Riprendiamo da TUTTOLIBRI-LASTAMPA di oggi, 23/11/2013, a pag.V, la recensione di Elena Loewenthal a due libri "Rinascimentop ebraico" di Martin Buber e "La fine della modernità" di Enzo Traverso.
Elena Loewenthal le copertine dei due libri
In uno scritto del 1917 intitolato Il Prezzo, Martin Buber replica alla proposta di uno scrittore tedesco secondo il quale, come presupposto della loro «piena equiparazione» sociale, politica e culturale e prova di «buona cittadinanza», agli ebrei andrebbe chiesta una conversione in massa al cristianesimo. A questo appello, a posteriori agghiacciante, Buber risponde con fermezza, chiamando in causa la coscienza ebraica: «Non entrate a forza nella sua anima!». Non è un prezzo accettabile per aprire le porte della modernità, dice. Questa è il fondamento della complessa eppure lucidissima costruzione ideologica che guida il pensatore, la sua idea di umanesimo e di sionismo: abbiamo il diritto - e il dovere - di fare i conti con la nostra coscienza. Più o meno lo stesso diceva su Theodor Herzl nel lontano 1904, in un ritratto originale e per certi versi sorprendente del fondatore del sionismo, che «nella sua giovinezza non aveva recepito nulla della materia emotiva ebraica». Martin Buber invece la conosce e la vive in tutti i giorni della sua lunga esistenza: dalla Vienna del 1878 alla Gerusalemme del 1965. Gli ideali non devono restare un solenne palazzo di parole: ma trasformarsi in case accoglienti e quotidianità vissuta. Considerato, e con ragione, il filosofo ebreo della modernità, Buber arriva relativamente tardi alla pura teoria: Ich und Du è pubblicato nel 1923. Prima d'allora le sue parole sono calcate sull'attualità, sul vertiginoso corso della storia in quegli anni. Gran parte di questi scritti sono ora raccolti in una preziosa antologia intitolata Rinascimento ebraico. Scritti sul sionismo (1899-1923) pubblicata da Mondadori con la puntuale cura di Andreina Lavagetto. Peccato solo non sia stato inserito un breve glossario per spiegare i termini ebraici ricorrenti: «Galut», ad esempio, che è la «diaspora» intesa più come condizione esistenziale che storica. O «Chutzpe», la «faccia tosta» in yiddish.
Martin Buber non è stato solo un filosofo o un teorico del sionismo. E' stato soprattutto un intellettuale che ha fatto della interdisciplinarietà la sua strabiliante cifra. Ha raccolto antiche leggende ebraiche, si è immerso nel mondo chassidico per capirlo. Ha riportato in superficie ciò che era «sepolto in noi: delle autentiche forze e forme ebraiche, che in noi sono state ricacciate da forze e forme estranee». Auspica e collabora a una rinascita nazionale dell'ebraismo in Palestina perchè questo significa recuperare i valori intrinseci, più profondi, autentici e moderni del messaggio d'Israele. Il sionismo non è, o meglio non è soltanto la declinazione ebraica del nazionalismo moderno, né la risposta all'antisemitismo. E' l'autodefinizione stessa di ebraismo: «Non deve essere costituita una collettività di ebrei, bensì una collettività autenticamente ebraica... in cui i comandamenti di Mosè per il riscatto della proprietà, i richiami dei profeti alla giustizia sociale diventino realtà in una forma che accolga e disciplini le condizioni economiche della nostra epoca. La nostra prima opera in terra libera dev'essere rendere concreto l'ideale di comunità immanente all'ebraismo. Quell'ideale non deve restare un solenne palazzo di parole: deve trasformarsi in case accoglienti, in quotidianità vissuta».
Il sionismo non può non richiamarsi alla «più equa legislazione sociale» e al «ricordo delle profetiche grida di collera per la sua mancata osservanza» che sono il cuore della materia biblica.
Nel suo La fine della modernità. Dalla critica al potere, Enzo Traverso pone Buber fra le due alternative che si presentarono ai giovani intellettuali ebrei europei - aderire a socialismo o a nazionalismo. La modernità ebraica significa per Traverso la perduta capacità di situarsi su posizioni marginali, estreme, tali da innescare il cambiamento. Il fatto che nella seconda metà del Novecento l'ebraismo si sia stabilizzato su una forma generica di «conservazione», cioè di conformismo, è secondo lui indice di una decadenza forse irreversibile. Buber è in questo senso l'opposto del conformismo: tornando ai valori originari dell'ebraismo, quelli scritti nella Bibbia e nell'idea archetipica di fede come spinta etica e messianica, dimostra che il cammino non è mai concluso: ecco perché oggi si può e si debba dirsi «sionisti», anche se il movimento ha raggiunto lo scopo. Lo stato d'Israele è ormai una realtà, ma il sionismo è ancora valido in quanto attesa, legge, etica (Buber dice che questa è «l'esecutivo della religione», intesa non in senso confessionale ma di porta d'accesso all'umanesimo). Quanto stridono queste parole alte e coinvolgenti, al confronto con gli stereotipi e i pregiudizi che accompagnano immancabilmente la sola menzione del «sionismo», bollato dalle cronache politiche, dalla propaganda «bellica», certamente anche da sue derive. Ma il sionismo vero è questo, che Buber racconta in queste pagine, che ha costruito gli ideali, nutrito la vita, le fatiche, il lavoro di generazioni.
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