'Before the revolution', il film che racconta i buoni rapporti tra Israele e Iran prima del '79 di Dan Shadur e Barak Heyman. Commento di Giulio Meotti
Testata: Informazione Corretta Data: 30 novembre 2013 Pagina: 1 Autore: Giulio Meotti Titolo: «Dolce vita a Teheran»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 30/11/2013, a pag. II, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " Dolce vita a Teheran ".
Dan Shadur, Barak Heyman, Before the revolution
Siamo alla fine degli anni Settanta. Yaakov Nimrodi è l’attaché militare israeliano nell’ambasciata ufficiosa dello stato ebraico a Teheran. Nimrodi tiene una festa per i maggiori ufficiali dell’esercito dello Scià, Reza Pahlavi. Per impressionare i suoi ospiti, chiede al figlio Ofer di suonare qualcosa al pianoforte. Il bambino, all’inizio esitante, esegue un brano di Bach. I generali iraniani applaudono e il capo di stato maggiore, Fereydoun Djam, regala al figlio di Nimrodi un orologio d’oro. Il padre interviene: “No, generale, è inappropriato”. Ma il militare insiste. Oggi Ofer Nimrodi, uno dei maggiori uomini d’affari israeliani, ex editore di Maariv, ha ancora al polso quel prezioso orologio d’oro. Due registi israeliani, Dan Shadur e Barak Heyman, hanno realizzato un docufilm che è un capolavoro. Si intitola “Before the Revolution”, prima della rivoluzione, ed è la storia incredibile, e mai sentita prima, della dolce vita israeliana a Teheran a ridosso dell’avvento al potere di Ruhollah Khomeini. Impossibile oggi immaginare che fra Teheran e Tel Aviv ogni giorno ci fossero voli di linea della El Al, o che nella capitale iraniana venivano aperte delle scuole per i figli della borghesia israeliana. Iran e Israele si concepiscono oggi come arcinemici esistenziali, come “Hitler” e “il piccolo Satana”. Ma c’è stato un periodo, lungo e intenso, in cui israeliani e iraniani hanno cooperato come due grandi alleati. Il film racconta questa “storia mai raccontata del paradiso israeliano in Iran”. In uno dei momenti più intriganti del film si vede Nachik Navot, capo del Mossad a Teheran dal 1969 al 1972, raccontare di come lo Scià iniziò il programma nucleare con l’aiuto degli israeliani come deterrenza contro l’Iraq di Saddam Hussein. Erano gli anni in cui Israele aveva in Teheran il principale alleato nella regione, alleato islamico, non arabo, ostile a tutti i paesi limitrofi. Gerusalemme importava petrolio iraniano. Teheran ebbe un boom economico, agricolo e militare immenso grazie all’amicizia con Israele. “I paesi arabi sono preoccupati dalle relazioni fra Iran e Israele”, recita un dossier del 1961 del Middle East Record, un magazine pubblicato dall’Università di Tel Aviv. “Ogni generale iraniano visitava Israele”, dice il generale Yitzhak Segev, attaché militare a Teheran dal 1977 al 1979. Lo scorso 1° ottobre il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha evocato alle Nazioni Unite l’editto del re persiano Ciro, che duemilacinquecento anni fa liberò gli ebrei e proclamò il loro diritto a ricostruire il tempio a Gerusalemme. “Fu un decreto persiano, e allora iniziò una amicizia fra ebrei e persiani continuata fino ai tempi moderni”, ha scandito Netanyahu. Fu a Teheran che gli ebrei si stabilirono venticinque secoli fa, quando Ciro, re dei persiani, li liberò dal giogo babilonese. La Bibbia è piena di lodi per la Persia e per i suoi re. Nel libro di Ezra, Dio parla attraverso i proclami di Ciro. Per dirla con Eliezer Tsafrir, capo del Mossad in Iran, “Kourosh-e Kabir (Ciro il grande, ndr) sapeva che c’era un interesse comune fra Iran e Israele”. Persino nel 1942, prima che lo stato d’Israele venisse fondato, l’Agenzia ebraica apriva un “Ufficio palestinese” a Teheran. Ironia della storia, è lo stesso edificio che avrebbe funzionato da ambasciata israeliana fino al 1979 e che l’ayatollah Khomeini consegnò a Yasser Arafat e all’Olp dopo la cacciata degli ebrei dal paese. Lo stato imperiale dell’Iran estese un riconoscimento de facto a Israele nel marzo 1950, il secondo paese mediorientale dopo la Turchia. Tre mesi dopo il ministro iraniano Reza Safinia, messo iraniano in Israele, tenne un ricevimento ufficiale a Gerusalemme, il primo del genere di un diplomatico straniero nella capitale contesa dello stato ebraico. Anche David Ben- Gurion, fondatore d’Israele, prese parte all’evento. Lo stesso Ben-Gurion che nel 1961 compie una visita storica in Iran. Visita segreta e senza precedenti. Cinque anni dopo è il premier Levi Eskhol a far tappa a Teheran. Nel 1972 è la volta di Golda Meir e a seguire arrivano tutti, Yitzhak Rabin, Menachem Begin, Yigal Allon, Moshe Dayan. Una fotografia in bianco e nero appesa in un ufficio governativo a Tel Aviv mostra la veduta dall’alto di una grande struttura circondata da edifici più piccoli. C’è anche una dedica scritta a mano: “Ricordo di un progetto che non siamo riusciti a completare”. Si trattava di una fabbrica per la costruzione di armi. Nonostante la presa del potere di Khomeini, la fabbrica israeliana Soltam ha continuato a ricevere i pagamenti ogni anno (a causa del caos amministrativo a Teheran) per un lavoro mai terminato. A partire dal 1948 e continuando fino al 1952, l’Iran ha permesso a migliaia di ebrei iracheni di usare Teheran come un punto di transito sulla strada per Israele. E non a caso oggi l’Iran ospita la più numerosa popolazione ebraica al di fuori di Israele in medio oriente. Perfino quando Reza Scià si alleò con Adolf Hitler gli ebrei iraniani furono risparmiati. Lo Scià convinse i nazisti che gli ebrei iraniani, avendo vissuto in Iran per più di duemila anni, erano da considerarsi cittadini della nazione persiana e dovevano avere gli stessi diritti degli iraniani. Berlino accettò questa tesi e così furono salvate le vite di tutti gli ebrei iraniani che risiedevano in Europa. Anche oggi l’antiebraismo delle capitali arabe mediorientali è sconosciuto a Teheran. Uno dei principali terreni della collaborazione economica fra lo Scià e Israele era l’agricoltura. Nel 1963, la corporation israeliana Tahal Ltd. di Tel Aviv vinse un contratto del governo iraniano per sviluppare 120 mila ettari a Qazvin, una zona poco sviluppata e ulteriormente impoverita da un terremoto avvenuto l’anno precedente. Grazie al lavoro dei contractor israeliani, il reddito medio degli agricoltori di Qazvin aumentò da da 40 a 500 dollari. Come ha detto l’ex ministro del Lavoro israeliano Arieh Eliav, “Israele ha addestrato qualche migliaio di esperti agricoli iraniani”. Infine, forse il settore più importante delle relazioni economiche tra l’Iran prerivoluzionario e Israele era il commercio del petrolio. E’ stato l’Iran a finanziare una parte del gasdotto Eilat-Ashkelon, che collega il Golfo di Aqaba al Mediterraneo e ha consentito alle esportazioni di petrolio iraniane di bypassare il canale di Suez. Lo storico Yoav Gelber ha scoperto che al termine della guerra del 1948, Israele aveva stabilito a Teheran la “Base 1” per le operazioni di intelligence in medio oriente. E’ stato quello l’inizio di un’alleanza non-araba fra Israele, Turchia e Iran. Una concezione strategico-politica secondo la quale, essendo irrealizzabile la pace con i paesi arabi confinanti con Israele, bisognava ricercare alleanze con i paesi e i popoli non arabi che si sentissero minacciati dall’avanzata dell’islam. Questi paesi e popoli erano l’Iran, l’Etiopia, i curdi, i libanesi cristiani, i drusi. Così c’era un tempo in cui il capo della Savak, Timur Bakhtiar, ospitava gli omologhi israeliani e Isser Harel ricambiava costruendo un apposito ufficio per gli iraniani quando facevano visita al Glilot, il centro del Mossad a nord di Tel Aviv. “Costruimmo il loro paese”, dice Nimrodi nel film. In una scena di “Before the Revolution”, l’uomo d’affari israeliano Yehuda Artziele ricorda una cena sfarzosa che sembra tratta dalle “Mille e una notte” al palazzo reale dei Pahlavi. Con musica classica di sottofondo, lo Scià gli disse che lì le regole dell’islam non valevano affatto: “Beva quanto vuole. Si senta libero”. Era, tuttavia, come “un rapporto amoroso senza contratto”. Formalmente, Israele e Iran non si riconoscevano. Non c’erano bandiere bianche e blu con la stella di David fuori dall’ambasciata e persino i voli di linea verso Tel Aviv non comparivano sui tabulati. Quando il segretario della Lega araba, Mahmoud Riad, fece tappa a Teheran, fu sorpreso di vedere sulle piste dell’aeroporto velivoli israeliani. Così chiese a un funzionario del ministero degli Esteri. La risposta fu: “Per quanto ne sappiamo, non ci sono voli simili”. Poi scoppiò la follia islamica. Un giorno David Nachsol, addetto alla sicurezza dell’ambasciata israeliana, nota un graffito fuori dall’edificio: “Qualunque israeliano trovate, uccidetelo”. Intanto i filmati dell’epoca mostrano espatriati israeliani che prendono il sole nelle piscine di Teheran, che frequentano l’alta borghesia persiana, che visitano appartamenti di lusso nella capitale, che si intrattengono con i collaboratori dello Scià nel suo palazzo rococò. In più riprese video da otto millimetri, numerosi israeliani raccontano dei loro anni in Iran come “i momenti più felici della nostra vita”. Ex kibbutznikim ricordano di come a Teheran avessero persino delle cameriere per cucinare e pulire, impensabile in Israele. Nel 1977, al culmine della rivoluzione, più di novecento iraniani, fra cui la sorella dello Scià, stavano ricevendo trattamenti medici all’ospedale Hadassah di Gerusalemme. Jalal Al-e Ahmad, il più noto intellettuale iraniano degli anni Sessanta, andò a studiare in Israele il modello del kibbutz, che avrebbe voluto espandere nelle campagne iraniane. L’imperatrice iraniana Farah Diba, moglie di Mohammed Reza Pahlavi, adorava le opere dell’architetto israeliano Moshe Safdie. Fino al punto che Farah Diba gli finanziò l’edificazione di una nuova città in Senegal. La strategia politica e commerciale alla base della creazione della nuova città era semplice: il senegalese avrebbe venduto fosfati per gli iraniani, che avrebbe in cambio venduto petrolio ai senegalesi. La città doveva essere intitolata all’imperatrice: Keur Farah Pahlavi. “C’era un clima pieno di fiducia in Iran in quegli anni, come se lo Scià stesse riportando la grandiosità dell’antico impero persiano”, dice Safdie. “Poi Khomeini arrivò al potere e tutto è crollato”. Uno studio dell’architetto Neta Feniger, ricercatore al dipartimento di Architettura e urbanistica presso il Technion – Israel Institute of Technology, ha rivelato per la prima volta l’immenso campo di attività architettonica di Israele in Iran. Erano anni in cui architetti israeliani lavoravano senza sosta a Cipro, in Birmania, in Thailandia e nei paesi dell’Africa sub-sahariana. “Lo Scià aveva una sorta di ammirazione che confinava con il romantico per Israele”, ha scritto il professor Haggai Ram dell’Università Ben Gurion. “Entrambi gli stati hanno cercato di costruirsi come enclave non arabe rivolte a occidente e legate al cordone ombelicale del capitalismo globale. Sia Israele sia l’Iran concepivano se stessi come progetti unici in medio oriente, come ‘ville nella giungla’”. Architetti israeliani hanno letteralmente costruito pezzi della città di Bandar Abbas e le prestigiose Torri Eskan al centro di Teheran. L’israeliano Solel Boneh avrebbe costruito l’hotel Hilton di Teheran. Nel 1978 il Mossad chiede a Moshe Dayan di andare a Teheran per spiegare allo Scià che sta perdendo il controllo del paese. Ma il generale con la benda torna in Israele sapendo che i giorni del vecchio regime ormai sono contati. Dall’imam Khomeini parte la denuncia della cospirazione a tre fra la monarchia, “la Croce e gli ebrei”. Nei sermoni di Khomeini lo Scià è chiamato “spia ebrea” e diventa “mahduro- dam”, sangue senza valore. Significa che chiunque può ucciderlo. Nelle moschee i preti islamici distribuirono manifesti contro “il sionismo internazionale” e “I Protocolli dei savi anziani di Sion” con prefazione di Joseph Goebbels vennero tradotti in farsi, la lingua iraniana. Il Mossad lanciò l’operazione “Shulchan Arukh” per portare via quarantamila ebrei e salvarli così da possibili pogrom antiebraici. L’ultimo volo della El Al sui cieli di Teheran, che all’epoca erano incredibilmente l’unico collegamento dell’Iran col resto del mondo, è datato 10 febbraio 1979. Quattro israeliani, rimasti intrappolati nella sede diplomatica, sono tratti in salvo da un commando del Mossad, come nel film “Argo” di Ben Affleck. Nel terrore khomeinista postrivoluzionario il primo a essere giustiziato fu proprio un ebreo, Habib Helganian, un rispettato uomo d’affari di Teheran, uno di quelli ritratti in “Before the Revolution”. Oggi viviamo la coda di questa cometa di odio. Uri Lubrani, ultimo ambasciatore israeliano in Iran, spedisce un cablo a Washington nei giorni in cui sta cadendo la monarchia. “Sarà anche un figlio di puttana, ma lo Scià è il nostro figlio di puttana”. Il giorno in cui scoppia la rivoluzione, l’attaché militare israeliano Yitzhak Segev e il capo del Mossad Eliezer Tsafrir si trovano nelle strade della capitale. Sono travolti dalla fiumana umana che celebra Khomeini. Un imam barbuto si ferma e chiede loro perché non stiano inneggiando all’islam. I due, in farsi, si scusano e iniziano a cantilenare “Allah Akbar”. Poi vanno a rifugiarsi in una delle “safe houses” a Teheran del servizio segreto. Sono le stesse usate, trent’anni dopo, da altri agenti del Mossad per eliminare gli scienziati iraniani che stavano costruendo la bomba atomica.
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