I guerriglieri islamisti se ne vanno dalla Siria, fra i loro prossimi obiettivi forse c'è l'Europa. Dall'Iran, gli aggiornamenti sul governo Rohani. Entrambi sul FOGLIO di oggi, 05/12/2013.
Pio Pompa: " 1.200 islamisti lasciano la Siria diretti in Europa e nord Africa
Secondo una fonte d’intelligence mediorientale sentita dal Foglio, nelle ultime settimane oltre 1.200 jihadisti, schierati contro il regime di Bashar el Assad, si sarebbero ritirati dalla Siria raggiungendo i loro paesi di provenienza in nord Africa ed Europa: 850 miliziani, del gruppo terrorista Ansar al Sharia, sarebbero rientrati in Tunisia e Libia, 200 membri di al Qaida nel Maghreb islamico (Aqmi) avrebbero riguadagnato le proprie basi nella regione libica del Fezzan, in Algeria, in Niger e nel massiccio dell’Adrar degli Ifoghas, nel nord del Mali. Dei residui 150 jihadisti naturalizzati europei, 13 si troverebbero già in Italia, 74 in Gran Bretagna e 63 in Francia. “Il problema dei terroristi reduci dalla Siria – puntualizza la nostra fonte d’intelligence – sta divenendo per noi e per altri servizi una priorità assoluta. Tutti quei paesi che hanno allentato la maglia dei controlli sugli islamisti che partivano per combattere il regime di Assad ora sono in affanno e cercano di correre ai ripari nella consapevolezza di trovarsi di fronte a un fenomeno (quello del rientro in patria di jihadisti resi ancora più temibili dopo l’esperienza accumulata nel conflitto siriano) appena iniziato e potenzialmente in grado di trasformarsi in una grave minaccia per la sicurezza nazionale. Ciò è tanto più vero per le nazioni nordafricane e, segnatamente, per la Libia e la Tunisia poste nel proprio mirino sia da Ansar al Sharia sia da Aqmi che, non a caso, sono state le prime a richiamare dal fronte siriano i propri combattenti. Un’iniziativa, questa, che trarrebbe origine non solo dall’oggettivo rafforzamento di Assad, intervenuto dopo la rinuncia americana all’intervento militare, ma soprattutto dalla decisione assunta dai vertici di Ansar al Sharia, sia nella sua espressione libica, guidata da Mohammed al Zahawi, sia in quella tunisina, con a capo Seyfullah bin Hussein, di siglare un’alleanza con Aqmi. Da nostre informazioni sembra che anche il gruppo terrorista nigeriano dei Boko Haram sia interessato a stringere rapporti di collaborazione con Ansar al Sharia e Aqmi per la costituzione di un esercito itinerante jihadista, composto proprio da miliziani reduci dalla Siria, con il compito di lanciare, da metà dicembre in poi, un’offensiva senza precedenti in tutto il nord Africa”. I paesi a maggiore rischio sarebbero la Libia e la Tunisia seguiti, subito dopo, dalla Nigeria e dal Mali. Il tutto dovrebbe iniziare dalla “polveriera libica” per estendersi, quasi contemporaneamente, alla vicina Tunisia dove il leader locale di Ansar al Sharia, Seyfullah bin Hussein (alias Abu Ayad, ritenuto responsabile dell’attacco contro l’ambasciata statunitense a Tunisi nel settembre 2012), avrebbe pianificato, come riferito alcuni giorni fa dal quotidiano tunisino Akhar Khabar, un’ondata di attentati che dovrebbe sconvolgere il paese proprio nel periodo natalizio. “Non v’è dubbio – continua il nostro interlocutore – che il rientro di centinaia di jihadisti reduci dalla Siria abbia fornito loro nuovo impulso. Anche l’Europa si dovrebbe preoccupare dal ritorno in patria di terroristi collaudati e induriti sul campo di battaglia e che ritengono di non saper fare altro che combattere. Molti di essi si sono specializzati nel confezionamento di esplosivi, nella guerriglia urbana e nel mestiere di cecchino. Non va poi trascurata l’aura eroica che li circonda agli occhi ammirati degli islamisti e convertiti che li accolgono declamandone le gesta sui siti web in attesa di nuove imprese. E’ questo il mito che rende i jihadisti, reduci dalla Siria, potenziali martiri per operazioni suicide”.
Tatiana Boutourline: " Rohani non muove passo senza suo fratello (e altri cinque)
Milano. “Le nostre centrifughe gireranno bene solo quando anche l’economia delle persone girerà nella giusta direzione”. E’ con frasi come questa che Hassan Rohani lo scorso giugno ha convinto gli iraniani. Sei mesi dopo “lo sceicco della diplomazia” ha rotto il ghiaccio con Barack Obama e rilanciato le relazioni tra Teheran e la comunità internazionale a Ginevra. E’ l’inizio del suo “Gorbaciov moment” o l’acme di una speranza collettiva destinata a morire? L’Arabia Saudita non pare intenzionata a offrire a Rohani il beneficio del dubbio e il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman, intervistato ieri dal Foglio, non ha dubbi: Gerusalemme è contraria all’accordo di Ginevra e osserva come Cassandra la nuova corsa verso l’eldorado iraniano di europei, giapponesi e indiani. Un giornalista iraniano vicino all’entourage del presidente Rohani ha spiegato al Foglio la sua strategia per riformare l’Iran senza destabilizzare il regime e alienarsi il sostegno dell’ayatollah Ali Khamenei. “Ogni ingranaggio della macchina va oliato”: vanno corteggiati gli interlocutori stranieri (“Is he for real?”, chiedeva il Financial Times in un’intervista a Rohani in cui il messaggio da Teheran era lampante: venite, siamo pronti a fare affari) e vanno sedotti gli iraniani con una comunicazione il più possibile onesta: la direttiva dall’alto è “non indorare la pillola”, ma all’occorrenza anche pop come nel video à la “yes we can” dei primi cento giorni. Secondo la fonte del Foglio Rohani è stato irremovibile sulla scelta di alcuni esponenti del suo staff. Per la sua offensiva mediatica – Rohani è persuaso che la forma in politica conti quanto la sostanza – ha messo insieme un gruppo di sei collaboratori tra cui due registi e l’ex direttore di un quotidiano. Dirigono il gruppo Mohammed Reza Sadegh e Hossein Fereidoun, il fratello di Rohani. Hanno entrambi la fama di esecutori ostinati. Sadegh è stato a lungo consigliere dell’ex presidente Hassan Rafsanjani (“per Rafsanjani, Rohani è come un figlio”) e ha un rapporto complicato con i riformisti che lo giudicano sin troppo spregiudicato. Fereidoun è l’ombra del presidente, l’unico di cui si fidi fino in fondo. Dove va Rohani, va il fratello, che si tratti dell’Assemblea generale dell’Onu o di negoziare con i 5+1. Un altro personaggio chiave è Bijan Zanganeh (“uno a cui nessuno è riuscito ancora a trovare uno scheletro nell’armadio”), l’uomo che negli anni Novanta portò a Teheran Total, Royal Dutch Shell, Eni e Statoil: è tornato al ministero del Petrolio e ha già ripreso a tessere rapporti con le maggiori società europee e indirettamente – ha rivelato al Financial Times – anche con quelle americane (“non credo sarebbero felici se io menzionassi i loro nomi”, ha detto in un’intervista al sito del suo ministero). Ieri a Vienna a una riunione dell’Opec ha esordito battagliero: l’obiettivo dell’Iran è tornare a produrre 4 milioni di barili al giorno (l’Iran è sceso a 1,1 milioni di barili in questi anni) anche se il prezzo del petrolio dovesse scendere a 20 dollari al barile. Sicumera a parte, Zanganeh sa che la rivoluzione dello shale gas ha moltiplicato le possibilità di investimento e che i termini dei contratti offerti in passato da Teheran erano poco appetibili, però c’è di che sperare. Il mese scorso il direttore della divisione esplorazioni di Total per il medio oriente, Arnaud Breuillac, ha incontrato a Teheran Rokneddin Javadi, il capo della National Iranian Oil Company, e Christophe de Margerie, direttore generale di Total, ha risposto: “Certo!”, a chi gli domandava se il suo gruppo fosse intenzionato a tornare in Iran una volta cadute le sanzioni. Nel frattempo a Teheran la fiera internazionale dell’Automobile ha registrato numeri da capogiro: mai visti da otto anni a questa parte tanti stranieri girare per gli stand di una manifestazione iraniana.
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