Protocollo Cremlino Marek Halter
Traduzione di Fausta Cataldi Villari
Newton Compton euro 9,90
Dopo il successo de “Il cabalista di Praga” un omaggio alla cultura yiddish che riprende l’antica leggenda del Golem narrando le sorti della comunità ebraica nella Praga del 1600, Marek Halter, intellettuale polacco di fama internazionale che ha firmato innumerevoli libri dedicati all’epopea del popolo ebraico, torna in libreria con una spy story imperdibile che, oltre a una trama ricca di suspense, affronta un argomento storico poco conosciuto: nel 1928 Stalin volle creare una regione autonoma ebraica in Siberia al confine con la Cina, sul fiume Amur, il Birobidjan, a migliaia di chilometri da Mosca nel quale gli ebrei avrebbero potuto realizzare il loro sogno di una patria ebraica. Infatti, dopo la rivoluzione non erano più costretti a vivere in zone riservate e, almeno in apparenza, erano cittadini come gli altri ma senza una propria terra né un Paese: quel piccolo stato nell’estremo Oriente russo rappresentava la speranza di un futuro migliore dopo anni di pogrom e di soprusi, un luogo in cui lavorare la terra, parlare e fare teatro nella loro lingua, lo yiddish. In realtà anche qui la burocrazia sovietica non tarderà a manifestare il suo potere vessatorio.
Ambientato in piena guerra fredda, il romanzo si muove su due diversi piani temporali e spaziali: da una parte c’è Washington con la commissione per le attività antiamericane che alla sua 147 esima udienza nel giugno del 1950 vede sul banco degli imputatati Marina Andreieva Guseiev, un’attrice molto affascinante, accusata di aver ucciso Michael Apron, un agente americano in missione in Urss e di essere entrata in America utilizzando un passaporto falso; dall’altra, sullo sfondo della Russia staliniana all’epoca della seconda guerra mondiale, si dipanano i ricordi di Marina Apron dalla notte trascorsa con Stalin nel lontano novembre 1932, al suo impegno nel teatro, al lavoro da operaia fino al terribile viaggio lungo la Transiberiana per sfuggire alle conseguenze di quel momento di debolezza trovando accoglienza e rifugio, lei che non era ebrea, nel Birobidjan ebraico.
Sullo sfondo della violenta campagna anticomunista che per anni distrusse la vita di tanti americani e che nei libri di storia è conosciuta col nome di maccartismo (dal nome del senatore Joseph Raymond McCarthy che nel 1950 pronuncia il famoso discorso di Wheeling che portò a inscrivere in una “lista nera” gente che lavorava nei media, professori universitari, funzionari sulla base di affermazioni “menzognere”), Marina Andreieva Guseiev viene interrogata per cinque lunghi giorni da John Wood, Nixon, Roy Cohn tutti decisi a provare la sua colpevolezza e a mandarla sulla sedia elettrica. Alle udienze assiste un cronista ebreo del New York Post, Allen Koenigsman, che, incapace di resistere al fascino di una donna dalla volontà d’acciaio e dallo sguardo imperscrutabile e nel contempo intimamente convinto della sua innocenza, non esita a esporsi in prima persona per offrirle un aiuto concreto.
Marina è una figura straordinaria dalle mille sfaccettature, capace di suscitare nel lettore emozioni e suggestioni intense e che Marek Halter ritrae con la consueta capacità affabulatoria che ha dedicato ad altri personaggi femminili. Da un continuo alternarsi fra passato e presente emergono i ricordi dolorosi della vita trascorsa da Marina nel suo paese, della sua fuga verso il Birobidjan fino all’incontro con un americano, Michael Apron del quale, lei assicura con veemenza, non sa nulla del suo passato se non che ne era profondamente innamorata. Ma è possibile credere alle affermazioni di un’attrice sospettata di appartenere alla rete di spie che ha sottratto i piani della bomba atomica? L’abilità narrativa di Halter è tale che piano piano un dubbio si insinua nel lettore aumentando la suspense di un racconto dal ritmo vertiginoso.
E’ una figura limpida e generosa quella del medico Michael Apron, capace di atti di eroismo inimmaginabili in un contesto di guerra e che si oppone alla grettezza di Metvei Levin, il direttore artistico del teatro yiddish nel quale Marina ha trovato rifugio, un uomo appartenente alla razza degli “apparatnik” “la cui ambizione di dare la scalata al potere, di affermarsi dentro il Partito, non conosce limiti”.
Per evitare quello che gli americani chiamano “spoiler”, cioè anticipazioni sulla trama che guastano la suspense e il piacere della lettura, preferisco non aggiungere altri dettagli allo svolgimento di una trama che sin dalle prime pagine di annuncia avvincente.
Basti dire che la semplicità di un personaggio di rara levatura morale consentirà ad Allen Koenigsman di entrare in possesso di un rapporto segretissimo che si rivelerà l’ago della bilancia per la soluzione del processo.
Pregevole è anche l’apparato documentale posto in appendice che arricchisce il romanzo con pagine dedicate a personaggi ed eventi storici, oltre che culturali realmente accaduti.
Mescolare fatti che appartengono alla Storia ad episodi di fantasia dando vita ad un romanzo credibile e perfettamente riuscito non è impresa facile. Marek Halter si dimostra ancora una volta un artista talentuoso capace di ridare vita, con sapienza narrativa e arte affabulatoria, ad un’epoca storica che alcuni hanno dimenticato riannodando i fili di una Memoria lontana per regalarci pagine di struggente bellezza e di indimenticabile suggestione.
Giorgia Greco