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La Stampa Rassegna Stampa
27.12.2013 Iraq: Al Maliki prima caccia gli Usa, poi chiede aiuto contro al Qaeda
intanto i cristiani continuano ad essere massacrati. Cronache di Francesca Paci, Francesco Semprini

Testata: La Stampa
Data: 27 dicembre 2013
Pagina: 9
Autore: Francesca Paci - Francesco Semprini
Titolo: «Strage di Natale, 34 morti in Iraq - Missili e droni anti-Al Qaeda, l'America 'torna' a Baghdad»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 27/12/2013, a pag. 9, l'articolo di Francesca Paci dal titolo " Strage di Natale, 34 morti in Iraq ", l'articolo di Francesco Semprini dal titolo " Missili e droni anti-Al Qaeda, l'America 'torna' a Baghdad".

Francesca Paci - " Strage di Natale, 34 morti in Iraq "

«È stato come tornare alle bombe quotidiane del 2007, il boato, il sangue, i corpi a pezzi, le urla dei feriti, era la prima Messa di Natale a cui partecipavo qui a Baghdad dal 2003, tre anni fa era stata annullata all’ultimo per le minacce di al Qaeda» racconta Mariam K. al telefono dalla capitale irachena. A dispetto delle eccezionali misure di sicurezza volute dal premier al-Maliki, che quasi per sfidare la rinata violenza settaria nel paese aveva proclamato il Natale festa nazionale, il 24 dicembre si è chiuso con un bilancio nero, almeno 34 morti e 52 feriti in 3 attentati, il più grave nel quartiere cristiano di Doura, a sud di Baghdad, dove un’autobomba è saltata in aria davanti a una chiesa nel momento degli auguri tra i fedeli. Altri due ordigni sono esplosi nel vicino mercato di Athorien: nessuno per ora li ha rivendicati.
«Non credo che la chiesa fosse l’obiettivo» afferma il patriarca cattolico-caldeo Louis Sako. «È dura, ma io ho celebrato la Messa davanti a tanta gente rincuorata dal fatto che per la prima volta fosse festa anche per i musulmani» ci sottolinea l’arcivescovo siro-cattolico di Mossul Casmoussa (nel 2010 un attentato alla cattedrale siro-cattolica di Baghdad massacrò 50 persone). Pare però che l’imperativo sia tenere un profilo bassissimo nell’Iraq nuovamente in fiamme (8 mila vittime nel 2013), dove la minoranza cristiana è stata così bersagliata dagli jihadisti da dissolversi (di 1,5 milioni di fedeli del 2003 ne restano 400 mila).
Il Papa ha menzionato l’Iraq in cima alla lista dei paesi nemici dei cristiani. Ma calcolando che 80 mila ne sono stati uccisi nel 2013, l’offensiva è diffusa.
C’è la Nigeria del nord, dove quest’anno, secondo Open Doors, sono stati ammazzati più cristiani che nel resto del mondo (oltre 1200, quasi tutti dagli islamisti di Boko Haram). C’è la Siria, dove al Qaeda sgozza i cristiani rei di essere infedeli e sostenere Assad (spietato dittatore ma garante delle minoranze religiose). C’è il sud Sudan, con le chiese in mezzo al montante scontro etnico. C’è la Repubblica Centrafricana che, denuncia Human Rights Watch, assiste in queste ore alla vendetta delle milizie cristiane per gli attacchi sanguinari subiti dai musulmani pro-golpe. C’è il Pakistan, teatro dell’offensiva taleban. C’è un malato trend globale per cui uccidere nel nome del proprio Dio i devoti di un Dio diverso ha una giustificazione meno vile.

Francesco Semprini - " Missili e droni anti-Al Qaeda, l'America 'torna' a Baghdad"


Nouri al Maliki

È un conflitto nel conflitto, una guerra quasi ignorata ma che miete ogni giorno vittime figlie della violenza alimentata dalle divisioni settarie e dal ritorno di Al Qaeda. È questo l’Iraq di oggi: a poco più di dieci anni dall’invasione americana volta a far cadere il regime di Saddam Hussein, il Paese è intrappolato tra una cronica fragilità politica, divisioni intestine e le ricadute del vicino conflitto siriano. Il rafforzamento delle milizie islamiste nel Nord del Paese vicino ha creato un incubatore di estremisti affiliati ad Al Qaeda che vivono a cavallo fra Siria e Iraq rendendosi protagonisti di attacchi terroristici che stanno creando una lunghissima striscia di sangue.
È in particolare lo «Stato islamico di Iraq e Siria», la formazione più forte in questa zona del Medio Oriente, tanto attiva a combattere le forze di Damasco ma anche le stesse fazioni di ribelli anti Assad considerate più moderate.
Una escalation di violenza mai vista dalla fine della missione americana in Iraq (il ritiro delle truppe risale a fine 2011) e tale da spingere lo stesso governo di Baghdad a rivolgersi nuovamente a Washington per chiedere aiuto. Gli Usa hanno così deciso di inviare droni per la sorveglianza e decine di missili al governo iracheno per aiutarlo a combattere e porre un freno all’esplosione di violenza da parte dei ribelli vicini ad Al Qaeda. Una decisione maturata dopo la richiesta avanzata dal primo ministro Nuri al Maliki, e probabilmente discussa il mese scorso a Washington, durante l’incontro con il presidente Barack Obama. Sono in molti tuttavia a chiedersi se un intervento del genere sia sufficiente a contrastare in maniera efficace l’ondata di violenze di cui si sta rendendo protagonista il braccio armato di Al Qaeda. Sono diversi gli esperti militari a ritenere che difficilmente migliorerà la drammatica situazione della sicurezza in uno Stato in cui, solo nel 2013, il terrorismo ha provocato la morte di 8.000 iracheni, di cui 952 delle forze di sicurezza: il più alto livello di violenza dal 2008, secondo le stime delle Nazioni Unite.
Lo «Stato islamico di Iraq e Siria» è diventato assai potente nella regione del nord-ovest del Paese, i miliziani sono armati fino ai denti e perfettamente addestrati. Si muovono alla guida di convogli rendendosi protagonisti di blitz nei villaggi e nelle città dove minacciano la popolazione, uccidono rappresentanti delle istituzioni e del governo locale, massacrano in agguati e attentati alti dirigenti delle forze armate irachene, come è capitato la settimana scorsa al comandante della settima divisione armata dell’Esercito vicino al Rutbah. Un’azione nata in risposta all’attacco compiuto dalla Settima Divisione dell’Esercito in un campo di addestramento vicino alla cittadina e portata a termine con un kamikaze.
Gli attentati si sono moltiplicati a ridosso delle festività natalizie, nei quali sono stati uccise oltre venti persone. Un quadro che stride con quello dipinto solo un anno fa dall’amministrazione Obama, secondo cui l’Iraq aveva imboccato la giusta strada verso la normalizzazione, nonostante il mancato accordo su un prolungamento della presenza militare americana nel Paese. C’è chi a Baghdad vorrebbe un maggior coinvolgimento degli Stati Uniti, specie negli ambienti vicini al ministero degli Esteri che sarebbe favorevole anche ad azioni condotte con Predator e Ripper dagli stessi americani. Un’ipotesi che però non attrae al-Maliki conscio dello spirito nazionalista di gran parte del popolo iracheno e soprattutto determinato a svolgere un terzo mandato alla guida del Paese.

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