domenica 24 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






La Stampa Rassegna Stampa
13.12.2013 Iraq: 10 anni dopo la cattura di Saddam Hussein
cronaca di Maurizio Molinari, commento di Roberto Toscano

Testata: La Stampa
Data: 13 dicembre 2013
Pagina: 12
Autore: Maurizio Molinari - Roberto Toscano
Titolo: «Dieci anni dopo Saddam l'Iraq in cerca di un raiss - L'illusione di cambiare con le armi»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 13/12/2013, a pag. 12, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Dieci anni dopo Saddam l'Iraq in cerca di un raiss ", a pag. 1-29, l'articolo di Roberto Toscano dal titolo " L'illusione di cambiare con le armi ", preceduto da un nostro commento.
Ecco i pezzi:

Maurizio Molinari - " Dieci anni dopo Saddam l'Iraq in cerca di un raiss "


Maurizio Molinari                    Saddam Hussein

Alle 20.30 del 13 dicembre di dieci anni fa la Task Force 121 del colonnello James Hickey catturava Saddam Hussein in una buca sotterranea di ad-Dawr, nei pressi di Tikrit, aprendo la strada alla nascita di un nuovo Stato iracheno oggi a rischio di disgregazione a causa della convergente minaccia di separatismo curdo nel Nord e rafforzamento di Al Qaeda nell'Ovest. L'operazione «Alba Rossa» venne affidata alla IV divisione di fanteria del generale Raymond Odierno e, sulla base delle indicazioni raccolte dal-. l'interrogatorio di un fedelissimo di Saddam, portò ad identificare il rifugio del deposto dittatore nei pressi di una baracca lungo il fiume Tigri, in un'area sunnita di fedelissimi del Raiss. Quando gli uomini di Hickey sollevarono la botola di ferro, celata sotto terra fresca, Saddam si arrese senza combattere consegnando quanto aveva con sé dentro la buca in cemento dotata di un perfetto sistema di areazione: una pistola, kalashnikov e 750 mila dollari liquidi. L'immagine di Saddam che uscita dalla «buca di un topo» - come titolò il «New York Post» - con una barba lunga e il volto sfinito raffigurò la fine del dittatore considerato per decenni il più spietato del Medio Oriente. L'indomani mattina il presidente americano George W. Bush annunciò la cattura di Saddam come il «momento decisivo per la nascita del nuovo Iraq» dopo il rovesciamento del suo regime avvenuto in aprile a seguito dell'intervento militare guidato da Washington. A dieci anni da allora, passando attraverso l'esecuzione di Saddam nel dicembre 2006 e la fine del ritiro delle forza americane cinque anni dopo, l'Iraq appare sull'orlo di una. disgregazione a base etnica che vede protagonisti curdi e sunniti. E stato lo stesso premier Nuri al Maliki a parlarne con Barack Obama durante un colloquio avvenuto a inizio novembre alla Casa Bianca con Ba-rack Obama che ha visto riprendere in considerazione un'ipotesi che sembrava oramai tramontata: la possibilità di siglare intese sulla presenza di basi Usa in Iraq. I timori di Al Maliki, alla guida di una coalizione di governo dominata da partiti sciiti, si devono a quanto su avvenendo su due fronti. Il primo è quello del terrorismo, in ragione del fatto che da aprile le violenze inter-etniche hanno causato oltre 6000 vittime in tutto il Paese soprattutto a causa degli attacchi di Al Qaeda. Le cellule jihadiste che hanno assunto la denominazione di «Stato Islamico dell'Iraq e del Levante» operano in particolare nelle aree del deserto occidentale ai confini della Siria dove la gestione dei rifornimenti di armi per i gruppi di Al Qaeda che si battono contro il regime di Bashar Assad si è sviluppata fino a «produrre il controllo di uno Stato nello Stato che sfugge al governo di Baghdad» secondo quanto recita un rapporto dell'intelligente irachena recapitato questo mese al Pentagono. In particolare, secondo l'analista iracheno Hashim a-Habobi, il «piano di Al Qaeda in Iraq è di insediarsi nelle città di Ramadi, Fallujah e Mosul per tornare a controllare il triangolo sunnita» da dove fu espulsa nel 2006-2007 con le operazioni di controterrorismo americane guidate dal generale David Petraeus. L'insoddisfazione dei sunniti nei confronti di un governo centrale considerato filo-sciita e troppo vicino a Teheran contribuisce a far crescere le fila delle unità jihadista che, secondo il ministro degli Esteri Hoshyar Zebari, sommano almeno 12 mila combattenti «la cui presenza pone rischi all'integrità dell'Iraq come al futuro della Siria». Poiché i quattromila militari Usa rimasti in Iraq svolgono in prevalenza operazioni di sicurezza dentro e attorno alla sede diplomatica a Baghdad, Al Maliki vorrebbe da Obama più sostegno contro Al Qaeda ma l'assenza di accordi bilaterali sulle basi lo rende assai difficile. All'emergenza terrorismo bisogna sommare quanto sta avvenendo nel Kurdistan iracheno, dove il governo autonomo di Erbil ha siglato intese per la vendita diretta di greggio ad Ankara che sollevano forti obiezioni da Baghdad, dove Al Maliki teme la nascita di un'«"economia parallela e divergente da quella nazionale». La debolezza di Jalal Talabani, il presidente curdo dell'Iraq affetto da una grave malattia, priva Al Maliki del canale istituzionale finora servito per arginare il separatismo di Erbil, dove il leader locale Masud Barzani preme per accelerare le intese energetiche con Ankara, destinate ad includere anche il gas naturale. Il governo di Recep Tayyp Erdogan ha fretta di siglare l'intesa con il Kurdistan irachena perché, in ragione di prezzi e tariffe favorevoli, potrebbe ridurre il deficit commerciale nazionale di 5 miliardi di dollari entro il 017 e il governo autonomo curdo vede nella sigla la possibilità di far leva sul potente vicino turco per rafforzare l'autonomia da Baghdad. Se a ciò si aggiunge che Ankara ed Erbil stanno lavorando da mesi alla realizzazione di un oleodotto curdo-turco non è difficile immaginare perché Al Maliki abbia chiesto a Obama di intervenire su Erdogan per frenare un'intesa energetica che rischia di innescare un pericoloso domino: non solo per l'accelerazione del distacco dei curdi iracheni da Baghdad ma anche per l'irritazione fra i leader delle tribù sunnite che sin dalla deposizione di Saddam rivendicano il controllo sull'area petrolifera di Mosul.

Roberto Toscano - " L'illusione di cambiare con le armi "


Roberto Toscano

Toscano teme la distruzione dei stati esistenti, anche se si sono rivelati costruzioni fittizie e dittatoriali. Riportiamo l'analisi di Mordecha Kedar pubblicata il 25 febbraio 2012, nella quale prospetta quale soluzione quella che Toscano teme: la scomparsa degli stati centrali con la suddivisione per tribù. Ecco il link alla pagina:

http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=&sez=320&id=43559

Roberto Toscano scrive anche  che Saddam Hussein fu un dittatore spietato, in particolare contro "i curdi, contro i cui villaggi arrivò ad impiegare lo sterminio chimico". Armi di distruzione di massa, dunque.
Peccato che poi, poche righe sotto scriva che gli Usa attaccarono l'Iraq sostenendo che  "
il regime iracheno stava sviluppando armi di distruzioni di massa - un'accusa rivelatasi poi totalmente infondata.". Come, prima le armi di distruzione di massa c'erano  e poi Toscano le ha fatte sparire ?
Ecco il pezzo:

Sono passati esattamente dieci anni da quando pattuglia americana catturò, qualche mese dopo la sconfitta militare seguita all'attacco all'Iraq della coalizione guidata dagli Stati Uniti, Saddam Hussein, uno dei più spietati tiranni del mondo contemporaneo. Il malandato anziano dalla lunga barba bianca estratto dal buco nel terreno in cui si era nascosto avrebbe potuto suscitare una certa pena, se non fosse stato per l'interminabile lista dei misfatti da lui accumulati nel corso di un trentennio di potere assoluto. Feroce repressione degli oppositori interni, in particolare contro gli sciiti che, pur essendo la maggioranza del Paese, erano relegati sotto il suo regime a uno status di cittadini di seconda classe e contro i curdi, contro i cui villaggi arrivò ad impiegare lo sterminio chimico. Poi le aggressioni, in violazione di tutte le norme internazionali, a Paesi limitrofi: prima all'Iran e poi il Kuwait. Va tuttavia ricordato che l'attacco del 2003 non venne motivato dagli Stati Uniti, e dai Paesi che a loro si associarono nell'invasione, sulla base di nessuno di questi misfatti, bensì con l'accusa, spacciata come categorica certezza, che il regime iracheno stava sviluppando armi di distruzioni di massa - un'accusa rivelatasi poi totalmente infondata. Come disse qualche anno dopo Hans Blix, responsabile per l'Onu delle ispezioni in Iraq, «gli americani avevano sostituito tutti i punti interrogativi con punti esclamativi». Una guerra pretestuosa, giustificata dai neo-con dell'amministrazio-ne di George W. Bush sulla base di una scoperta falsificazione dei dati di fatto (ricordiamo il penoso «show» alle Nazioni Unite del fino ad allora prestigioso Generale Powell). Una guerra che causò non poche polemiche e persino una insolita spaccatura nello schieramento occidentale. Ma perché distinguere, rivangare su fatti reali e una distorsione propagandistica necessaria a costruire consenso, quando il risultato fu l'eliminazione del tiranno? Non avrà per caso ragione Cheney, neo-con non pentito, quando dice oggi che comunque stessero effettivamente le cose, «il mondo sta meglio senza Saddam?». Vediamo. L'Iraq non è passato dalla dittatura alla democrazia, bensì a un governo di maggioranza sciita che governa in modo repressivo e autoritario contro una minoranza sunnita che non ha mai accettato di perdere il suo tradizionale potere e cerca di stabilizzarlo con tutti i mezzi, compreso uno stillicidio di attentati terroristi. Da parte loro i curdi hanno messo in atto una secessione di fatto, fra l'altro ultimamente cominciando a disporre direttamente, senza alcun coinvolgimento di Baghdad, delle loro risorse petrolifere, che paradossalmente si dirigeranno verso quelli che dovrebbero essere i nemici storici dei curdi, i turchi. Il Paese, in altri termini, è spaccato politicamente e si dirige verso una sempre più profonda spaccatura anche territoriale le cui conseguenze minacciano di essere drammatiche. E va aggiunto che i cristiani iracheni, che sotto il regime laico di Sad-dam condividevano la poco invidiabile sorte di soggetti di una dittatura, ma non erano perseguitati per motivi religiosi, dopo la sua caduta sono stati sottoposti a tali minacce e pressioni che hanno abbandonato in massa il Paese. Sotto il profilo internazionale, non vi è dubbio che la caduta di Saddam e la sua sostituzione con un governo che rappresenta la maggioranza sciita e che intrattiene ottimi rapporti con l'Iran abbiano fatto scattare un «allarme rosso» in Arabia Saudita. Anche prima del 2003 i sauditi notoriamente appoggiavano dall'Afghanistan all'Algeria le correnti più radicali dell'islamismo militante, ma è soprattutto con la caduta del baluardo sunnita contro la minaccia iraniana che sono passati da una difesa dello status quo contro la temuta espansione sciita a una guerra senza esclusione di colpi (condotta con i soldi, le armi, i servizi segreti) che persegue un rollback che va ben oltre l'Iraq, e si estende soprattutto alla Siria, governata da un regime, quello di As-sad, che è sostanzialmente laico (gli alawiti sono soltanto lontanamente apparentati allo sciismo) ma è appoggiato soprattutto dall'Iran. Ma cosa vedono le popolazioni della regione? Quali insegnamenti possono avere tratto dal rovesciamento di Saddam? In primo luogo sono risultati clamorosamente confermati i limiti della potenza americana, e si è avuta come conseguenza una sua forte e probabilmente irreversibile caduta di credibilità. Più recentemente la fine violenta di un altro dittatore, Gheddafi, ha drammaticamente rafforzato le stesse conclusioni: che gli interventi esterni possono effettivamente rovesciare un odiato e sanguinoso tiranno, ma che ben difficilmente sono in grado di costruire le basi per sistemi capaci di garantire, prima che la libertà e il benessere, quella minima coesione a livello nazionale e sociale che ne costituisco- no la necessaria premessa. Il pericolo è che la dittatura venga sostituita dall'anarchia. La violenza dei dittatori è spesso mirata, ciclica, e tende a lasciare al cittadino comune, purché accetti di essere passivo politicamente, quanto meno un minimo spazio di tranquillità. L'anarchia è violenza continua, lotta per bande che si scatena una volta caduto il monopolio che il tiranno è riuscito a stabilire. Oggi il dramma del Medio Oriente è totale e difficilmente superabile. Da una parte abbiamo il tramonto storico dei regimi dittatoriali, insostenibili nel loro sfacciato meccanismo dinastico e familista e nella loro sistematica cleptocrazia: Saddam è stato il primo ad uscire di scena, poi ci sono stati Ben Ali in Tunisia, Mubarak in Egitto, mentre Assad potrà forse sconfiggere militarmente i ribelli, ma la sua dinastia sembra comunque volgere alla fine. Molti criticano Obama per essersi lasciato illudere dal miraggio di un islam moderato, concretamente dal movimento dei Fratelli Musulmani, ma il suo errore, se di errore si tratta, si spiega con la necessità (un compito con cui siamo pur sempre alle prese) di trovare nel mondo arabo-musulmano una via che ci permetta di sfuggire alla alternativa fra dittature senza umanità e senza futuro da una parte e la decomposizione dello Stato, successiva al loro rovesciamento, in cui imperversano soprattutto i violenti, e concretamente i jihadisti, oggi vera e propria internazionale di combattenti dall'Afghanistan al Mali.
Nel momento in cui celebriamo la grandezza di Nelson Mandela dovremmo forse chiederci se la via della lotta pacifica (anche nei confronti di nemici spietati e militarmente agguerriti come i bianchi dell'apartheid) non sia più realistica sia del militarismo interventista, con copertura umanitaria, e della insurrezione armata contro i dittatori. Non sappiamo di certo cosa sarebbe accaduto se il regime di Saddam non fosse stato rovesciato dall'esterno, ma proprio perché è impossibile dare una risposta non siamo nemmeno in grado di escludere che un Paese culturalmente avanzato e con una grande storia, con uno Stato fra i più strutturati del Medio Oriente, con una classe economica dinamica avrebbe finito per acquistare, certo con la dissidenza e la lotta, spazi di libertà crescenti. E' la scommessa che fanno oggi gli iraniani - quelli che vogliono rafforzare il regime, quelli che vogliono cambiarlo radicalmente, e persino quelli che vorrebbero voltare pagina sull'esperienza della Repubblica Islamica per costruire un Paese democratico e laico - oggi uniti nel pensare che una guerra sarebbe una sconfitta per tutti e che invece un passo più lento, ma costante e con un'ampia base di consensi potrà portare ad un Paese migliore. Forse la libertà si consegue con una maratona, non con uno sprint. E' comprensibile celebrare la fine del tiranno, ma razionalità ed etica della responsabilità dovrebbero indurci a comprendere fino in fondo non solo l'orrore, ma la sterilità, la fragilità della scorciatoia della violenza.

Per inviare la propria opinione alla Stampa, cliccare sull'e-mail sottostante


lettere@lastampa.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT