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Il Foglio Rassegna Stampa
04.12.2013 Il Medio Oriente visto da Avigdor Lieberman, appena tornato sulla scena politica israeliana
intervista di Daniele Raineri

Testata: Il Foglio
Data: 04 dicembre 2013
Pagina: 1
Autore: Daniele Raineri
Titolo: «Israele, l’Iran e l’amico americano»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 04/12/2013, in prima pagina, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo "Israele, l’Iran e l’amico americano".


Daniele Raineri        Avigdor Lieberman

Roma. Domenica il New York Times ha dedicato un ritratto al ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, per due motivi. Il primo è che è appena tornato al suo incarico dopo essere stato undici mesi fuori dai giochi per un’accusa di corruzione da cui è stato assolto. Il secondo è che Lieberman adesso è “irriconoscibile rispetto a prima”, quando era considerato il più duro e aggressivo tra i membri del governo, con una tendenza all’eccesso e a uscire dai limiti consentiti della diplomazia (si ricordano i litigi pubblici con Hillary Clinton, quando lei era segretario di stato). “Quello stile abrasivo ora è assente – nota il New York Times (che scrive di avere chiesto inutilmente un’intervista al ministro). “Non ho letto l’articolo”, dice Lieberman al Foglio. “Penso che in passato ci siano stati molti misunderstanding e un sacco di pregiudizi sulla mia persona. Tento di parlare in modo diretto e senza essere politically correct, di non ingannare nessuno, di non essere ambiguo o furbetto. Il New York Times è stato buono?”.
Lieberman è tornato al ministero nel mezzo di una crisi di fiducia tra Israele e Washington, provocata dall’accordo di Ginevra sul nucleare iraniano. Il primo giorno del suo reinsediamento a Gerusalemme è andato a incontrare l’ambasciatore americano e dopo Roma andrà a Washington, per parlare con il segretario di stato John Kerry. “La mia posizione sulle relazioni con la comunità internazionale e con gli Stati Uniti è molto chiara. Penso davvero che il nostro principale partner strategico oggi e per il futuro siano gli Stati Uniti, e che sia impossibile rimpiazzarli con qualcun altro, ma che non sia nemmeno possibile chiedere loro aiuto tutti i giorni. Il nostro errore con l’America è che ogni giorno abbiamo una nuova richiesta, una nuova domanda. Un giorno è l’Iran, un altro giorno è la questione palestinese, il terzo giorno è la Corte internazionale di giustizia, un altro ancora è il loro veto in Consiglio di sicurezza, poi le nostre relazioni con l’Unione europea eccetera eccetera. Penso che sia cruciale per noi non chiedere soltanto, ma anche portare qualcosa al tavolo, al tavolo comune con gli americani. Non dobbiamo più essere quelli che si lamentano soltanto. Dobbiamo imboccare nuove direzioni in politica estera per dimostrare agli americani che non siamo soltanto quelli che chiedono, ma che siamo un partner”.
Kerry dice che il pre-accordo di Ginevra con l’Iran rende anche Israele più sicuro di prima. “Non siamo d’accordo, ma non è necessario discutere di questo disaccordo in pubblico. Penso che ogni paese abbia diritto alla sua opinione e a un suo approccio, ma il nostro in questo caso è completamente differente. Noi abbiamo appoggiato l’intesa sulla Siria perché è stata davvero diversa. Tanto per capire cosa intendo, facciamo il confronto tra il patto iraniano e il patto siriano: in Siria il punto principale e più importante dell’accordo è stato lo smantellamento dei depositi di armi chimiche assieme alla completa distruzione dei mezzi per la produzione di armi chimiche, e il secondo punto è stato un agreement con il regime siriano su tutto il materiale chimico, che ora è destinato a essere portato fuori dalla Siria e a essere distrutto. E invece cosa abbiamo in Iran? Loro si tengono la tecnologia nucleare, le centrifughe continuano a funzionare, almeno 9.400, e tutto il materiale nucleare, tutto quell’uranio arricchito resta in Iran. C’è davvero una differenza enorme tra i due accordi in Siria e in Iran. Eravamo a favore completo del primo e siamo contro quello con gli iraniani”.
Contro Teheran c’è la minaccia delle sanzioni economiche imposte dalla comunità internazionale. “Le sanzioni economiche sono collassate completamente. Tutti stanno correndo verso l’Iran, europei, giapponesi, indiani, cercano di arrivare tutti per primi, pensano al loro utile e a comprare greggio e gas a prezzo più basso che sul mercato internazionale. Contano sul beneficio economico a breve termine e sono pronti a sacrificare i problemi a lungo termine. Pensano alle loro primarie, alle loro elezioni, all’opinione pubblica”. Che cosa pensa della posizione dell’Italia con il governo di Teheran? “Penso che tutta l’Unione europea, quindi anche l’Italia, sia troppo morbida con l’Iran e penso che stiano fraintendendo le conseguenze di questo accordo. Non si tratta di noi, perché siamo un paese forte in grado di difenderci e di affrontare le minacce iraniane; quello che abbiamo è l’inizio di una corsa pazza all’armamento nucleare per Egitto, Arabia Saudita, Turchia e pure altri paesi, ma soprattutto questi tre.
C’è anche un altro punto che non capiamo e non possiamo accettare: prima della firma di questo accordo c’è stato un discorso trasmesso in tv della Guida suprema Khamenei, ha parlato degli ebrei come di ‘porci’ e ‘cani’ e di Israele ‘che scomparirà’. Non abbiamo visto nessuna protesta, nessuna condanna da parte di politici europei contro quel discorso in stile Hitler. Questo è un fatto. Dal governo italiano ci aspettiamo che capisca che è un problema anche vostro: avrete sempre più instabilità, più profughi dalla Siria, più guai in Libia, la situazione vi coinvolge”.
Colpisce la differenza di tono tra le parole del ministro Lieberman e del premier, Benjamin Netanyahu, e quelle dell’establishment militare israeliano. I generali che non sono più in servizio attivo, gli unici autorizzati a parlare, ostentano calma e distacco sulla questione del nucleare iraniano. “Penso che sia soltanto una questione di caratteri diversi, di diverso approccio alle cose. Tutti in Israele pensiamo che quello con l’Iran sia un cattivo accordo, anche la sinistra e l’opposizione. La mia posizione su questi discorsi è ‘se devi colpire colpisci, non stare a parlare’. Sappiamo che alla fine possiamo contare soltanto su noi stessi, sulle nostre capacità e sulla responsabilità che ha il governo israeliano, dare sicurezza e un futuro ai propri cittadini”. Il governo israeliano chi vorrebbe vedere uscire vincente dalla guerra civile in Siria? Il presidente Bashar el Assad, che è alleato con l’Iran e con il gruppo libanese Hezbollah, o i ribelli, che hanno legami con gruppi di al Qaida? “Preferiamo restare fuori dal conflitto e mantenere la nostra posizione: che è non permettere nessun trasferimento di armi chimiche o di armi di alta qualità verso il Libano e quindi verso Hezbollah. Il resto non sono affari nostri. E intanto assistiamo al massacro di 116 mila persone in Siria e notiamo che la comunità internazionale non è capace di risolvere il conflitto: tengono conferenze, incontri, negoziati, ma senza alcun risultato.
E quando si parla di Israele tutti ci dicono: ‘Potete stare tranquilli che noi garantiamo la vostra sicurezza, non preoccupatevi, siamo con voi’. Guardate cosa succede in Siria, noi lo vediamo con i nostri occhi, a duecento metri dal confine. Diamo assistenza medica a molti siriani feriti sulla frontiera e sappiamo esattamente cosa sta succedendo: come possiamo fidarci delle garanzie della comunità internazionale?”.
In questa sua nuova incarnazione più fredda e temperata, pronta secondo alcuni editorialisti a puntare al posto di Netanyahu, Lieberman dice anche che: “Dobbiamo costruire un’economia per i palestinesi per spianare la strada a un accordo”. “La ragione delle ribellioni che vediamo nei paesi arabi non c’entra con il sionismo o con Israele, è il forte senso di ingiustizia. E’ la disparità tra alcuni oligarchi molto ricchi e la miseria e povertà del 99 per cento della popolazione. Anche tra noi e i palestinesi il problema non è il territorio, o il sionismo: è ancora una volta e prima di tutto un problema economico, perché il nostro pil pro capite è 33 mila dollari e il loro è 3 mila dollari. Non è possibile imporre la pace, finisce come in Iraq o in Libia. E’ possibile però crearla, e per crearla le condizioni sono: sicurezza per Israele e prosperità per la Palestina. I palestinesi sono gente normale, si preoccupano di come portare a tavola il cibo per la famiglia e di come dare ai bambini cure sanitarie e istruzione migliori. Con il sessanta per cento di disoccupazione e redditi da 100 dollari per famiglia non può funzionare. La sequenza è chiara: sicurezza per noi, crescita economica per loro, e soltanto allora si potrà parlare di una soluzione”. “Per i loro leader – continua Lieberman con il Foglio – è più facile aizzare i palestinesi contro di noi che risolvere questi problemi: la famiglia di Mahmoud Abbas (presidente dell’Autorità nazionale palestinese, ndr) è impegnata in business redditizi, si è arricchita, non è così preoccupata per le sorti della gente. In Siria c’è un campo profughi palestinese vicino Damasco, si chiama al Yarmouk. Lì negli ultimi mesi il regime siriano ha ucciso 1.600 palestinesi, ma non ho visto nessun articolo in Europa, non ho visto alcuna risoluzione del Consiglio di sicurezza, e anche Mahmoud Abbas tace. Lo stesso vale per i settlement. Per dovere di trasparenza, io sono un settler ok? I settlement non sono un ostacolo alla pace, come si dice: sono l’opposto. Abbiamo firmato due trattati di pace con Egitto e Giordania e i settlement non hanno rappresentato un ostacolo. Ci siamo ritirati da Gaza, per farlo abbiamo abbandonato ventuno settlement, e da quel momento è stata la guerra”.

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