Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 06/12/2013, a pag. I, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Ci sono dei buchi nelle ispezioni dell’Opcw all’arsenale chimico di Damasco ", l'articolo di Stacy Meichtry, Ellen Knickmeyer, Adam Entous dal titolo " Con chi ci tocca trattare ", l'articolo dal titolo " Assad prepara il voto: gli archivi bruciano e arrivano nuove carte d’identità ".
Ecco i pezzi:
Daniele Raineri - " Ci sono dei buchi nelle ispezioni dell’Opcw all’arsenale chimico di Damasco "
Daniele Raineri
Martedì una lettera del presidente delle Nazioni Unite Ban Ki-moon al Consiglio di sicurezza è diventata pubblica. Doveva essere riservata, ma è stata messa da un reporter sul sito del canale arabo al Hurra e poi è stata confermata come autentica da alcuni diplomatici dell’Onu. La lettera di Ban Ki-moon è datata 27 novembre e descrive le attività dell’Opcw in Siria tra il 23 ottobre e il 26 novembre. L’Opcw è l’organizzazione per il controllo delle armi chimiche che quest’anno ha vinto il premio Nobel per la Pace e che si sta occupando del delicato piano di smantellamento dell’arsenale chimico controllato dal governo del presidente siriano Bashar el Assad. La distruzione di quell’arsenale è il frutto di un accordo arrivato dopo una strage con armi chimiche in cui il 21 agosto morirono 1.400 civili alla periferia di Damasco e che dopo un ripensamento dell’Amministrazione Obama risparmiò ad Assad un intervento armato da parte di America e Francia. Dalla lettera si scopre che il lavoro dell’Opcw in Siria ha dei buchi. L’Opcw è sul posto con 15 esperti e 48 persone di staff, ma gli spostamenti e le ispezioni sono difficili perché nel paese c’è una guerra civile mescolata a un’infestazione di terrorismo islamista e a una crisi umanitaria di dimensioni storiche, e il tutto è complicato dall’intervento militare degli alleati di Assad. La cosiddetta Fase II si occupa delle ispezioni che l’Opcw sta compiendo per verificare le dichiarazioni del governo siriano. Ma sui 23 siti dichiarati da Damasco tre non erano raggiungibili dagli ispettori internazionali per ragioni di sicurezza. In due di questi siti sono stati mandati siriani del governo con alcune telecamere sigillate e dotate di Gps – provviste loro dall’Opcw – per filmare i luoghi e produrre almeno delle prove video con la certezza che si trattasse proprio delle basi da ispezionare. Non è chiaro se questo metodo garantisce piena affidabilità. Resta un sito non ispezionato, che il governo di Damasco ha dichiarato abbandonato ma che gli esperti non hanno potuto vedere nemmeno in video: lo faremo, dicono nella lettera, quando le condizioni di sicurezza lo permetteranno. Probabilmente si tratta del sito di al Safira, vicino Aleppo, definito nei rapporti sul programma chimico siriano “uno dei siti più grandi e importanti, dove il gas nervino è prodotto e caricato su armi” utilizzabili sul campo di battaglia. La commissione dell’Opcw non è riuscita ad andare nell’area di Homs – è scritto nella lettera trapelata – per verificare la completa distruzione delle munizioni di categoria 3. Appartengono a questa categoria tutti quegli ordigni progettati specificamente per l’uso e la dispersione di armi chimiche – come i razzi con serbatoio lanciati ad agosto sulla periferia di Damasco. Anche in questo caso, nota l’Opcw, è tutto rimandato a quando le condizioni lo permetteranno. Ban Ki-moon è preoccupato per la sicurezza della missione e dalla Fase III, che prevede lo spostamento delle 1.200 tonnellate di sostanze chimiche verso il porto di Latakia. Da lì, secondo gli ultimi piani, dovrebbero essere caricate a bordo di navi danesi e norvegesi e distrutte da un impianto speciale sulla nave americana Cape Ray. Il problema è che alcune strade che dovrebbero essere usate per il transito delle sostanze sono bloccate dai combattimenti, e non c’è possibilità di prevedere se cesseranno o si sposteranno. La situazione potrebbe diventare più semplice o più complicata (trattandosi di Siria, verrebbe da puntare sulla seconda possibilità). Se tutto andasse per il verso giusto, scrive il sito specializzato The Trench, gli americani riceverebbero dall’Onu il via libera alla distruzione delle armi chimiche in mare il 27 dicembre, al più tardi. La nave Cape Ray dovrebbe salpare da Norfolk, arrivare nel Mediterraneo e poi lavorare per circa 60 giorni – comunque in tempo per la scadenza del 31 marzo.
Stacy Meichtry, Ellen Knickmeyer, Adam Entous - " Con chi ci tocca trattare"
Armi per i ribelli siriani. Solo per i moderati !
Gli Stati Uniti e i loro alleati hanno fatto negoziati diretti con le principali milizie islamiche in Siria, dichiarano alcuni funzionari occidentali, nel tentativo di indebolire al Qaida, riconoscendo contemporaneamente che i combattenti religiosi a lungo ignorati da Washington hanno guadagnato terreno sul campo di battaglia. Allo stesso tempo, l’Arabia Saudita sta estendendo il suo campo d’azione, arrivando ad armare e finanziare direttamente uno dei gruppi islamisti, l’Esercito dell’islam, nonostante le preoccupazioni americane. Sia gli occidentali sia i sauditi hanno cambiato rotta per poter indebolire i gruppi legati ad al Qaida, che ora i funzionari occidentali riconoscono essere un pericolo per la Siria tanto quanto il regime di Bashar el Assad. Le capitali occidentali rimangono caute sulla necessità di aiutare questi gruppi, il cui scopo ultimo è instaurare uno stato governato dalla sharia in Siria. Lungo tutto il conflitto, gli Stati Uniti e i loro alleati si sono dimostrati recalcitranti a spedire armamenti pesanti a qualsiasi islamista, temendo che tali spedizioni potessero finire nelle mani delle forze sostenute da al Qaida.
I sauditi e l’occidente stanno iniziando a rivolgersi a una coalizione di milizie religiose di recente istituzione, il Fronte islamico, che esclude i principali gruppi di combattenti legati ad al Qaida – al Nusra lo Stato islamico dell’Iraq e Sham (noti come Isis). Le milizie, che orientano la lealtà di decine di centinaia di combattenti, negli ultimi due mesi hanno iniziato a consolidare i loro ranghi. A fine novembre, hanno annunciato che si sarebbero coalizzate per formare il Fronte islamico. I gruppi più secolari appoggiati dagli Stati Uniti hanno perso terreno rispetto a quel gruppo e alle forze collegate ad al Qaida, così come nei confronti del regime di Assad. I diplomatici occidentali stimano che la nuova coalizione incorpori ora circa metà dei ribelli partecipanti al conflitto. L’influenza di tali milizie ha portato l’Amministrazione Obama ad autorizzare un inviato senior degli Stati Uniti a incontrare gruppi islamisti che non sono sulla lista dei terroristi del dipartimento di stato, afferma un funzionario statunitense. Lo scopo, secondo alcuni funzionari americani, è quello di persuadere alcuni islamisti a sostenere la conferenza di pace per la Siria che si terrà a Ginevra il 22 gennaio, per paura che i negoziati non portino a un accordo durevole senza il loro sostegno. Tale impegno mira a “cercare di capire se è il caso di includere tali persone all’interno del processo diplomatico”, ha dichiarato il funzionario statunitense.
Dopo più di due anni di guerra civile, il cambiamento rivela il fallimento occidentale di unire i ribelli siriani, divisi in fazioni, sotto l’egida di una forza di opposizione secolare capace di rovesciare il regime di Assad. E’ anche una misura di come l’occidente stia muovendosi rapidamente per consolidare la sua influenza sui negoziati di Ginevra, dove ci si aspetta che il regime arrivi rafforzato dalle vittorie militari sul campo e dal sostegno di Russia e Iran. I diplomatici dichiarano che stanno cercando di placare i sospetti islamisti che i negoziati di Ginevra rappresentino una capitolazione al regime, che andrà a Ginevra ma ha pubblicamente rifiutato le richieste fatte affinché Assad lasci il potere. Esiste comunque la possibilità che Damasco rifiuti di negoziare con i gruppi islamisti, che considera terroristi. Gli obiettivi del Fronte islamico contrastano in modo netto con l’agenda dei principali partecipanti ai negoziati di pace che cercano una cornice laica per il futuro governo siriano. Durante tutta la guerra civile, le milizie del Fronte islamico sono state schiacciate fra le forze ribelli moderate sostenute dall’occidente e i gruppi affiliati ad al Qaida, giostrando di volta in volta le alleanze con entrambe le parti. La differenza fondamentale fra i due campi di forze islamiste è che fra i nemici dichiarati di al Qaida non c’è solo Assad, ma anche l’occidente e i suoi alleati, inclusa la monarchia saudita.
I sauditi e gli Stati Uniti temono che tali combattenti possano un giorno arrivare dalla Siria con l’intento di attaccare i loro governi, come è successo dopo i conflitti in Afghanistan ed Iraq. L’Arabia Saudita, lo stato che più si oppone ad Assad e ai suoi alleati iraniani e Hezbollah, ha cambiato la sua strategia nei confronti del regime dopo aver speso quasi mezzo milione di dollari per armare il gruppo di ribelli sostenuto dagli statunitensi. Funzionari sauditi hanno dichiarato che ora stanno combattendo due guerre in Siria: una contro il regime, l’altra contro i crescenti ranghi di combattenti alleati di al Qaida che si stanno riversando in gran numero sul campo di battaglia. Bandar bin Sultan, il principe saudita che supervisiona il sostegno della sua nazione ai ribelli, ha giurato di uccidere sia Assad sia i ribelli estremisti in una conversazione con un diplomatico occidentale quest’autunno, ha dichiarato il funzionario. Per la maggior parte degli ultimi due anni, l’Arabia Saudita ha concentrato il suo sostengno alla forza più secolare e nazionalista, l’Esercito libero siriano (Fsa), composta in parte da disertori dell’esercito. Durante questo periodo, il regno ha speso 400 milioni di dollari in armi ed equipaggiamenti destinati all’Fsa, secondo quanto afferma il diplomatico occidentale informato dai sauditi in merito. Gli Stati Uniti e altri alleati si sono uniti ai sauditi nell’addestrare una piccola parte di ribelli dell’Fsa. Ma il finanziamento dei ribelli islamisti da parte di altri stati del Golfo, come il Qatar, così come di altri sostenitori privati, ha reso virtualmente irrilevanti i combattenti dell’opposizione secolare sostenuti dai sauditi e dagli occidentali, secondo analisti della sicurezza e ribelli con una certa familiarità con la situazione. Dicono che i sauditi ora affidano le loro speranze sulla Siria a una forza ribelle in ascesa, la Jaish al Islam, o Esercito dell’islam. Il gruppo è parte del Fronte islamico e il suo leader è anche a capo del braccio militare del Fronte.
Un punto di discordia fra Stati Uniti e attivisti siriani è se gli islamisti che i sauditi ritengono moderati lo siano davvero. L’Arabia Saudita è una nazione profondamente religiosa e conservatrice, che segue una delle interpretazioni più severe dell’islam. Il leader dell’Esercito dell’islam, Zahran Alloush, è un siriano che ha ricevuto la sua istruzione in Arabia Saudita, il cui padre è un predicatore a Medina, la città santa saudita. Alloush lo scorso mese si è impegnato in un’alleanza con il Fronte islamico. In quello che è ritenuto il suo account Twitter, e in alcune interviste postate su YouTube, ha invocato che la Siria sia governata da un consiglio islamico piuttosto che da un corpo democraticamente eletto. Ha anche dichiarato in alcuni video su YouTube di approvare la tortura degli oppositori sciiti che combattono per Assad. La sua fazione di ribelli – con un efficiente comparto dedicato ai media, che ritrae Alloush prevalentemente con la barba sapientemente accorciata e aderente abbigliamento mimetico – ha negato di aver accettato finanziamenti dai sauditi o da qualsiasi altro stato del Golfo. In ogni caso, Alloush ha twittato alcuni ringraziamenti per i “donatori privati del Golfo”. Jaish al Islam ha base in parte a Ghouta, il sobborgo di Damasco che in agosto è stato colpito dal peggior attacco chimico che abbia mai avuto luogo in questa guerra civile. A volte si coordina sul campo con le forze di opposizione alleate ad al Qaida, ad esempio nel combattimento che questo mese cercava di rompere l’assedio del regime nei sobborghi di Damasco. Lungo tutto il conflitto, le fratture fra le forze di opposizione siriana hanno inficiato gli sforzi statunitensi. I diplomatici occidentali hanno dichiarato che stanno cercando di fare pressioni sugli islamisti affinché tengano a freno le critiche nei confronti del leader moderato, il generale Salim Idris, e del Consiglio nazionale siriano (Snc), il gruppo politico “ombrello” che raccoglie l’opposizione, spiegando che le tensioni fra le fazioni dell’opposizione rischiano di minare la conferenza di Ginevra. Il generale Idris e Ahmad Jarba, capo dell’- Snc con sede a Istanbul, hanno lottato per mantenere la disciplina fra le loro forze sul campo in Siria, dichiarano diplomatici occidentali.
E il gruppo “ombrello” non ha alcun potere sulle attività delle milizie islamiste. Un funzionario senior dell’opposizione vicino a Idris ha dichiarato che il generale ha accolto positivamente la formazione del Fronte islamico come un modo per unificare l’opposizione escludendo al contempo le fazioni più estremiste. “L’Snc e il Fronte hanno regolari colloqui sul campo”, ha dichiarato il funzionario dell’opposizione, aggiungendo che “il comune denominatore che lega i due gruppi” è l’opposizione ai ribelli legati ad al Qaida. Il funzionario ha sminuito l’importanza delle preoccupazioni secondo cui un Fronte più potente possa diminuire il peso dell’opposizione moderata: “Non è una situazione vicendevolmente esclusiva”. Ha aggiunto che i due principali battaglioni del Fronte saranno fondamentali per guidare qualsiasi campagna futura atta a cacciare l’Isis, legato ad al Qaida, dalla Siria del nord e dell’est. “E’ impossibile cacciarli senza il loro aiuto. Ed è una cosa che i nostri partner del Golfo hanno ormai capito. La domanda è se chi prende decisioni in occidente, in particolare a Washington, capisce che l’unico modo per combattere al Qaida è lavorare con questi gruppi”, ha dichiarato il funzionario dell’opposizione. L’apertura dei contatti è arrivata dopo tre settimane di negoziati dietro le quinte, che avevano già contribuito a rinforzare il profilo diplomatico degli islamisti. Il 31 ottobre, un gruppo di milizie che avrebbe poi fondato il Fronte islamico ha incontrato alcuni membri anziani dell’Fsa e il ministro degli Esteri del Qatar, uno dei principali sostenitori militari, per due giorni di colloqui a Istanbul, secondo quanto afferma un attivista militare che ha partecipato agli incontri. Durante i negoziati, le milizie hanno fatto una serie di richieste, continua l’attivista. Per prima cosa, la riorganizzazione del Consiglio supremo militare, gruppo “ombrello” comandato dal generale Idris, dichiarando che i suoi leader non stavano spedendo abbastanza armi agli islamisti.
Hanno poi chiesto che l’Smc trasferisse il suo quartier generale dalla Turchia alla prima linea siriana. Infine, le milizie hanno chiesto di incontrare direttamente gli inviati di “London 11” – un gruppo diplomatico che include Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Arabia Saudita e altri stati del Golfo. Almeno una delle richieste è stata esaudita: il meeting con i diplomatici stranieri. Una settimana più tardi, il Qatar ha organizzato un incontro fra gli islamisti e gli inviati di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Arabia Saudita, Turchia e altri membri del “London 11” alla periferia di Ankara, capitale turca, secondo quanto afferma un diplomatico occidentale. Membri anziani delle più potenti milizie siriane, incluse Ahrar al Sham, Suqoor al Sham e la Tawheed Brigade, erano seduti dall’altra parte del tavolo, riporta il diplomatico. Il ministro degli Esteri del Qatar non ha risposto alla richiesta di un commento sulla vicenda. Durante il meeting, i diplomatici occidentali hanno cercato di sanare la frattura fra gli islamisti e Idris. Diplomatici a conoscenza dei negoziati affermano di avere riserve su alcuni dei gruppi coinvolti, citando accuse contenute in un recente report dello Human Rights Watch – Ahrar al Sham avrebbe combattuto a fianco di al Nusra in un attacco che aveva come obiettivi donne e bambini il 4 agosto sulla costa mediterranea della Siria. Ahrar al Sham ha negato le accuse, dichiarando che i civili morti negli scontri erano armati o combattevano in favore del regime di Assad. I diplomatici occidentali hanno detto che il loro impegno con gli islamisti mira anche a distanziare le potenti milizie da al Nusra e da altri gruppi affiliati con al Qaida. “Riteniamo che tali gruppi, in mancanza di un nostro impegno, possano muoversi verso un’ulteriore radicalizzazione”, ha affermato un diplomatico occidentale.
Redazione del Foglio - " Assad prepara il voto: gli archivi bruciano e arrivano nuove carte d’identità "
Bashar al Assad
Non farà scalpore come una “strage di bambini sotto le bombe del regime” o come la “decapitazione di un religioso da parte di qaidisti”, ma la recente ammissione da parte delle autorità siriane che circa la metà dei 290 registri anagrafici civili sono stati distrutti nelle violenze in corso nel paese è una notizia di amplissima portata. Non solo perché tra qualche mese in Siria il rais Bashar el Assad si presenterà come candidato alle elezioni presidenziali, e sarà così ancor più difficile determinare chi ha diritto di votare in quello o in quell’altro distretto. Ma è soprattutto una notizia che conferma l’impossibilità nel medio e lungo termine di ristabilire a pieno i diritti civili e politici di sette milioni di siriani che hanno dovuto abbandonare le loro case, fuggendo all’estero (oltre due milioni) o finendo nella lista degli sfollati interni (circa cinque milioni). Il primo luglio scorso avevano suscitato scalpore le immagini dell’incendio, appiccato da miliziani filo-regime, del catasto civile di Homs. La terza città siriana è nota per esser stata – dopo Daraa, nel sud – il centro urbano che più di altri ha partecipato ai primi mesi di proteste pacifiche contro i soprusi del regime. Non è un caso che le milizie lealiste, impegnate da tempo nell’assedio della città vecchia di Homs solidale con la rivolta armata, abbiano scelto di dare alle fiamme il catasto civile. Il regime di Assad e i suoi alleati da mesi lavorano con successo alla “bonifica confessionale” dello snodo di Homs, nella Siria centrale. E’ un corridoio che assicura il collegamento tra la capitale Damasco e la regione costiera fedelissima agli Assad, attraverso il Qalamun occidentale – in questi giorni teatro di aspre battaglie – e la valle libanese della Beqaa, roccaforte degli Hezbollah filo-iraniani. Homs era stata per secoli dominata da una piccola e media borghesia sunnita, alleatasi con settori dell’imprenditoria cristiana cittadina. Con l’avvento del Baath nei primi anni 60 e la conseguente ascesa degli Assad negli anni 70 e 80, gli esponenti della regione rurale e delle periferie di Homs, abitate invece in prevalenza da alawiti – la branca dello sciismo a cui appartengono le famiglie al potere in Siria da mezzo secolo – hanno preso il sopravvento. Nel quadro delle “riforme economiche” avviate dagli Assad a partire dai primi anni 2000 e sotto lo slogan dell’ammodernamento delle infrastrutture urbane, si è accelerato il processo di marginalizzazione di ampi settori della borghesia cittadina, mai veramente in sintonia con gli Assad e, anche per questo, più pronta di altre realtà siriane a scendere in strada nella primavera del 2011 per chiedere “vere riforme contro la corruzione”. Ma Homs è ormai una città per tre quarti rasa al suolo dai combattimenti. E la stragrande maggioranza dei cittadini è stata costretta ad abbandonare le botteghe artigiane, gli stabilimenti industriali, le case e i terreni agricoli. Senza i documenti catastali e il registro civile, anch’esso distrutto, sarà per loro quasi impossibile rivendicare i diritti perduti. La distruzione di Homs ha coinvolto quasi tutti i quartieri sunniti e ha risparmiato invece i quartieri misti o a prevalenza alawita. In questo quadro va letta la notizia, pubblicata in sordina dai media del regime il 2 aprile scorso, dell’approvazione da parte del Parlamento siriano di tre nuove regioni amministrative, rispettivamente nella regione di Homs, di Aleppo e di Hasaka. La zona di Homs dovrebbe essere divisa in Homs-città a ovest – connessa al corridoio Damasco-Qalamun-regione costiera e abitata per lo più da alawiti e cristiani delle regioni rurali – e al Badiya, la zona in larga parte desertica e disabitata. Nei mesi successivi a questa decisione il processo di “bonifica confessionale” a danno dei sunniti di Homs e della regione costiera ha subìto un’accelerazione: l’enclave mediterranea di Baniyas è stata teatro a maggio di due massacri contro civili compiuti da milizie filo-regime. Nelle stesse settimane, gli Hezbollah libanesi hanno varcato l’Oronte, portando un assalto coordinato e senza precedenti a Qusayr, caduta ai primi di giugno. Alla fine del mese anche Talkalakh, località frontaliera col Libano e sulla strada tra Homs e Tartus, è stata – per usare il gergo del regime – “ripulita dai terroristi”. Nonostante i ribelli islamisti abbiano tentato di sfondare il muro lealista a est di Homs a ottobre scorso, da metà novembre un’offensiva di Assad e dei suoi alleati sul Qalamun occidentale ha consegnanto alle milizie del regime due importanti località lungo l’autostrada Damasco-Homs. Non sorprende dunque che a metà novembre il Parlamento siriano abbia approvato un progetto di rinnovo delle carte di identità di milioni di cittadini a pochi mesi dalle annunciate elezioni presidenziali previste per il giugno 2014. Il piano di “ammodernamento” costerà 28 milioni di euro, messi sul piatto dai generosi alleati di Assad, e prevede la rielaborazione secondo non precisati “nuovi criteri” della registrazione anagrafica di ogni siriano. Questo mentre un terzo della popolazione ha cambiato luogo di residenza e difficilmente potrà tornare a breve nelle zone di origine, e mentre sono stati distrutti la metà dei registri anagrafici e numerosi registri catastali. Nei giorni scorsi la tv di stato siriana ha reso noto che tutti i cittadini devono recarsi negli uffici governativi a chiedere il rinnovo della carta di identità. La questione è politica: la tessera elettorale per votare il prossimo presidente viene rilasciata solo a chi ha il documento di identità valido. E di fatto soltanto i siriani che sostengono a vari modi il regime o quelli che dopo quasi tre anni di rivolta non si sono schierati apertamente contro Assad potranno recarsi di persona agli sportelli del ministero senza temere di finire in prigione. Di certo invece tutti gli attivisti ricercati, tutti gli esuli all’estero e gli abitanti delle zone solidali con la rivolta non potranno rischiare di farsi arrestare per rinnovare la carta di identità. E non potranno quindi esercitare alcun diritto di voto. Con uno schiocco di dita, tra poco, il loro essere ostili agli Assad sarà certificato da un documento emesso dal regime mascherato da "stato".
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