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Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


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La Stampa - Libero Rassegna Stampa
26.11.2013 Iran nucleare: chi è felice dell'accordo
ayatollah e Confindustria. Commenti di Roberto Toscano e Ugo Bertone

Testata:La Stampa - Libero
Autore: Roberto Toscano - Ugo Bertone
Titolo: «Teheran, tutti contenti, anche i falchi - Ma questa pace ci porta pure buoni affari»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 26/11/2013, a pag. 1-15, l'articolo di Roberto Toscano dal titolo " Teheran, tutti contenti, anche i falchi ". Da LIBERO, a pag. 1-19, l'articolo di Ugo Bertone dal titolo " Ma questa pace ci porta pure buoni affari ".
Ecco i pezzi, preceduti dai nostri commenti:

La STAMPA - Roberto Toscano : " Teheran, tutti contenti, anche i falchi "


Roberto Toscano

Come scrive Roberto Toscano, è più che comprensibile che in Iran tutti i settori della popolazione di tutte le tendenze politiche siano più che soddisfatti dell'accordo di Ginevra. Un accordo che migliorerà le condizioni di vita degli iraniani.
Ma evitare di combattere una dittatura che minaccia di distruggere un Paese - Israele - ed essere la causa del fatto che molti Paesi mediorientali si doteranno dell'arma nucleare (Arabia Saudita in testa) e quindi una probabile minaccia di una imminente terza guerra mondiale,  ha un costo. Per distruggere il nazifascismo le democrazie occidentali non si sono chieste se i bombardamenti sui Paesi dell'Asse avrebbero danneggiato la popolaziopne, cosa che puntualmente è avvenuta. Essenziale era far cadere i regimi dittatoriali di Italia, Germania e Giappone. Queste considerazioni sono oggi ovvie, ma nel 1938 la scena politica e diplomatica era identica a quella odierna, tra democrazie da un lato e l'Iran dittatoriale dall'altro.
Il risultato che è prevalso, però, è quello condizionato dalla valutazione cinicamente economica: riprende il business con l'Iran ma resta intatta la minaccia rappresentata dall'arma nucleare nelle mani di un regime che è rimasto identico a quello creato nel 1979 dal predecessore di Khamenei, l'ayatollah Khomeini.
L'aspetto politico è dunque passato in secondo piano, non dovremo sorprenderci se riemergerà come avvenne con  Hitler, salutato dall'Europa per aver scelto la pace mentre l'obiettivo era la guerra. Toscano nel pezzo che segue ignora la Storia, un aspetto per altro connaturato con la sua ex professione di diplomatico conformista.
Ecco l'articolo:

A Teheran il sollievo è esplicito, palpabile. Solo gli esperti sono in grado di interpretare gli esatti contenuti dell’accordo di Ginevra sul nucleare.

Ma a nessuno sfugge il senso politico di questa svolta: le prospettive di una escalation verso uno scontro militare si allontanano, e si avvicina la prospettiva di una normalizzazione dei rapporti dell’Iran con il mondo, e in primo luogo con gli Stati Uniti.
Quello che colpisce è che si tratta di opinioni e sentimenti ampiamente, anzi quasi unanimemente, con
divisi da tutti i settori della popolazione, da tutte le tendenze politiche.
Sono soddisfatti i «centristi» del regime (che hanno come implicito ma sempre evidente punto di riferimento la figura di Rafsanjani), i riformisti (che hanno a suo tempo accolto l’indicazione di Khatami di fare confluire il loro voto sul «rafsanjanista» Rohani) e persino chi non si identifica con nessuna delle possibili versioni del regime islamico, ma sogna che il Paese possa avviarsi verso un suo superamento in chiave di democrazia liberale – e laica.

Non si tratta di una convergenza inspiegabile, e nemmeno di una novità. È invece la stessa convergenza che ha prodotto l’inattesa elezione di Rohani al primo turno delle recenti elezioni presidenziali, quando – dando prova di una profonda maturità politica – più della metà degli elettori ha deciso di optare per quanto di meglio offrisse il panorama politico della Repubblica Islamica, un panorama condizionato e limitato dal meccanismo del filtro delle candidature, ma non al punto da renderlo privo di significato.
Molto interessante, in questo «day after», è analizzare le reazioni di chi di questo sistema è il decisore finale, il Leader Supremo ayatollah Khamenei. Dopo avere ammonito, per tutto il corso dei negoziati, a non svendere le posizioni irrinunciabili dell’Iran, Khamenei ora si congratula con i negoziatori e saluta il «lodevole risultato» di Ginevra attribuendolo «alla grazia di Dio e alle preghiere della nazione iraniana». Non manca, nel suo commento, il riferimento al fatto che il risultato conseguito a Ginevra è destinato a formare la base «di ulteriori prudenti misure», in un processo in cui – esorta – gli iraniani dovranno continuare a «resistere a richieste eccessive».
Persino l’oltranzista «Kayhan», le cui pagine fino ad oggi contenevano solo esortazioni a non fidarsi ed espressioni di sfiducia sulla capacità dei negoziatori iraniani di difendere gli interessi nazionali contro le pressioni occidentali, titola in positivo «Fumata bianca a Ginevra» e cita in negativo, sempre in prima pagina, quelle che definisce le «rabbiose reazioni dei sionisti» contro l’accordo.
Colpisce, va detto, il contrasto fra le reazioni positive a Teheran e l’interpretazione piuttosto minimalista, se non reticente, che proviene da Washington, dove una nota della Casa Bianca insiste sul fatto che l’intesa raggiunta prevede «un allentamento limitato, temporaneo, mirato e reversibile delle sanzioni», che peraltro verranno sostanzialmente mantenute.
In questo diverso tono emerge certamente la preoccupazione dell’amministrazione Obama di ridurre i prevedibili attacchi all’accordo di oppositori (parte significativa del Congresso, Israele, Arabia Saudita) senza dubbio pronti a denunciare quella che non da oggi definiscono l’eccessiva apertura americana all’Iran, ma anche qualcosa di meno contingente e più significativo. Si tratta del fatto che per l’Iran, sia per il regime che per l’opinione pubblica, la questione nucleare è sempre stata considerata sotto un ben più vasto profilo politico, ovvero come «test case», ostacolo ma anche occasione, per un pieno inserimento del Paese in un normale contesto di relazioni internazionali.
La flessibilità dei negoziatori iraniani e in primo luogo dall’abilissimo Zarif – che ha accettato di non insistere su un esplicito riconoscimento del diritto all’arricchimento dell’uranio (sostenendo, correttamente, che si trattava di un diritto implicito nell’art. IV del Trattato di non-proliferazione) – si spiega proprio con questa priorità, in netto contrasto con la vera e propria ossessione nucleare di chi dipinge l’Iran come deciso a puntare sul possesso, e magari sull’uso contro Israele, delle armi nucleari. In questo senso sono più vicini alla realtà i Paesi del Golfo, che temono invece che l’Iran, dimostrando quella che Khamenei ha definito una «eroica flessibilità», punti invece a rompere, anche pagando un prezzo in termini di limitazioni e controlli sulle attività nucleari, l’isolamento che lo indebolisce economicamente e lo neutralizza diplomaticamente impedendogli di esercitare la funzione di potenza regionale cui storicamente l’Iran aspira.
Si capisce quindi perché a Teheran nessuno, fautori o oppositori del regime, si preoccupi più di tanto di andare a verificare quanto sia stato ottenuto e quanto concesso a Ginevra, ma si festeggi invece il fatto stesso dell’accordo raggiunto. La foto pubblicata da tutti i quotidiani di Zarif assieme a Lady Ashton e ai Ministri degli Esteri di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina e Germania è più importante, qui, delle clausole dell’intesa.
E non si tratta solo di politica estera. Oggi i molti iraniani che sperano in un cambiamento in senso democratico – anche se tengono a freno un’euforia già sperimentata e già delusa (negli anni del riformismo di Khatami e nei giorni prima inebrianti e poi tragici del Movimento Verde del 2009) - sono pienamente consapevoli del fatto che i margini per un miglioramento sia economico che politico siano inversamente proporzionali alla tensione internazionale e all’isolamento del Paese.
Si tratta di un nesso che, è da sperare, non dovrebbe sfuggire a chi dovrà continuare a negoziare con l’Iran lungo un itinerario diplomatico ancora lungo e problematico. Chi sostiene di avere a cuore non solo la sicurezza regionale e mondiale, ma anche le sorti del popolo iraniano e la sua aspirazione a maggiore libertà e pluralismo, farebbe bene a meditare su un testo molto significativo: la lettera aperta che 400 dissidenti iraniani (sia esuli che tuttora residenti in Iran) hanno rivolto pochi giorni fa al presidente Hollande per esortarlo a non ignorare il fatto che solo in presenza di un allentamento delle tensioni internazionali, a partire da quelle derivanti dalla questione nucleare, vi sarà per il popolo iraniano una possibilità di avanzare verso la piena realizzazione delle proprie aspirazioni alla democrazia, e che al contrario l’isolamento internazionale fornisce sul piano interno un facile pretesto ai fautori di irrigidimento e repressione.
Si coglie infine, nelle reazioni che l’accordo di Ginevra ha prodotto a Teheran, l’aspettativa che il risultato conseguito, nonostante la sua natura di passo preliminare, sia già sufficiente per aprire la via a una normalizzazione dei rapporti economico-commerciali. Si sa che gli operatori economici, anche quelli americani, sono pronti a muoversi appena sia materialmente possibile, e da parte loro i businessmen iraniani – che ultimamente avevano dovuto ricorrere, per eludere le sanzioni, a contorte e costose triangolazioni – sono pieni di idee che non vedono l’ora di poter realizzare: anche, e per certi settori soprattutto, con l’Italia, un Paese con cui gli iraniani si sentono molto a loro agio anche sul piano culturale.
In Iran la «domanda d’Italia» è stata sempre molto più alta dell’offerta, e ciò soprattutto da quando le sanzioni, cui il nostro Paese si è disciplinatamente allineato, hanno non solo limitato, ma spesso anche chiuso del tutto i tradizionali canali di interazione economica.
Nel clima di speranza che oggi prevale a Teheran emerge anche l’aspettativa che il ritorno dell’Italia non si faccia troppo attendere.

LIBERO - Ugo Bertone : " Ma questa pace ci porta pure buoni affari "


Ugo Bertone

Anche Ugo Bertone, come il Sole 24 Ore di domenica nei due pezzi di Alberto Negri (http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=999920&sez=120&id=51470) rileva l'entusiasmo delle aziende che con l'Iran fanno affari. Riaprono i mercati ma sul business incombe l'arma nucleare. Questo interessa poco alla Confindustria, che ha da sempre altri obiettivi. Dovrebbe interessare invece al governo, se la nostra politica estera avesse, oltre ai fini mercantili, anche un'altra visione del mondo a venire.
Ecco il pezzo:

Caso vuole che proprio ieri, all’indomani dell’accordo sul nucleare iraniano, la D’Amico International Shipping abbia annunciato d’aver affittato a una importante società petrolifera, per un periodo di tre anni, una nuova nave alla tariffa giornaliera di circa 17.000 dollari, ovvero oltre diciotto milioni di dollari. Certo, affari del genere non si combinano dall’oggi al domani. Ma, d’altro canto, non è certo da ieri che gli uomini d’affari di mezzo mondo si stanno muovendo per conquistare la pole position per il dopo embargo del greggio iraniano, per quello che potrebbe essere l’affare dell’anno. Fin da subito, perché anche sotto il regime provvisorio previsto dalle intese di Ginevra, Teheran potrebbe almeno raddoppiare le vendite di greggio ai Paesi che già operano con l’Iran degli ayatollah: India, Corea, Taiwan e Giappone. Questo perché le compagnie di assicurazione che finora si rifiutavano di assicurare le navi che transitavano dai porti della repubblica iraniana, già stanno riaprendo le filiali dei broker nel pressi di Hormuz. E poi il greggio «pesante » che sgorga dagli altipiani della Persia - un petrolio «sour», come il russo Ural e alcuni greggi iracheni - è l’ideale per rifornire le raffinerie dell’Occidente, orfane dei rifornimenti libici. Per questo le Big Oil, Eni compresa, hanno letto con molta attenzione l’intervista al Financial Times di Mehdi Hossein, consigliere del ministro del Petrolio iraniano Bijan Zanganeh: Teheran, ha detto, ha bisogno di investimenti per almeno 100 miliardi di dollari per sfruttare il petrolio in maniera efficiente, e per questo sta studiando nuove e più attraenti forme contrattuali per attirare nuovamente le major nel Paese. «Muovetevi, che i vostri concorrenti sono già lì!» è l’ap - pello lanciato giovedì scorso agli industriali francesi da un esperto di cose iraninae, Michel Malinsky, incaricato di organizzare una missione di industriali a Teheran già il prossimo gennaio. «Siamo già in ritardo» spiega intanto Xavier Hiuzel, veterano di Total, con una lunga esperienza nel Paese «gli Americani sono pronti a recuperare terreno, i tedeschi, al solito, hanno già messo le basi per il ritorno. E gli asiatici, cinesi in testa, non sono mica stati con le mani in mano». Messa così, sembra che per l’Italia non restino che le briciole. Ma non è il caso di disperare: l’asse Roma-Teheran poggia su basi solide, radici che affondano nel tempo. Lo ha ricordato lo stesso ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif: «La collaborazione tra Roma e Teheran nel settore privato è molto solida » ha detto nella sua recente visita romana «e i problemi degli ultimi anni potranno essere eliminati». Vale per la Fiat, che ha rotto i rapporti con l’Iran nell’aprile del 2012, al pari di altre aziende obbligate a rispettare l’embargo. Vale, naturalmente, ancor di più per l’Eni e per l’industria dell’oil equipment tricolore, dai colossi Tenaris e Saipem fino alle multinazionali tascabili tipo Trevi, specializzate per rendere più efficienti le esplorazioni dei campi petroliferi. È il greggio, al solito, al centro di qualsiasi dossier Iran. L’embargo ha strozzato l’in - dustria, indispensabile sia per l’economia che per la politica degli ayatollah che comprano la pace sociale con prezzi ridicoli della benzina (sette centesimi al litro...). Nel 2011, prima dell’ultima stretta, il petrolio assicurava 117 miliardi alla bilancia commerciale iraniana, poi scesi a 77 miliardi nel 2012. Assai meno quest’anno. Facile, a questo punto, capire che per ritornare in forze a Teheran occorrerà investire risorse liquide. E render possibile ai piccoli, non solo ai big, la possibilità di attingere al credito, del resto garantito dal greggio. Sarà necessario, dunque, poter contare su una Sace robusta e liquida, che sia ancora pubblica o privatizzata sotto le insegne delle Generali. Certo, è ancora presto per cantare vittoria: le frontiere della repubblica degli ayatollah sono ancora sbarrate. Ma la storia ci dà conforto. Correva l’anno 1957, infatti, quando Enrico Mattei e lo scià Reza Pahlavi annunciavano al mondo la costituzione della Sirip, la società mista tra l’Eni e l’ente petrolifero iraniano: per la prima volta una società occidentale riconosceva a un Paese produttore i tre quarti degli introiti ricavati dalla produzione del petrolio. Una sorpresa per inglesi e americani, che quattro anni prima avevano reinsediato lo scià sul trono. Senza fare i conti con Mattei che, tanto per consolidare l’asse con il greggio persiano, aveva addirittura proposto allo Scià, allora scapolo, di chieder la mano di Maria Gabriella di Savoia. Anche così si costruiva l’Italia dei miracoli.

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