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Informazione Corretta Rassegna Stampa
10.12.2013 Primo Levi: le parole per dire
commento di David Meghnagi

Testata: Informazione Corretta
Data: 10 dicembre 2013
Pagina: 1
Autore: David Meghnagi
Titolo: «Primo Levi: le parole per dire»

“Le parole per dire”
analisi di David Meghnagi


David Meghnagi

Colui che cammina sulla testa vede il cielo sotto di lui come un abisso.
 P. Celan, Discorso per il premio Buechner
 
Premessa

Trauma e scrittura nell’opera di Primo Levi  1
 
Le grandi opere non nascono nel vuoto. Sono alimentate da sorgenti sotterranee attive nei sogni e nelle fantasie diurne. Per molti anni è sfuggito ai più che Se questo è un uomo, oltre a essere un grande atto di testimonianza, fondato sulla verità,  documentato in ogni aspetto,  è anche  un trattato filosofico antropologico su un’esperienza estrema che da Levi un sociologo e uno psicologo del Lager, un’opera di letteratura fra le più grandi del Novecento.  
Per ragioni comprensibili il ruolo di testimone che Levi ha assunto come un vate, ha messo per molto tempo in ombra quello di scrittore. Che Levi abbia contribuito in proprio ad alimentare questa leggenda affermando di aver scritto la sua opera più importante di getto è solo l’elemento più appariscente e di colore, che dovrebbe invitare a riflettere piuttosto che a dare per scontata una tale spiegazione. Ci sono infatti ragioni oggettive, oltre che soggettive, che hanno pesato in questa lettura: la testimonianza non può che fondarsi sull’oggettività dei fatti riportati,  e Levi fu per questo attento a verificare la fondatezza di ogni sua affermazione.   
Collocare Levi in una zona limite posta tra la letteratura  e la testimonianza, ha contribuito a occultare e rimuovere il problema della responsabilità degli scrittori di fronte ai problemi più inquietanti del nostro più recente passato. Secondo questa logica Solgenitzijn potrebbe non essere considerato uno scrittore. Non sarebbero letteratura, le pagine dei Diari di Kafka e chissà quanti altri grandi capolavori dell’umanità. 
La rimozione del valore letterario di Se questo è un uomo, può essere considerata un sintomo della difficoltà a fare i conti con i problemi che l’opera di Levi solleva. L’opera ha atteso un decennio prima di essere accolta, rifiutata dai grandi editori e pubblicata in sordina prima di arrivare al grande pubblico. Dopo essere stata accolta dal grande pubblico, è stato circoscritta al suo valore di testimonianza. Ci vollero altri cinque anni, fino all’uscita de La tregua perché autorevoli critici (Paolo Milano e Giancarlo Vigorelli, tra le altre) si levassero per dire  che ci si trovava davanti ad un vero scrittore (Premio Campiello 1963). Ma scrittore, Levi lo era già stato con la sua prima opera, testimoniando e raccontando la verità.
La chiarezza e lo stile espositivo dell’opera di Levi sono elementi di una complessità che non è stata ancora  adeguatamente esplorata. Basti pensare all’uso dei tempi, alle opposizioni complementari con cui descrive situazioni diverse, il “chiasso dei russi” ne La tregua coi “latrati dei tedeschi”  in Se questo è un uomo, il diverso andamento narrativo fra le prime due opere, il diverso uso dei tempi volto a rafforzare nel lettore la capacità di entrare in sintonia con la situazione descritta. Oppure anche i frequenti agganciamenti dei finali di capitolo con le aperture di quelli successivi tramite la ripetizione di situazioni o parole o le due assieme sui quali ha  richiamato l’attenzione Mengaldo (P.V. Mengaldo, in D. Meghnagi, 2006, pp. 34-35). La formazione scientifica di Levi, col suo linguaggio chiaro e lontano “dal linguaggio del cuore”, la tensione morale dei suoi scritti hanno offerto una combinazione unica di elementi psicologici, stilistici e formali per dare corpo ad una delle opere più significative di testimonianza che sia mai stata scritta sull’esperienza dei Lager.
Primo Levi ha vissuto sulla propria pelle l’angosciante quesito posto da Adorno se sia possibile fare poesia dopo Auschwitz. Vi ha risposto facendo appunto letteratura laddove sarebbe apparso impossibile: restando ancorato all’oggettività contro una tendenza pericolosa che si è affermata nei decenni successivi di ridurre tutto a narrazione e costruzione. L’attacco del negazionismo contro la verità dei campi ha in questo nuovo atteggiamento, rafforzato dall’affermazione del “virtuale” sul “reale” un suo riferimento ideologico. Secondo questa logica, se tutto è “narrazione”, l’una può valere l’altra. La verità dipende da chi ha il potere.  
Contro questa pericolosa tendenza invalsa verso la metà degli anni ottanta, Levi ha levato la sua voce accorata sottolineando la necessità di tenere sempre distinta la realtà delle vittime da quella dei suoi carnefici.  
 La vittima è tale e come tale merita per Levi la nostra compassione e comprensione empatica, l’unica che può aiutarlo dopo a superare gli abissi dei sentimenti di colpa reali o immaginari.  Il persecutore resta tale e come tale va considerato. Ognuno con le sue dirette responsabilità: chi ha ideato e programmato lo sterminio e chi lo ha messo in atto, chi ha dato i comandi e chi li ha eseguiti, i fiancheggiatori attivi e quelli passivi coloro che hanno finto di non vedere e di non ascoltare e coloro che hanno semplicemente atteso. Nemmeno le vittime sono fra loro uguali. I “sommersi”, i più fragili e i più deboli all’interno della comunità degli oppressi, coloro che non hanno mai avuto parola e sono spariti nel nulla e dei quali l’ultimo Levi intende essere il portavoce, sono un capitolo a parte della tragedia dello sterminio, la più dolorosa e la più spaventosa. Il rifiuto di termini come Olocausto, invalsi nell’uso quotidiano, è per Levi un gesto etico contro la banalizzazione  della tragedia dello sterminio entro cornici rassicuranti per la cultura, offensiva per le vittime, che vedrebbero, in tal caso, il loro destino simbolicamente inscritto in un ordine rituale di senso, qual è, ad esempio, quello che dà al “sacrificio” della vittima un valore di regolazione dell’ordine sociale. (B.  Bettelheim  1981,  p. 91 e sgg.). 
La dilatazione della zona grigia nell’ultima opera di Levi non è una sorta di lasciapassare per le amnesie e i comportamenti del passato. Le fratture che si respirano tra la prima opera di Levi e l’ultima non sono solo la conseguenza di uno stato psicologico dell’autore. Di là di questi aspetti importanti per la comprensione del mondo interno di Levi e delle angosce da cui era divorato e che hanno trovato voce nella poesia, sono il risultato del difficile e complesso dialogo che l’autore ha intrattenuto per un quarantennio con gli sviluppi più importanti della ricerca sulla Shoah.  È un invito a un esame perenne della coscienza, una meditazione permanente sui pericoli che incombono sulla vita umana; un invito, per quanto carico di disperazione (qui l’elemento personale gioca una sua parte), alla consapevolezza per l’oggi, per restare autenticamente fedeli al comandamento della poesia d’apertura di Se questo è un uomo. 
Nella prefazione al suo primo libro aveva affermato “che in fatto di particolari atroci”, egli non avrebbe aggiunto “nulla a quanto” era “ormai noto ai lettori di tutto il mondo sull’inquietante argomento dei campi di distruzione” (Levi, 1947, pp. 3-4). Il pudore spinge ad alleviare l’indisponibilità del lettore ad ascoltare ciò che il mondo preferisce dimenticare.  Il libro era stato respinto dalla Einaudi e tra gli autori del rifiuto c’era Natalia Ginsburg, ebrea come lui e moglie  di  uno dei più autorevoli esponenti della resistenza, torturato e assassinato in quanto ebreo e partigiano. Con pudore, quasi in punta di piedi, Levi dichiara al lettore che in fatto di atrocità il suo libro non avrebbe aggiunto nulla a quanto già si sapeva. Come se il vaso di pandora dello sterminio non dovesse ancora essere scoperchiato e non ci fosse ancora molto da sapere e svelare. Una figura retorica del discorso, un modo per guadagnare la disponibilità all’ascolto in un mondo che voleva guardare al futuro e non al passato. 
 Quarant’anni dopo, quando Levi redige la sua summa sul Lager, la situazione era completamente diversa. Non solo si sapeva molto di più, ma stava per cambiare anche la percezione del passato. Da episodio assolutamente brutale della lunga catena di crimini nazisti, la Shoah stava per assumere il significato di un paradigma del male (J. C. Alexander, 2003; Th. H. Hamerow, 2008).

Tra Levi e Milgram

Levi non si è mai trovato  a suo agio con le letture a sfondo psicologico, ma il suo contributo alla ricerca psicologica è indubitabile. La sua descrizione della vita nel Lager, il suo rifiuto delle tentazioni riduzioniste con cui è stata talvolta rappresentata sono una lezione etica e di conoscenza. Il film della Cavani, che Levi definisce “bello e allo stesso tempo falso”, è solo un esempio, nemmeno il peggiore nella ricerca di facili risultati.  L’esigenza di distinguere è per Levi una barriera contro una nuova indifferenza che, nell’appiattimento dei linguaggi, manifesta i primi segni premonitori. La corruzione della vita comincia sempre con la corruzione del linguaggio. 

Su questa mimesi, su questa identificazione o imitazione o scambio di ruoli fra il soverchiatore e la vittima, si è molto discusso. Si sono dette cose vere e inventate, conturbanti e  banali, acute e stupide: non è un terreno vergine, anzi, è un campo arato maldestramente, scalpicciato e sconvolto[…]
Non mi intendo di inconscio e di profondo, ma so che pochi se ne intendono,e che questi pochi sono più cauti; non so e  mi interessa poco sapere, se nel mio profondo si annidi un assassino, ma so che vittima incolpevole sono stato e assassino no; so che gli assassini sono esistiti, non solo in Germania, e ancora esistono,a riposo o in servizio, e che confonderli con le loro vittime è una malattia morale e un vezzo estetistico o un sinistro segnale di complicità; soprattutto è un servigio reso (volutamente o no) ai negatori della verità.
(Levi, 1986, pp. 684-685).

Levi non sembra essere stato al corrente in quegli anni dell’esperimento che Stanley Milgram aveva messo a punto nei locali dell’Interaction Laboratory dell’Università di Yale appena tre mesi dopo l’inizio del Processo Eichmann. Levi non lo cita mai nelle sue opere. Eppure la zona grigia sulla quale torna a riflettere nella sua ultima opera, ne costituisce un controcanto tragico, il contributo specificamente leviano ad un approfondimento.
I partecipanti alla ricerca condotta da Milgram erano stati reclutati  tramite un annuncio su un giornale locale o tramite inviti spediti per posta a indirizzi ricavati dalla guida telefonica. Il campione era composto da persone fra i venti e i cinquanta anni, di varia estrazione sociale ai quali fu comunicato che avrebbero collaborato, dietro ricompensa, a un esperimento sulla memoria e sugli effetti dell'apprendimento. 
Si trattava di persone normali che non avrebbero fatto gratuitamente del male al prossimo. Eppure nella relazione asimmetrica istituita con lo sperimentarore il loro comportamento era andato incontro a cambiamenti profondi.
Nonostante i quaranta soggetti dell'esperimento mostrassero sintomi di tensione e protestassero verbalmente, una percentuale considerevole aveva obbedito agli ordini dello sperimentatore. Il grado di obbedienza mostrato aveva un che di inquietante.  Dimostrava che i pericoli più grandi non vengono dalla “patologia” e dall’aggressività ma dai meccanismi che stanno base dell’obbedienza all’autorità, da un blocco delle funzioni  morali che ha come sfondo un processo di scotomizzazione delle funzioni del Super-io: uno stato eteronomico attraverso cui il soggetto si sente  personalmente “non responsabile” delle sue azioni. 
Per spiegare questo processo, Milgram  fa ricorso a tre importanti fattori propri di ogni realtà sociale e umana: la percezione di legittimità di cui è investita l'autorità, l’adesione del singolo al sistema di autorità, le pressioni sociali che il soggetto vive di fronte a un conflitto interiore fra obbedienza e valori. Nell’esperimento il fondamento dell’obbedienza era dall’autorevolezza della scienza. Dalla realtà del Lager, una realtà limite irriducibile a situazioni normali, siamo dunque passati alla realtà di un qualunque ospedale psichiatrico tradizionale o qualunque centro in cui le relazioni sono state alterate  dalla mancanza di controllo e di regole che pongono un freno al potere. Era stato sufficiente sostituire momentaneamente lo sperimentatore con un assistente, perché il comando perdesse una parte della sua efficacia e un numero crescente di persone si rifiutassero e si ribellassero.
Quanto al secondo elemento, l’adesione al sistema d’autorità, l’obbedienza all’autorità è un elemento fondante di qualunque processo di formazione e di socializzazione. Sul piano umano e sociale la disobbedienza ha un alto costo. Non viene facilmente perdonata dal gruppo anche quando è moralmente fondata. 
Ci sono però due fattori che modificano la disponibilità a mettere in atto un ordine: la distanza tra l’insegnante e l’allievo e la distanza tra il soggetto sperimentale e lo sperimentatore. La “vista” della vittima, l’identificazione empatica col suo dolore è un elemento importante nella decisione di trovare la forza per dire di no a un comando che provoca un conflitto morale interno2 .
Si tratta di aspetti che hanno profonde implicazioni sociali e che aiutano almeno in parte a spiegare il modo in cui un sistema totalitario procede nella distruzione delle sue vittime.
L'obbedienza ha come sfondo ridefinizione del significato della situazione. Ogni situazione è infatti caratterizzata da un orientamento culturale e psicologico che definisce e spiega il significato degli eventi che vi accadono, fornendo la prospettiva grazie alla quale i singoli elementi acquistano coerenza. La coesistenza di norme sociali contrastanti (da una parte quelle che inducono a non utilizzare la forza e la violenza e dall'altra quelle che prevedono una reazione aggressiva a certi stimoli) fa sì che la probabilità di attuare comportamenti aggressivi venga di volta in volta influenzata dalla percezione individuale che si ha della situazione. È questa a orientare e determinare quali norme siano pertinenti al contesto e debbano perciò essere seguite.  Il pericolo cui va incontro il soggetto nel momento stesso in cui  accetta la definizione della situazione proposta dall'autorità, è la ridefinizione di un'azione distruttiva non solo come “ragionevole”, ma anche come “oggettivamente necessaria”.  La lezione che se ne trae è che il vero atto di prevenzione per la conservazione della propria salute mentale e morale sta prima dell’ingresso in una relazione asimmetrica col potere.  Chi per interesse o per desiderio di appartenenza accetta di entrare in una relazione asimmetrica col potere, è già moralmente in difetto. Si predispone a compiere azioni che in una situazione diversa non farebbe.  L’altra lezione è che la frammentazione delle informazioni, il fatto di non avere il quadro complessivo della situazione, sono elementi centrali di disgregazione morale e culturale strategica che il potere criminale mette in atto  contro le sue vittime. L’unità cognitiva ed emotiva della situazione, la conoscenza di quanto realmente accade è uno strumento essenziale per una presa di coscienza morale e civile. La vigilanza è d’obbligo. Per impedire che il male dilaghi, occorrono regole, leggi e norme che vietano esplicitamente di accettare ordini contrari all’etica. L’istituzione di un  tribunale internazionale contro i crimini nazisti ha avuto qui il suo fondamento più alto. Da quel momento idealmente ma anche giuridicamente, l’umanità non avrebbe più accettato l’idea che ci si possa trincerare dietro l’obbedienza per giustificare la propria viltà o collusione aperta con un regime criminale. 
Negli anni in cui Milgram conduceva le sue ricerche, le narrazioni progressiste della guerra erano in crisi. Il pericolo nucleare incombeva come un fantasma, l’immagine dell’America fortemente incrinata dalla guerra del Vietnam e dalla protesta civile. Il regime sovietico per quanto in apparenza ancora forte, mostrava  crepe profonde. Le speranze suscitate a sinistra dal Congresso del PCUS erano largamente scemate. La presa culturale dell’URSS nel mondo stava declinando. I cambiamenti intervenuti nella vita sovietica erano stati parziali e funzionali alla conservazione di un potere criminale. Da patria “dell’uomo nuovo” il regime mostrava il suo vero volto anche a chi non aveva voluto per lungo tempo vedere.  Quando Levi scrive I sommersi l’impero sovietico volgeva al termine, i partiti comunisti occidentali erano al tramonto, il loro potere fortemente residuale, sebbene in Italia ancora non apparisse tale.  La geopolitica dell’Europa stava per cambiare e con essa gli equilibri mondiali.
Il mondo era di nuovo in moto e Levi aveva solo degli strumenti parziali per analizzarlo. Ciò che col suo attento sguardo poteva analizzare, era  solo una parte di un mosaico complesso e dalle molteplici sfaccettature: la zona grigia del comportamento umano. 

Il doppio sogno

 Levi fu apprezzato per il suo moderato ottimismo, la tendenza a voler comprendere e a non accusare. Leggendo o ascoltando l’autore si poteva partecipare a un intero mondo e non sentirsi  giudicati. Dopo il suicidio ha prevalso una visione opposta.  L’immagine di un Levi “ottimista” ha lasciato il posto a un visione più tragica che l’ultima sua opera ha contribuito a rafforzare.
In realtà bastava saper leggere tra le righe e negli interstizi tra un libro e l’altro, nelle poesie e nelle aperture e chiusure delle sue opere di testimonianza e di invenzione per avere una visione più complessa della personalità dell’autore e della sua opera. La dimensione tragica era già presente nelle prime opere. Solo che era messa ai margini del racconto, nei preludi e nelle chiusure attraverso di una poesia in attesa di essere ripresa e approfondita con strumenti culturali più adeguati.
Chi non ha tremato leggendo la poesia di apertura di Se questo è un uomo con la sua possente trasfigurazione della preghiera ebraica dello  Shema  in un appello al ricordo e a una vigilanza costante? (P. Levi, 10 Gennaio 1946, p. 529; Id., Shema, in OPL, vol. II, p. 529). Chi non è rimasto per sempre toccato dall’immagine del doppio sogno con cui si chiude la Tregua dove appare chiara, per chi voglia   veramente leggere, l’angoscia perenne  del sopravvissuto, il suo essere per sempre da un’altra parte? 
  La poesia d’apertura di Se questo è un uomo, col suo appello al ricordo scandito sui versi dello Shema’ Israel (“Ascolta Israele”, Levi, 1947, p. 1), è il motivo di tutta l’opera successiva, segno di un tormento irrisolto che l’apertura e la chiusura de La Tregua non fanno che esplicitare: il sogno più grande e ricorrente   era di potere un giorno tornare, mangiare, raccontare finché “suonava breve e sommesso il comando dell’alba” e  “si spezzava in petto il cuore”. Il ritorno ha significato per Levi il ritrovamento della propria casa. Per gli ebrei dell’Est non c’era stato nemmeno questo. Nei villaggi e nelle città non c’era più nessuno ad attenderli. Le case erano state occupate e il rischio era di poter essere linciati. Nella sua città natale il ventre si era finalmente saziato. Ma la conclusione  del sogno di Levi è opposta:

“Abbiamo finito di raccontare”. 
E’ tempo.  Presto udremo ancora
Il comando straniero:
Wstawac”  (Levi, 1963, p. 213)

 Come anche il titolo intende esplicitare si tratta  di una tregua, la realtà più vera è un’altra che il racconto di chiusura fa risaltare in modo drammatico:  un sogno ricorrente fra i deportati, che Levi non ha smesso di fare dopo il suo ritorno nella casa in cui era nato, dove aveva continuato a vivere sino alla morte. 
Come un messaggio d’oltretomba, il sogno non ha cessato di visitare Levi “ad intervalli ora  fitti, ora radi”. Un sogno d’angoscia, carico di spavento, “un sogno dentro un altro sogno, vario nei particolari, unico nella sostanza”. Il sogno d’angoscia significativamente simile di molti internati, si apre con la scena di un ritorno a casa. Cosa c’è di più importante del rivedere i propri cari, gli amici di un tempo, i luoghi da cui si è stati strappati! Il ritorno è però segnato da una sofferenza sottile e tremenda perché, al momento di raccontare alle persone care la propria vicenda, esse si voltano, o se ne vanno. 
 
E non ha cessato di visitarmi, ad intervalli ora fitti, ora radi, un sogno pieno di spavento.
È un sogno entro un altro sogno, vario nei particolari, unico nella sostanza. Sono a tavola con la famiglia, o con amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente insomma placido e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena, eppure provo un’angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E’ infatti, al procedere del sogno, a poco a poco o brutalmente, ogni volta in modo diverso, tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone, e l’angoscia si fa più intensa e più precisa. Tutto è ora volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. Ora questo sogno interno, il sogno di pace, è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. E’ il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, “Wstawac”
. (P. Levi, 1963, pp. 422-423).

Nel suo funzionamento normale il sogno fa da cuscinetto tra il reale e la realtà ordinata dal principio del piacere e dalla catena delle rappresentazioni. In tal modo permette, per quanto camuffata una messa in scena del mondo interno. Il sogno attira il reale in uno spazio di finzione, è come se lo mettesse su un palcoscenico, ne prende le misure mentre lo assume e contemporaneamente crea un senso possibile. E, anche nello stesso prodursi della scena onirica, la coscienza resta non del tutto aderente alla percezione visiva degli enti rappresentati, al punto che Freud dice che il sognatore spesso sa bene che in fondo sta solo sognando. (S. Freud,1899, p. 311). Sarà poi col risveglio che il soggetto ripristinerà il funzionamento delle sue consuete rappresentazioni secondo la logica del processo secondario, e intorno a esse potrà pienamente ricostituirsi, nella sua coerenza e unità, la funzione della coscienza. Talora dopo essersi risvegliati per un bisogno impellente, si torna consapevolmente a letto per completare il sogno. 
Rispetto a questo funzionamento, l’incubo rappresenta un’anomalia. Spezzando le difese intrapsichiche, si rivela traumatico e intollerabile in quanto produce nel sognatore un senso di pietrificazione, fissandolo in una dimensione di vita che si configura come una sorta di eccedenza piena, totalizzata, dalla quale nulla permette una distanza. Il soggetto non sa di sognare, si percepisce anzi con una chiarezza assoluta tutto all’interno della scena onirica, dove si ritrova sdoppiato tra la percezione di un corpo inerte – un corpo inchiodato all’impossibilità di un movimento salvifico- e la piena coscienza di uno sguardo esterno e irreale: non c’è urlo, non c’è parola, il soggetto è catturato in un punto di sospensione infinita e insostenibile. 

La  poetica del silenzio

La poesia di Levi non è un abbozzo, né come talora si è creduto un accenno alla prosa. I testi poetici di Levi sono preludi delicati che commentano, chiusure che affidano ai versi ciò che la prosa non può contenere, una poetica del silenzio fatta di pudore e di reticenza, che  si ferma di fronte all’indicibile.  Per dirla con Fortini  le poesie stanno all’intera opera come la poesia dello Shema’ sta alla testimonianza di Se questo è un Uomo.  Sono  “il grido di apertura” di chi non può concedersi per scelta o perché impedito, “quello finale”, un contro canto straziante che mette in scena il Levi scrittore e saggista. (F. Fortini, 1991, p. 166).
Questo aspetto indicibile, del non rappresentabile  consegnato alla poesia, alle aperture e chiusure mantiene vivo nel lettore la possibilità di un pensiero ancor più complesso di quanto egli non abbia potuto immaginare.  In tal senso anche l’omaggio al mondo jiddisch, in apertura a Il Sistema periodico, Iberkugemene tsores iz gut tsu derstelyn, (“E’ bello raccontare i guai passati”, Primo Levi, 1975, p. 427), può essere letto in modo opposto. 
Dopo il tragico suicidio di Levi, quanto prima era stato denegato sull’onda di una lettura che privilegiava gli aspetti positivi e vitali del messaggio di Levi, l’ottimismo misurato che trapelava negli articoli e nelle interviste, dopo la morte apparve in una luce diversa.
Anche il rimprovero a Jean Amery per quel suo “fare a pugni” col mondo intero per riscattare il Sé ferito, poteva essere ora letto  in una luce diversa, se non come un segno premonitore, un momento di una difficile battaglia che Levi non aveva smesso di combattere, facendo dell’amico un alter ego con cui discutere in un complesso gioco di sdoppiamenti e di scissioni, che non risparmiavano nemmeno il giudizio impietoso sulle ragioni che lo avevano portato al suicidio.
E’  angosciante dover pensare che lo spostamento di una delle cifre di 1978, la data della morte di Amery conduca a quella  di Levi  1987. L’ambivalenza con cui lo scrittore torinese descrive le scelte dell’amico austriaco non possono non far pensare alla presenza di una segreta simmetria fatta di complementarietà caratteriali e di un segreto fascino per “il grido inarticolato” del suo amico filosofo.
Rendendo chiaramente visibili le sue ossessioni, Levi dichiarava, in modo insolito, che il suicidio di Amery, pur ammettendo come tutti i suicidi “una nebulosa di spiegazioni, “a posteriori ne offre un’interpretazione”.

Ammiro la resipiscenza di Améry, la sua scelta coraggiosa di uscire dalla torre d’avorio e di scendere in campo, ma essa era, e tuttora è, fuori dalla mia portata. La ammiro: ma devo constatare che questa scelta, protrattasi per tutto il suo dopo- Auschwitz, lo ha condotto su posizioni di una tale severità ed intransigenza da renderlo incapace di trovar gioia nella vita, anzi di vivere: chi “fa a pugni” col mondo intero ritrova la sua dignità ma la paga ad un prezzo altissimo, perché è sicuro di venire sconfitto. Il suicidio di Amery, avvenuto nel 1978 a Salisburgo, come tutti i suicidi ammette una nebulosa di spiegazioni, a posteriori, l’episodio della sfida contro il polacco ne offre un’interpretazione. (Ibid., p. 762).

Levi non assolve. Ma non lancia anatemi, né accuse. Quando il suo grido sta per farsi stridulo, lo consegna alla poesia, collocandolo in apertura o in chiusura. 
Scrivendo di Trakl e di Celan, verso cui in particolare provava identità del sentire, discostandosi da un tradizionale riserbo, Levi individuava un legame tra il loro suicidio e “l’oscurità della loro poetica”. In un gioco di sdoppiamenti e rispecchiamenti, che lasciavano trapelare le ossessioni contro cui più combatteva, Levi scrive che il “loro comune destino” fa pensare “all’oscurità della loro poetica come ad un preuccidersi, a un non voler essere, ad una fuga dal mondo, a cui la morte è stata un coronamento”.
Spaventato forse dai suoi pensieri, Levi aggiunge che essi hanno  diritto ad essere rispettati perché il loro mugolio animale era terribilmente motivato.
 
L’effabile è preferibile all’ineffabile, la parola umana al mugolio animale. Non è un caso che i due poeti tedeschi meno decifrabili, Trakl e Celan, siano entrambi morti suicidi, a distanza di due generazioni. Il loro comune destino fa pensare all’oscurità della loro poetica come ad un preuccidersi, a un non voler-essere, ad una fuga dal mondo, a cui la morte voluta è stata coronamento. Sono da rispettarsi, perché il loro “mugolio animale” era terribilmente motivato: per Trakl, dal naufragio dell’Impero Asburgico, in cui egli credeva, nel vortice della Grande Guerra; per Celan, ebreo tedesco scampato per miracolo alla strage tedesca, dallo sradicamento e dall’angoscia senza rimedio davanti alla morte trionfatrice.  (P. Levi, 1976a p. 636).

Per Celan, soprattutto, il discorso “deve farsi serio e responsabile”.
 
si percepisce che il suo canto è tragico e nobile, ma confusamente: penetrarlo è impresa disperata, non solo per il lettore generico, ma anche per il critico. L’oscurità di Celan non è disprezzo del lettore né insufficienza espressiva né pigro abbandono ai flussi dell’inconscio: è veramente un riflesso dell’oscurità del destino suo e della sua generazione, e si va addensando sempre più intorno al lettore, stringendolo come in una morsa di ferro e di gelo […]. Questa tenebra che cresce di pagina in pagina, fino all’ultimo disarticolato balbettio, costerna come il rantolo di un moribondo, ed infatti altro non è. (ibid., pp. 636-637).

Dopo aver confessato la segreta attrazione per Celan, Levi sottolineava la distanza, accostando la scrittura di Celan a delle tenebre che avvincono “come le voragini”, ma insieme ci defraudano di qualcosa  “che doveva essere detto e non lo è stato”, frustandoci e allontanandoci. Ossessionato dal timore di perdersi in quelle tenebre, aggiunge che Celan poeta deve “essere piuttosto meditato e compianto che imitato”. (Ibid).

Se il suo è un messaggio, esso va perduto nel “rumore di fondo”: non è una comunicazione, non è un linguaggio, o al più è un linguaggio buoi e monco, qual è appunto quello di colui che sta per morire, ed è solo, come tutti lo saremo in punto di morte.. Ma poiché noi vivi non siamo soli, non dobbiamo scrivere come se fossimo soli. Abbiamo una responsabilità, finché viviamo: dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far sì che ogni parola vada a segno (ibid).
 
Nella conclusione, Levi attenuava il tono di un giudizio discutibile.  Le sue erano solo delle preferenze e non delle norme. Chi scrive “è libero di scegliersi il linguaggio o il non-linguaggio che più gli si addice, e tutto può darsi: che uno scritto oscuro per il suo stesso autore sia luminoso ed aperto per chi lo legge; che uno scritto non compreso dai suo contemporanei diventi chiaro ed illustre decenni e secoli dopo”. (Ibid., 639)

Levi e  Kafka

La difficoltà di Levi a comprendere l’opera di Celan è ben visibile nel rapporto  instaurato con uno degli scrittori più grandi  del Novecento: Franz Kafka. Le pagine dedicate al suo rapporto con lo scrittore ebreo praghese, con cui si cimentò in una complessa e per lui particolarmente difficile e conflittuale opera di transazioni linguistiche con la traduzione de Il processo (C. Cases, 1987, p. 16; Primo Levi, 1983), sono rivelatorie  delle ragioni che attribuiva alla sua scrittura. C’era per Levi una spiegazione profonda che giustificava le scelte linguistiche.
Di fronte ai commenti che avevano seguito la sua traduzione e le ripetute dichiarazioni di “non affinità” con la scrittura kafkiana, Levi si era sentito in obbligo di chiarire sulle pagine del quotidiano “La Stampa” perché non avrebbe mai potuto scrivere come Kafka.
 
Amo e ammiro Kafka perché scrive in un modo che mi è totalmente precluso. Nel mio scrivere, nel bene o nel male, sapendolo o no, ho sempre teso a un trapasso dall’oscuro al chiaro, come potrebbe fare una pompa - filtro che aspira acqua torbida e la espelle decantata: magari sterile. Kafka batte il cammino opposto: dipana senza fine le allucinazioni che attinge da falde incredibilmente profonde, e non le filtra mai. Il lettore lo sente pullulare di germi e spore: sono gravide di significati scottanti, ma non è mai aiutato a rompere il velo o ad aggirarlo per andare a vedere cosa esso nasconde. Kafka non tocca mai la terra, non accondiscende mai a darti il bandolo del filo di Arianna” Ma questo mio amore è ambivalente, vicino allo spavento e al rifiuto: è simile al sentimento che si prova per una persona cara che soffre e ti chiede un aiuto che non le puoi dare…  La sofferenza (di Kafka) ti assale e non ti lascia più: ti senti come i suoi personaggi, condannato da un tribunale abietto e imperscrutabile, tentacolare, che invade la città e il mondo, annidato in soffitte lerce ma anche nella solennità oscura del duomo; o trasformato in un insetto goffo e ingombrante, inviso a tutti, disperatamente solo, ottuso, incapace di comunicare e di pensare, capace ormai soltanto di soffrire.  (Levi 1983, pp. 920-923).
 
La scrittura di Levi non poteva che porsi agli antipodi di quella kafkiana. Kafka era vissuto prima dell'avvento del nazismo e la sua  scrittura,  nel confrontarsi con gli abissi dell'orrore, non poteva che essere evocativa, oscura, mai chiara, perché nemmeno a lui era dato percepire con chiarezza da dove sgorgava e prendeva corpo la sua parola.
Kafka parlava a una generazione cresciuta fuori dai ghetti, alla quale però le speranze evocate dagli editti di emancipazione cominciavano a rivelarsi nella loro ambiguità e vacuità. Kafka sentiva che c’erano delle mura spirituali più spesse di quelle che per secoli avevano isolato gli ebrei dal resto della popolazione, un’ostilità contro cui niente poteva la “dea ragione” rivelatasi anch’essa particolaristica  e pregna di  pregiudizi. Con la sua fantasia febbrile, Kafka era in grado di percepire le forze minacciose che si annidavano dietro l’apparente calma che regnava negli anni che avevano preceduto la grande guerra, poteva cogliere gli abissi della condizione ebraica, l’illusione che stava alla base della loro domanda di integrazione. Nelle sue allucinazioni poteva intravedere anche la  condizione futura di una generazione che aveva sperato fosse sufficiente spogliarsi giorno dopo giorno  degli attributi e delle caratteristiche che più davano all’occhio e offendevano il gusto dei gentili, sino alla perdita del senso dell’esistenza e della gioia di vivere, vivendo in anticipo nella malattia dell’anima i processi di spoliazione che i nazisti hanno in seguito organizzato su vasta scala.
  La scrittura di Kafka parla sull’orlo di un abisso e nel fondo di quell’abisso c’è Auschwitz. Nella sua febbrilità lo scrittore praghese lo poteva intuire, ma non avere chiaro; poteva dirlo senza saperlo, alla maniera degli animali da preda quando istintivamente sentono avvicinarsi il pericolo ma non ne sanno l’origine. Levi doveva invece descrivere ciò che aveva visto e sperimentato nella realtà del Lager ed è questa cesura a segnare uno spartiacque irriducibile per chiunque si confronti con il problema del male assoluto.
A differenza di Kafka, Levi parlava e scriveva dopo la catastrofe. Egli era stato non con la fantasia, ma realmente nel regno dell'Ade. Una terribile macchina della morte era stata ideata con le tecniche più aggiornate e ad essa lavorava un'intera nazione per annientarne un'altra. Tutto ciò era avvenuto nel cuore dell'Europa, nel silenzio incredulo o complice di chi non poteva o non voleva intervenire, di chi riteneva che si doveva prima vincere  la guerra contro Hitler per potersi occupare anche della salvezza degli ebrei.
La lingua marmorea di Levi, la sua prosa asciutta e chiara, da obbligo morale diventano parte di una strategia letteraria. Tendere dall’oscuro al chiaro serviva anche per distinguere fino in fondo le vittime dai colpevoli, gli ideatori dagli esecutori, e questi ultimi da chi ha taciuto e finto di non sapere. Levi sa che è proprio questa confusione ad alimentare pregiudizi vecchi e nuovi. E sa anche che il nemico si annida ancora nelle pieghe della società e potrebbe un giorno utilizzare eventuali incertezze e inesattezze, per rifiutare in blocco la testimonianza.
La descrizione della condanna di Joseph K., scrive Levi è una pagina che “mozza il fiato” “Io reduce da Auschwitz, scrive Levi, non l’avrei mai scritta, o mai così: per incapacità e insufficienza di fantasia, certo, ma anche per un pudore davanti alla morte che Kafka non conosceva, o se sì, rifiutava; o forse per mancanza di coraggio”. (Levi Primo, 1983, p. 923).
In realtà Levi non avrebbe mai potuto scriverla in quel modo, anche se ne fosse stato capace, perché  l’obiettivo che si era prefisso con la sua testimonianza lo portava in tutt’altra direzione, perché ad Auschwitz non si moriva nella fantasia: a morire non erano singoli uomini che prefiguravano con angoscia il futuro, a morire era un intero popolo. 
Visti in un’ottica storica più ampia Kafka e Levi rappresentano due grandi poli di una terribile e complessa vicenda storica, in cui la prefigurazione angosciata di un futuro incerto e di una catastrofe imminente si incontra con la descrizione di quanto è poi realmente accaduto oltre ogni possibile immaginazione.
Molti anni dopo, quando aveva fatto il suo incontro con l’opera di Kafka, Levi lo ha espresso nell’individuazione di un’ulteriore componente  nella vergogna provata dal Sig. K, quella appunto “di essere un uomo” (Levi 1983,   p. 922). Il Sig. K, scrive Levi,

si vergogna di aver conteso con il tribunale del duomo, e insieme di non aver resistito con energia sufficiente al tribunale delle soffitte. Di aver sprecato la vita in meschine gelosie di ufficio, in falsi amori, in timidezze malate, in adempimenti statici e ossessivi. Di esistere quando non avrebbe più dovuto esistere: di non aver trovato la forza di sopprimersi di sua mano quando tutto era perduto, prima che i due goffi portatori di morte lo visitassero. (Ibid).

Ma in questa vergogna c’era dell’altro che Levi ha conosciuto di persona, la vergogna di fronte all’orrore nazista di appartenere alla specie umana.

 Ma sento in questa vergogna, un’altra componente che conosco: Joseph K., alla fine del suo angoscioso itinerario, prova vergogna perché esiste questo tribunale occulto e corrotto, che pervade tutto quanto lo circonda, e a cui appartengono anche il cappellano delle carceri e le bambine precocemente viziose che importunano il pittore Tintorelli. È finalmente un tribunale umano, non divino: è fatto di uomini e dagli uomini, e Joseph K., col coltello già piantato nel cuore, prova vergogna di essere un uomo. (Ibid).

L’uomo che nel ‘63 dichiarava che non si sarebbe più occupato del Lager, si accorse presto dell’impossibilità. L’illusione di poter prendere congedo dal problema era stata solo momentanea, un lapsus favorito dal nuovo clima positivo che si addensava intorno alle sue prime due opere, un messaggio nascosto che l’autore rivolgeva ad un mondo che dopo la rimozione iniziale appariva più disposto a prendere contatto col trauma dei sopravvissuti. In realtà Levi non poteva, né avrebbe mai potuto prendere congedo da Auschwitz.  Nonostante la gioia del rimpatrio Levi continuò a sentirsi di lunedì, dopo la pausa lavorativa, oppresso e tormentato  (Primo Levi, Lunedì, 17th Gennaio, 1946). Chiuso il primo capitolo del racconto di ciò che è stato, se ne aprivano altri, del come, del perché, dell’oggi e del domani, sul quale Levi ha volto negli ultimi anni lo sguardo inquieto. 

Le parole per dire
 
Nel descrivere la vita del Lager, Primo Levi ricorre spesso alla metafora dantesca. Quando però non sono le parole di Dante a venirgli in aiuto è alla scrittura della Bibbia che si rivolge facendone sprigionare scintille come ha fatto nella poesia d’apertura di se questo è un uomo dove anche la musicalità del testo si intreccia con la musicalità del brano di Devarim /Deuteronomio al quale si ispira.

La poesia Shema’ posta in apertura a Se questo è un uomo, è un esempio della capacità di trasporre uno dei testi più conosciuti della tradizione ebraica, il brano di Deuteronomio in cui è racchiuso il credo ebraico,  che i bambini mandano a memoria sin dalla più tenera età, recitato due volte al giorno in una delle più potenti appelli alla memoria e alla consapevolezza storica.

 Voi che vivete scuri/ Nelle vostre tiepide case, Voi che trovate tornando a sera/  Il cibo caldo e visi amici:/ Considerate se questo è un uomo/ Che lavora nel fango/ Che non conosce pace/  Che lotta per mezzo pane/ Che muore per un sì o per un no./ Considerate se questa è una donna,/ Senza capelli e senza nome/ Senza più forza di ricordare/ Vuoti gli occhi e freddo il grembo/ Come una rana d’inverno/ Meditate che questo è stato:/ Vi comando queste parole./ Scolpitele nel Vostro cuore/ Stando in casa andando per via,/ Coricandovi alzandovi:/ Ripetetele ai vostri figli./ O vi si sfascia la casa,/ la malattia vi impedisca,/ I  vostri nati torcano il viso da voi. (Levi, 10 Gennaio  1946, cit.)
 
L’attualizzazione della più importante preghiera ebraica congiunge passato e presente in un appello sublime al ricordo e al sentimento della responsabilità umana. 

Ne I Sommersi e i salvati  la rappresentazione   biblica   del mondo prima della creazione, il tohu va-bohu fornisce  le immagini per descrivere il funzionamento della vita psichica nel campo:

Raffreddore e influenza, si legge in una splendida pagina de I sommersi e i salvati erano in quel mondo sconosciuti, ma si moriva, a volte di colpo, per mali che i medici non hanno mai avuto modo di studiare. Guarivano (o diventavano asintomatiche) le ulcere gastriche e le malattie mentali, ma tutti soffrivano di un disagio incessante, che inquinava il sonno e non ha nome. Definirlo “nevrosi” è riduttivo e ridicolo. Forse sarebbe più giusto riconoscervi un’angoscia atavica, quella di cui si sente l’eco nel secondo versetto della Genesi; l’angoscia inscritta in ognuno del “tohu vabohu”, dell’universo deserto e vuoto, schiacciato sotto lo spirito di Dio, ma da cui lo spirito dell’uomo è assente: non ancora nato o già spento.  (Levi, 1986, cit., p. 66).

Se Primo Levi è assurto al ruolo di vate per un'intera generazione, è perché la sua scrittura  ben  si  prestava al compito che si è proposto. Le  ragioni  personali  della scrittura di Primo Levi, che egli aveva più volte evocato e giustificato, e spiegato con  la sua formazione di chimico e scienziato che rifugge da ogni orpello inutile,  hanno fatto tutt'uno con la ricerca di un modello espressivo unico per la rappresentazione del dolore e la descrizione fedele di eventi e fatti  della  tragedia più grande. 
E’ perciò che la scrittura di Primo Levi è potuta assurgere a modello ineguagliabile, a necessità etica, ancora prima che letteraria. La sua parola, facendosi letteratura, era diventata veicolo di auto rappresentazione della coscienza ebraica contemporanea. A modo suo, Primo Levi ne era consapevole; perciò, nel pubblicare le Storie naturali, ha ritenuto doveroso darsi uno pseudonimo, pur rendendo agevole la sua identificazione3
La sua posizione di vate quasi gli vietava altri percorsi della scrittura. Egli non vuole approfittare della notorietà acquisita come conseguenza della sua testimonianza .
La ragione che ha spinto Levi a scrivere, è anche quella che gli impedisce di affermarsi e definirsi come tale, a subire una sorta di esilio interno rispetto ad una casta, da cui si sente diverso in ogni aspetto. Del suo dilemma parlerà sempre con apparente distanza personale, come un osservatore distaccato che descrive oggettivamente dall’esterno, misurando le parole e rifuggendo da ogni rappresentazione personalistica ed intimistica. Un dilemma che deve essere consegnato e condiviso con il lettore: si uccide non solo dimenticando, ma anche cambiando registro, occupandosi d’altro, facendo vibrare altre corde dell’animo, si è come fissati per sempre in un ruolo, dal quale non ci si può mai del tutto staccare senza con ciò ferire la parte più preziosa della personalità.
Per vivere Levi continuò a fare il chimico sino alla pensione, sottolineando con ciò la differenza della sua scelta di scrivere, ma anche l’impossibilità di vivere sino in fondo il suo ruolo di scrittore.
Ragioni personali di temperamento hanno pesato in tale scelta, ma esse appaiono strettamente connesse con la sua vicenda storica e con le ragioni oggettive della sua scrittura. Difficilmente avrebbe potuto evitarle. La frivolezza propria di tutto un mondo che ruota attorno ai premi letterari, ne avrebbe comunque sempre fatto un estraneo. Difficilmente avremmo potuto immaginarlo in quel mondo.
Quando non è dall’interno che l’interdetto proviene, è la realtà esterna a ravvivarlo con le sue ricadute. Levi avrebbe voluto passare ad altri temi, ma è come imprigionato in un ruolo da cui non può fuggire. I suoi scritti fantastici, pur di grande valore estetico, sono solo momenti, delle oasi in cui prendere ristoro prima di tornare a combattere coi suoi incubi.
Ricostruire la propria storia e impedire che a ricordarla sia solo un libro, diventa a questo punto un obbligo. Reinventare il proprio destino diviene una necessità: quanto voi avete imparato nelle paludi e nel bosco non deve andare perduto: e non basta che sopravviva in un libro, fa significativamente dire Levi a Smirnov, il giovane russo, che si è unito ai partigiani ebrei. (Primo Levi, 1982, p. 222).
Ma perché ciò avvenga è importante non perdere il contatto con le origini, anche se tutto può sembrare essere andato a pezzi e nulla potrà mai più essere come prima. 
Nelle ultime pagine de Il sistema periodico, Levi ricorre alla metafora del carbonio che “è di nuovo fra noi, in un bicchiere di latte”. (P. Levi,  Il sistema periodico, cit., p. 237). In quella molecola, altra metafora della tradizione che nutre, c’è un percorso segreto che rimanda a un passato recente e più antico.
  In un romanzo epico, qual è Se non ora quando?, i personaggi possono essere tanti, ma è sempre la stessa persona che parla, da luoghi diversi della sua psiche. Ed è sempre l’anima ebraica che parla con se stessa, specchiandosi nei suoi dubbi, dando parola ai recessi più intimi dell’esistenza. La coscienza può consolidare se stessa, se assume al suo interno tutti i luoghi di un’esistenza spezzata, anche i vuoti e il dubbio, i “suoi  “buchi neri”. Il violino di Gedale, il capo partigiano, non può che rompersi nel momento in cui comincia ad assaporare la prossima liberazione e il passaggio per una terra, dai cui porti puoi raggiungere la terra promessa. Il violino è un simbolo costitutivo dell’esperienza ebraica dell’esilio (al punto che vi sono state create vere e proprie battute di spirito, come quella secondo cui un ebreo sa suonare il violino (o il clarinetto) e non il pianoforte, perché se deve fuggire può portarlo con sé). Con esso gli ebrei hanno allietato le loro serate nelle calde e tiepide terre del Sud e nelle notti di gelido inverno polacco. 
L’immagine del violino compare nell’opera di primo Levi sin dalle prime pagine di Se questo è un uomo, con la descrizione del rito della shibbà, del lutto con cui la famiglia, “numerosa e operosa” del vecchio Gattegno, giunta da Tripoli “attraverso molti e lunghi viaggi”, aveva accolto la notizia dell’imminente deportazione, e la potente evocazione del “dolore antico del popolo che non ha terra, il dolore senza speranza dell’esodo ogni secolo rinnovato”

[…] venivano da Tripoli, attraverso molti e lunghi viaggi, e sempre avevano portato con sé gli strumenti del mestiere, e la batteria di cucina, e le fisarmoniche e il violino per suonare e ballare dopo la giornata di lavoro, perché erano gente lieta e pia. Le loro donne furono le prime fra tutte a sbrigare i preparativi per il viaggio, silenziose e rapide, affinché avanzasse tempo per il lutto: e quanto tutto fu pronto, lo focacce cotte, i fagotti legati, allora si scalzarono, si sciolsero i capelli, e disposero al suolo le candele funebri, e le accesero secondo il costume dei padri, e sedettero a terra a cerchio per la lamentazione, e tutta la notte pregarono e piansero. Noi sostammo numerosi davanti alla loro porta, e ci discese nell’anima, nuovo per noi, il dolore antico del popolo che non ha terra, il dolore senza speranza dell’esodo ogni secolo rinnovato. (Levi, 1947, cit., p. 8)

L’immagine del passaggio della banda di Gedale, per il Brennero, riporta alla mente la descrizione che Primo Levi vi aveva fatto molti anni prima, ne La tregua, del suo “passaggio”, al ritorno da Auschwitz. (Levi, 1963, cit., pp. 420-421).  Anche lì vi è la descrizione di un gruppo di sionisti, guidati da un capo sicuro e con l’occhio “di falco”. Si tratta per Levi di un gruppo gioioso e numeroso che “si apre la strada come può”, a cui l’autore guarda con simpatia. Vi è la descritta anche una salita, una alià, come appunto definivamo il movimento migratorio verso la terra promessa,, che evoca l’uscita dalle tenebre e il ritorno alla vita. Il violino che nel racconto di Gedale si spezza, è dunque il corrispettivo del sentimento di vuoto e scoramento che Primo Levi ha allora provato, e da cui non potrà mai liberarsi, al pensiero che dei seicentocinquanta deportati dal campo di Fossoli, solo in tre avevano fatto ritorno:“Leonardo ed io, in un silenzio gremito di memoria”. (Ibid).
Il romanzo in omaggio alla resistenza ebraica, o almeno i suoi motivi essenziali, erano dunque in nuce in queste pagine di chiusura de La tregua. E già allora era chiaro il messaggio con l’identificazione positiva con quelle bande, pur nella scelta di fare ritorno alla propria casa, dove c’era qualcuno che attendeva, a differenza che per quei giovani per i quali l’antica patria non aveva più nulla da dire: “partoriti ed espulsi”, come dirà Line, la giovane militante della sinistra sionista, alla quale Mendel, l’alter ego di primo levi, non potrà che rispondere con l’antica saggezza dei padri: Narische meidele, vos darfst du fregen. (Levi, 1982, cit., p. 257).
La chiusura di Se non ora quando? è dunque un accenno ad un altro romanzo che l’autore sa di non poter scrivere e che altri, coloro che hanno fatto la scelta di Gedale, o i loro figli, potranno scrivere. A lui è sufficiente seguire idealmente e con fantasia il percorso delle bande partigiane, a cui avrebbe voluto unirsi e con cui ristabilisce un’unità di destino, almeno sino al Brennero. La scelta è anche strategica: parlare del passato con gli occhi dei protagonisti può aiutare a capire meglio il presente, a dare il senso di una scelta che ha modificato strutturalmente l’esistenza ebraica ed i termini con cui viene oggi posta e discussa. Nel pieno delle polemiche sulla guerra del Vicino Oriente e di un risorgente antisemitismo, il libro ebbe un effetto salutare.  Avere spostato indietro l’orologio della storia a quei momenti fatidici in cui si apriva una nuova pagina di storia, densa, dolorosa, e carica di speranze, era un invito a riportare ai suoi giusti termini la discussione sul  passato e sul presente, per meglio comprendere la realtà complessa del Vicino Oriente, un appello contro il risorgente pregiudizio antiebraico, un’affermazione dei valori ebraici, uno stimolo a pensare per elaborare il passato e costruire il futuro.

Note

1) Sintesi della relazione al simposio internazionale su Primo Levi, promosso dal Master internazionale di II livello in didattica della Shoah dell’Università Roma Tre per commemorare i venticinque anni dalla morte di Primo Levi. Il testo integrale è stato pubblicato su Rivista sperimentale di Freniatria, Angeli Editore, Vol.CXXXVI, 2/2012.

2)   Nell’esperimento furono testati quattro livelli di distanza tra insegnante e allievo in cui la vista della vittima emerse come fattore centrale di una rimessa in moto del processo interiore di responsabilizzazione di fronte al dolore altrui. Nel primo livello l'insegnante non poteva osservare né ascoltare i lamenti della vittima. Nel secondo egli poteva ascoltare ma non osservare la vittima. Nel terzo poteva ascoltare e osservare la vittima. Nel quarto, per infliggere la punizione, doveva afferrare il braccio della vittima e spingerlo su una piastra. Nel primo livello di distanza, il 65% dei soggetti andò avanti sino alla scossa più forte. Contrariamente a quanto si era immaginato nel secondo livello la percentuale scelse di poco al 62,5%. Solo  nel terzo livello la percentuale scese vistosamente  al 40%. Nel quarto livello si ridusse al  il 30%.

 3) La prima edizione di Storie naturali, Torino, Einaudi, 1966, portava lo pseudonimo di Damiano Malabaila.

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