile siriana abbia finito per coinvolgere il Libano. Il nesso principale va ricercato nel ruolo di Hezbollah, nello stesso tempo uno dei principali soggetti del sistema politico libanese e una forza combattente organizzata capace di resistere, nel 2006, all’attacco israeliano. Hezbollah combatte apertamente in Siria in sostegno del regime di Assad. Lo fa di certo con il sostegno, se non addirittura la richiesta, dell’Iran, ma in relazione al proprio interesse, e soprattutto alle proprie preoccupazioni di fronte a quella che è un’offensiva generalizzata del radicalismo sunnita contro gli sciiti – un’offensiva scopertamente ispirata e finanziata dall’Arabia Saudita non per fanatico zelo religioso quanto nel contesto di una dura partita geopolitica con il grande avversario sciita, l’Iran. Quello che è in gioco in Siria è molto di più che non il futuro di un pur importante Paese. Sono in gioco le sorti dell’islam politico, impegnato – nella sua versione radicale, dopo il fallimento di quella moderata dei Fratelli Musulmani egiziani – nella lotta contro le dittature laiche (Iraq, Egitto, Libia e ora Siria) e nel rapporto di ambigua alleanza/dipendenza con le monarchie tradizionaliste. L’attentato del 19 novembre contro l’ambasciata iraniana a Beirut, che aveva fatto seguito a una serie di attacchi ad esponenti sciiti libanesi, ha marcato una forte escalation, salita di un altro gradino con la bomba che ha ucciso un’importante personalità politica, Mohamad Chatah, ex ambasciatore aWashington, exMinistro delle Finanze e stretto collaboratore di Saad Hariri. Ed è qui che emerge un altro legame con la Siria. Chatah, infatti, oltre a denunciare il tentativo di Hezbollah di imporre un dominio di fatto sulla vita politica libanese, aveva ripetutamente puntato il dito contro la Siria – in relazione all’attentato di cui, nel 2005, era stato vittima il padre di Saad Hariri, Rafik, imprenditore e politico che, con forte appoggio saudita, aveva diretto per quattro anni, a partire dal 2000, la ricostruzione della capitale libanese dopo le devastazioni della quindicennale guerra civile. Il Libano rimane quindi, come in fondo non ha mai smesso di essere fin dalla sua fondazione, teatro di altrui rivalità. La sua stessa guerra civile si può dire sia stata principalmente innescata dal «contagio palestinese», ovvero dal flusso di rifugiati palestinesi e dalla loro presenza sul territorio libanese dove, non integrati ed emarginati, ben presto cominciarono a svolgere un ruolo politico alterando i precedenti equilibri fra musulmani e cristiani suscitando la violenta reazione dei maroniti, organizzati principalmente nella Falange. Lo stesso si può dire delle ripetute aggressioni da parte di Israele, non certomotivate da una ostilità israeliana nei confronti del Libano, ma dal fatto che dal Libano proveniva per Israele una minaccia, prima dei movimenti palestinesi e poi di Hezbollah. Ma come potrebbe il Libano chiamarsi fuori, smettere di essere il tragicomicrocosmo di tutte le lotte, di tutte le feroci partite geopolitiche che caratterizzano la perpetua instabilità medio-orientale? Un tempo, in una «età dell’oro» in gran parte mitica, ma quanto meno non dilaniata dalla violenza, veniva chiamato «la Svizzera del Medio Oriente», ed è vero che la sua storia, la bellezza della sua costa e delle sue montagne, la ricchezza culturale di una società plurale e le famose doti di commercianti ed imprenditori del suo popolo potrebbero farne un modello di prosperità e civiltà interculturale. Ma anche le vittime, e il Libano è di certo una vittima vera, farebbero bene, se vogliono uscire dalla loro condizione, a chiedersi che cosa vi sia nel proprio comportamento, nei propri limiti, nelle proprie colpe, che renda possibile alle forze esterne strumentalizzare, inserirsi, sfruttare. Se lo facessero ne risulterebbe una indispensabile autocritica: nei confronti dell’ identità religiosa spinta, in chiave settaria e tribale, fino alla negazione della solidarietà di una cittadinanza comune, e nei confronti del ricorrente richiamo rivolto a forze esterne a sostegno delle proprie debolezze contro l’avversario interno. Ecco il dramma del Libano: gli equilibri politico-istituzionali fra comunità religiose sono finora apparsi come l’unica realistica soluzione (qualcuno parla anche, in positivo, di «modello libanese») di fronte all’alternativa del conflitto violento, ma nello stesso tempo essi sono una soluzione fragile, sempre esposta alle ripercussioni delle tensioni esterne. Nell’anno che sta per iniziare il modello libanese verrà senza dubbio posto a dura prova.
Corriere della Sera-Guido Olimpio: " Quei canali segreti tra Hamas e sciiti "pag.11
Guido Olimpio
Sono mesi difficili per Hamas. La guerra in Siria ha fatto saltare un punto d’appoggio chiave e il movimento palestinese ha bisogno di altri canali. Uno lo ha trovato, a partire dall’agosto di quest’anno, nel quartiere sciita di Dahiyeh a Beirut. Da qui, in base ad un’intesa segreta con l’Hezbollah, sono iniziati a passare finanziamenti consistenti provenienti dal resto del mondo arabo. L’accordo è stato finalizzato dopo colloqui tra due responsabili dell’Apparato Sicurezza dell’Hezbollah, Kassem e Wafiq Safa, e il rappresentante di Hamas in Libano, Alì Barakeh. Insieme hanno organizzato un corridoio per portare milioni di dollari fino a Gaza. Il sistema è articolato e complesso, studiato con attenzione dagli esperti palestinesi, abituati da anni ad aggirare la morsa israeliana attorno alla Striscia. Il denaro raggiunge l’ufficio Hamas di Dahiyeh dove operano, sotto la protezione dell’Hezbollah, due cassieri, Abu Khaled e Abu Hashem. Con l’assistenza di cambiavalute le risorse sono «lavate» e spedite in Egitto non in contanti ma con il tradizionale metodo hawala . Qualcuno di fiducia al Cairo verserà a emissari palestinesi l’equivalente di una somma che gli verrà corrisposta più avanti e probabilmente in un altro luogo. È uno scambio di garanzie, senza bisogno di muovere il contante. Il denaro riappare così solo nelle mani degli spalloni palestinesi attivi nel Sinai. Usando i tunnel clandestini costruiti sotto il confine tra Rafah (Egitto) e Gaza lo consegnano alla dirigenza di Hamas. È una catena di passaggi ben oliata dove talvolta si infilano granelli di sabbia. Come la confisca di soldi, avvenuta il 25 ottobre, da parte dell’esercito libanese. Altro punto critico è l’Egitto. Gli intermediari locali devono agire con cautela. Le autorità del Cairo hanno preso di mira Hamas in quanto legata alla Fratellanza musulmana. E appena un paio di giorni fa la polizia ha lanciato sospetti sui palestinesi accusandoli di preparare attacchi. Scenari sui quali la propaganda dei generali si è mescolata al ruolo ambiguo di frange estremiste.
Corriere della Sera-Cecilia Zecchinelli: " Affari miliardari, politica e tragedia: la famiglia al centro del rebus libanese" pag.11
Cecilia Zecchinelli
In un modo o nell’altro, spesso nel più drammatico, la storia recente del Libano è legata agli Hariri. Una famiglia multimiliardaria e dal forte controllo sull’economia e la finanza del Paese, dai legami strettissimi con i reali sauditi e con molti potenti in Occidente (un nome su tutti: Chirac). Che dal 1992 è entrata di peso nella politica con la nomina a premier del «patriarca», quel Rafiq Hariri che fu assassinato il giorno di San Valentino del 2005 da 1.800 chili di esplosivo lungo il mare di Beirut. Non lontano dal luogo dove Muhammad Shatah, già ministro dello stesso Rafiq e poi consigliere del figlio Saad, ieri è stato ammazzato da una autobomba.
Shatah non è il primo degli uomini vicini alla famiglia a essere stato oggetto di attacchi, dietro ai quali (quasi) tutti sospettano i siriani o i loro alleati di Hezbollah. Quattro mesi prima della morte di Rafiq, un suo ministro, Marwan Hamadeh, era uscito illeso per miracolo dalla scoppio di un’auto carica di tritolo. Altri sono seguiti negli anni. E proprio per timore di questi episodi, Saad vive tra Francia e Arabia Saudita, almeno dopo il fallimento della sua carriera di premier nel 2011.
Musulmani sunniti, prima Rafiq e poi Saad hanno occupato per due decenni, quasi senza interruzioni, la carica più importante riservata alla loro fede nel «Cencelli religioso» del Libano. Con risultati e popolarità altalenanti ma forti dell’immenso potere economico alle loro spalle, e delle protezioni internazionali, prima tra tutte quella dell’Arabia dove Rafiq, figlio di contadini, era emigrato a 18 anni. Le cose gli erano andate bene: dopo vari lavori, diventato costruttore, aveva conquistato il futuro re Fahd completando in sei mesi il palazzo reale di Taif. Poi aveva acquistato in Francia il gruppo Oger, con sedi in molti Paesi, e il business si era esteso: immobiliare, media, telecom, banche, industrie. Un impero stimato 10 miliardi di dollari. La fine della guerra civile in Libano (1990) aveva aperto nuove porte. Politiche e di business. La ricostruzione di Beirut e del Paese fu effettuata dai gruppi di famiglia, soprattutto da Solidere. Molte polemiche e critiche in patria («il Berlusconi del Libano pensa solo ai suoi interessi», dicevano gli oppositori), ma la sua ascesa sembrava inarrestabile. Frenata invece, pochi mesi dopo la caduta dell’ultimo suo governo, da quella bomba di 1.800 chili.
Saad, già erede del padre nel business e ancora più saudita di lui (entrambi con doppia nazionalità) dopo due mesi di consiglio di famiglia era stato designato il successore politico, battendo fratelli, zii e cugini. Ma la sua esperienza da premier è durata solo un anno e mezzo fino al giugno 2011. Quelle dimissioni, dovute al ritiro di Hezbollah dal governo per l’inchiesta sull’omicidio di San Valentino che puntava a Damasco, sembravano la fine dell’era Hariri in politica. Ma niente è certo: alle elezioni 2014, rimandate di un anno per l’emergenza siriana, le cose potrebbero ancora cambiare.
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