Lettere 1941-1943 Etty Hillesum
Traduzione di Chiara Passanti, Tina Montone e Ada Vigliani
Adelphi euro 22
«Quando dal mondo saranno spariti i fili spinati verrai a vedere la mia camera, è così bella e tranquilla. Io trascorro delle mezze nottate alle scrivania, a leggere e a scrivere vicino alla piccola lampada. Ho qui circa 1500 pagine di diario dell’anno scorso e ora me le rileggo. Che ricca vita mi viene incontro da ogni pagina!». Etty Hillesum è ancora ad Amsterdam, nel settembre del 1942. Nemmeno due mesi dopo scriverà da Westerbork, il campo di raccolta e concentramento degli ebrei olandesi prima di essere diretti allo sterminio. Quasi tutte le sue lettere vengono infatti di lì, da quella specie di angosciosa e lunga anticamera di Auschwitz. Ora Adelphi le pubblica nella versione critica integrale. Ed è una lettura che spiazza, sconcerta, commuove. Come negli ormai celebri diari, c’è in lei un costante e inestricabile miscuglio fra perfetta lucidità su come stanno le cose e una radiosa, assurda speranza. Il suo sguardo sul campo, sulle deportazioni che a ritmo regolare si portano via masse di gente, è al tempo stesso pienamente consapevole di quello che sta accadendo eppure carico di una serenità che la fa tirare avanti e soprattutto la induce a scrivere. «Tutta l’Europa sta diventando pian piano un unico, grande campo di prigionia. Tutta l’Europa finirà per disporre di simili, amare esperienze. Sarà monotono se noi ci riferiremo scambievolmente i fatti nudi e crudi – le famiglie lacerate, le proprietà sottratte, le libertà perdute». E più avanti: «La mia penna stilografica non possiede accenti così efficaci da saper descrivere – sia pur nel modo più approssimativo – le deportazioni». Etty si vedrà portare via a poco a poco affetti, volti familiari. In queste lettere spedite a destinatari diversi parla molto del padre, della sua rassegnazione, della sua forza malgrado i problemi di salute, dello strazio che è stato separarsene. E’ un testo potente nel suo insieme, malgrado la discontinuità, malgrado non sia un epistolario coerente e piuttosto una serie di messaggi in bottiglia gettati attraverso il confine che separa il campo dal resto del mondo. Al campo, ad esempio, «si pronunciano paroloni…: frutta, pomodori e cose simili. Eppure non so se esistano ancora là fuori». Queste lettere vanno certamente accostate al diario: qui e là si ritrova Etty Hillesum in tutta la sua forza e dolcezza. Parla sempre tanto degli altri, poco di se stessa – il che negli epistolari in generale capita assai di rado. Leggendole viene in mente un altro libro recente, di grande forza. Colombe Schneck è una giornalista francese nata nel 1966. Quando aspetta il suo primo figlio, la madre le chiede di chiamarlo, se è femmina, Salomé: era il nome di una sua cugina morta piccolissima ad Auschwitz. In Le madri salvate (pubblicato di recente da Einaudi), Colombe parte alla ricerca di quel passato rimosso, e lo fa con rabbia, sconcerto, anche una disperazione assurda, così a posteriori. Il tono è così distante dalla pacatezza di Etty anche nei momenti di maggiore sconcerto: lei fa, e pensa agli altri in mezzo a quella bufera. A chi è venuto dopo è come se toccasse elaborare l’orrore quando ormai Etty tace. Ai primi di settembre del 1943 lei lascia il campo di Westerbork, «cantando – i vagoni merci non sono poi tanto male», scrive ancora in una cartolina postale ritrovata ai bordi della ferrovia.
Elena Loewenthal
Tuttolibri – La Stampa