Iran: l'accordo nucleare che ricorda Monaco '38 e preoccupa l'Arabia Saudita commenti di Carlo Panella, Ian Bremmer
Testata:Il Foglio - Corriere della Sera Autore: Carlo Panella - Ian Bremmer Titolo: «Cosa vuole davvero l'Iran - Un accordo sul nucleare in Iran preoccupa i sauditi più che Israele»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 03/12/2013, a pag. I, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Cosa vuole davvero l'Iran". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 42, l'articolo di Ian Bremmer dal titolo " Un accordo sul nucleare in Iran preoccupa i sauditi più che Israele ". Ecco i due articoli:
Il FOGLIO - Carlo Panella : " Cosa vuole davvero l'Iran "
Carlo Panella
Quando Adolf Hitler si sedette nel 1938 alla Conferenza di Monaco con Neville Chamberlain, Benito Mussolini ed Edouard Daladier aveva dalla sua un non piccolo vantaggio: per dirla sbrigativamente, sui Sudeti aveva ragione lui. Da qui bisogna partire quando si maneggia – spesso incautamente – il parallelo tra il patto di Monaco e accordi come quello siglato a Ginevra tra i 5+1 e l’Iran sul programma nucleare di Teheran. Il parallelo è opportuno, a patto che non si ragioni in termini geopolitici, dentro le regole che valgono nella diplomazia occidentale da Vestfalia in poi. Dentro quello schema, invece, ragionò e agì Chamberlain, che non coglieva per nulla – non da solo – il punto focale di quella trattativa, che non era affatto la ragione o no che i tedeschi dei Sudeti avevano di voler essere distaccati dalla Cecoslovacchia e essere inglobati nel Reich tedesco. Su questo punto, come si è detto, i tedeschi dei Sudeti avevano ragione, perché i cechi e gli slovacchi li trattavano come cittadini di seconda categoria e il loro irredentismo pangermanico era giustificato. Anche l’Iran oggi ha tutte le ragioni di aspirare al nucleare civile e anche a pretendere di raffinare l’uranio da solo: l’errore dei 5+1 a Ginevra è oggi, appunto, di ritenere che il punto focale della trattativa sia questo e che quindi l’ambito della discussione sia soltanto quello di imporre agli iraniani di aderire ai protocolli e alle ispezioni dell’Agenzia atomica dell’Onu (Aiea), come previsto dal Trattato di non proliferazione nucleare. Se così fosse, nulla quaestio, si tratta soltanto di discutere dei risultati – in questo ristretto ambito – che avrà la futura road map. Un passo indispensabile Così non è. La posta in gioco, la sfida che la Repubblica islamica d’Iran lancia al mondo non è soltanto il riconoscimento del suo ruolo geopolitico quale potenza regionale e del suo diritto al nucleare civile. Questo indubbio obiettivo è infatti per la leadership iraniana – pasdaran in primis – un passo indispensabile per perseguire la strategia che è propria di ogni verbo rivoluzionario: esportare la rivoluzione sciita in tutta la umma musulmana, eliminare l’entità sionista e porre fine all’usurpazione della custodia dei luoghi santi dell’islam da parte della dinastia saudita (da qui, l’inedito asse tra Gerusalemme e Riad contro gli Stati Uniti guidati da Barack Obama). Questo è l’immenso “non detto” che unisce a Teheran riformisti e oltranzisti che i 5+1 ignorano e che invece Israele coglie con disperata convinzione A Ginevra è in gioco molto altro rispetto al futuro del nucleare civile iraniano, così come a Monaco era in gioco il contrasto a una strategia hitleriana, che ben poco aveva a che fare con il destino dei Sudeti. Questo “altro” era – ed è – semplicemente la vocazione apocalittica e utopistica, militarmente aggressiva, allora di Hitler, oggi, in termini assolutamente differenti, ma non meno pericolosi, della leadership iraniana. L’uno e l’altro uniti peraltro – tra le immense diversità storiche e ideologiche – da un inquietante tratto comune: un feroce antisemitismo. Questo antisemitismo è premessa della “costruzione dell’uomo nuovo”, centro dell’aspirazione utopica e apocalittica del nazismo, così come lo è oggi – ripetiamo, con ben altre componenti, radici e caratteristiche – degli ayatollah e dei pasdaran khomeinisti. Il parallelo tra il 1938 e oggi è dunque legittimo, perché allora come oggi si cerca, e si trova, un accordo su un nodo geopolitico, senza rendersi conto che gli interlocutori lo collocano invece all’interno di una loro strategia che deborda, che va oltre, che è apocalittica, oltranzista, eversiva e aggressiva. Su questo terreno, sulla vocazione apocalittica, sull’utopia, ovviamente non si può trovare una mediazione. Si può però commettere un errore disastroso: avere gli occhi chiusi, non saper interpretare il progetto storico apocalittico ed eversivo dell’avversario (Shoah inclusa, i cui termini furono peraltro sempre incompresi e quindi ignorati dagli angloamericani sino al 1945) e pensare che esso si fermi, si arresti, nella cornice definita dall’accordo geopolitico. Questo fu l’errore di Chamberlain, condiviso da un’ampia e composita platea di leader e opinioni pubbliche mondiali di cui facevano parte Joseph Kennedy, padre di JFK, allora ambasciatore americano a Londra, e quell’establishment inglese ben incarnato da lord Darlington, nella perfetta ricostruzione storica del film “Quel che resta del giorno”. Quell’errore si proiettò ben oltre il 1938 e fu la causa della drôle de guerre 1939-’40, come del patto Molotov- Ribbentrop. Dopo il 3 giugno 1939, dichiarata guerra alla Germania dopo l’invasione nazista della Polonia, i governi e gli stati maggiori di Inghilterra e Francia si attestarono a inerme difesa della linea Maginot, senza combattere, senza attaccare le truppe naziste, lasciando che Hitler occupasse anche la Norvegia, perché ritenevano di dover permettere che il Führer aumentasse il ruolo di potenza regionale della Germania. Stalin stesso agiva in una logica “à la Monaco” e pensava infatti che la spartizione della Polonia avrebbe contribuito a definire un nuovo, complesso gioco di equilibri tra le potenze europee. Una nuova Vestfalia, appunto. Non fu così. Tra il disonore e la guerra Allora, nei giorni di Monaco, Winston Churchill – e lui soltanto – aveva compreso il progetto apocalittico di Hitler e lo aveva enucleato da par suo in poche parole: “Francia e Inghilterra potevano scegliere tra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore. E avranno la guerra”. Così sarà con l’Iran nucleare, con solo il vantaggio – solo a favore dell’Iran, sollevato dalle sanzioni in una hudna, tregua temporanea, che persegue con intelligenza – dell’intervallo di qualche anno e non di qualche mese da qui alla bomba di cui potranno disporre i pasdaran nella loro nuova strategia che mira a utilizzare la deterrenza nucleare per esportare la rivoluzione sciita. Già in Siria, con Bashar el Assad alleato dell’Iran, il presidente americano Barack Obama, l’Europa e le Nazioni Unite hanno appena scelto il disonore. E hanno la guerra.
CORRIERE della SERA - Ian Bremmer : " Un accordo sul nucleare in Iran preoccupa i sauditi più che Israele "
Ian Bremmer ** il re dell'Arabia Saudita
Ogni volta che l’Iran e il suo programma nucleare fanno notizia, emerge di nuovo la questione della vulnerabilità di Israele. Gli israeliani hanno molto di cui preoccuparsi in questi giorni. L’accordo ad interim sull’Iran lascia intravedere la possibilità di un trattato finale, che potrà alleggerire le sanzioni e far arrivare a Teheran un po’ più di soldi da spendere per gli aiuti ad Hamas e agli Hezbollah. Oggi la Siria ospita sia militanti islamici ben equipaggiati sia un regime rabbioso, che ha cominciato a riaffermare il suo controllo in zone chiave del Paese. Negli ultimi anni la Turchia si è allontanata da Israele e l’Egitto, ovviamente, è diventato molto più imprevedibile. Siamo comunque sinceri: se potesse essere raggiunto nei prossimi mesi, un accordo definitivo sul programma nucleare iraniano rappresenterebbe un passo molto importante per il Medio Oriente e per il mondo intero. Solleverebbe dal popolo iraniano il carico opprimente delle sanzioni. Permetterebbe a un nuovo presidente dell’Iran di provare a delineare un percorso nuovo. Toglierebbe forza a quella minaccia che molti funzionari israeliani continuano a definire «esistenziale». Ridurrebbe drasticamente il rischio di una proliferazione del nucleare nella regione più esplosiva del mondo. Fornirebbe all’amministrazione Obama e ai leader europei una vittoria in politica estera di cui hanno estremamente bisogno e servirebbe ad allontanare il rischio dell’ennesima guerra che nessuno può permettersi. Eppure, malgrado le possibilità offerte da una notizia così positiva, alcuni vicini dell’Iran temono che la riduzione delle sanzioni non farà altro che lasciarlo libero di creare ancora più problemi, ancora più difficili da combattere. E il Paese più preoccupato non è Israele ma l’Arabia Saudita. Dopotutto, Israele ha già sia un proprio sistema di difesa anti-nucleare, sia le migliori armi convenzionali e il miglior addestramento militare di tutti i Paesi del Medio Oriente. Così come nel caso di Israele, la sicurezza dell’Arabia Saudita dipende dal sostegno statunitense, ma Israele può contare su un rapporto più affidabile con la superpotenza militare rispetto ai sauditi. Gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita non condividono dei valori politici come fanno gli americani e gli israeliani. In Israele, la democrazia pluralista è uno stile di vita. Per i sauditi, che hanno sotto gli occhi da una parte l’Egitto e dall’altra l’Iraq, la democrazia pluralista è l’incubo più grande. Gli americani e i sauditi, invece, condividono gli stessi interessi. Prima di tutto, quello, comune ai due governi, di contenere l’Iran. Una posizione che è ora al centro dei dibattiti di Riad, dove Washington viene visto come un alleato tutt’altro che affidabile, dopo il voltafaccia dell’amministrazione Obama sulla Siria e sulle armi chimiche del regime di Assad, e dove le azioni per portare in una nuova direzione i rapporti di Europa e Stati Uniti con l’Iran hanno gettato i principi sauditi nel panico. In secondo luogo, le relazioni tra Usa e Arabia Saudita sono legate — e lo sono da molti decenni — al settore petrolifero. Ma, come sanno bene i sauditi, negli ultimi anni la crescita della produzione di energia negli Usa, grazie alle riserve nazionali di gas e petrolio rese accessibili dalle nuove tecniche di perforazione orizzontale e di fracking , ha reso l’America molto meno dipendente dal petrolio che non viene dall’emisfero occidentale. E se Washington non ha più tanto bisogno del petrolio saudita e vuole instaurare legami più saldi con Teheran, allora è facile che diventi un partner molto meno prevedibile per il regno saudita, che deve già affrontare molti problemi interni che non si risolveranno a breve. Gli Usa compreranno ancora il petrolio dei sauditi nei prossimi anni, e Washington venderà ancora le sue armi all’Arabia Saudita. Ma le Primavere Arabe e gli eventi a cui hanno dato vita hanno dimostrato ai reali sauditi che fanno bene a chiedersi cosa succederà se in futuro un presidente americano sarà costretto a scegliere tra i vecchi amici di Riad e un possibile movimento democratico saudita. Se un giorno i disordini toccheranno l’Arabia Saudita, come è già successo in Tunisia, in Egitto e in Libia, i reali potranno contare sull’appoggio di Washington? Anche dopo che la Casa Bianca ha difeso in Egitto le elezioni che hanno dato vita a un governo dei Fratelli Musulmani e che ha condannato le azioni dell’esercito egiziano — che da tempo riceve il sostegno economico degli Usa — per rimuovere Mohammad Morsi? Per i sauditi questa non rappresenta soltanto un’ipotesi lontana. Basti ricordare che il Bahrein ha già affrontato molte ondate di proteste. Il Bahrein è una monarchia sunnita sostenuta dai sauditi, che governa una maggioranza sciita insofferente, e che è separata dal territorio dell’Arabia Saudita dal ponte «Re Fahd», lungo solo 25 chilometri. Durante le manifestazioni più violente della Primavera Araba in Bahrein, ad attraversare il viadotto per riportare l’ordine sono state proprio le truppe saudite. E ogni volta che gli sciiti creano disordini in Bahrein, i sauditi sospettano che dietro ci sia lo zampino dell’Iran. È l’Arabia Saudita che si sta davvero contendendo con l’Iran l’influenza in Medio Oriente. Questo spiega perché i sauditi sono quelli che rischiano di perdere di più da un qualsiasi alleggerimento delle sanzioni in Iran, da una normalizzazione dei rapporti con l’Occidente o da una qualsiasi svolta sul nucleare che dia all’Iran la garanzia di una sicurezza definitiva. I sauditi hanno beneficiato di un Iran economicamente debole, e non sono disposti a perdere quel vantaggio. ** Ian Bremmer: analista americano di politica estera
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