Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 21/11/2013, a pag. 38, l'articolo di Domenico Quirico dal titolo " Così mi ha tradito la rivoluzione siriana ".
Complimenti a Domenico Quirico per il titolo, ci vuole coraggio, in Italia, dove l'abitudine è quella di non infilare mai le dita negli occhi delle dittature, nemmeno di quelle più spietate.
Domenico Quirico, Il Paese del Male. 152 giorni in ostaggio in Siria (ed. Neri Pozza)
«Andiamo alla collina di Qadesh…» annuncia il nostro accompagnatore, Trad Zawri, a cui siamo stati affidati dal centro stampa dell’Armata libera. «Centro stampa»: in realtà dietro il nome pomposo ci sono soltanto lui e il suo capo, Abu Shams.
Qadesh: gli ittiti, Ramses il grande… Qui imperi sono nati e si sono spenti. Quanta Storia. Prima che gli assalti dei ribelli la prendessero di mira, la collina era una base dell’esercito. Sulla cima c’è una moschea sbocconcellata dalle cannonate, dove il vento gioca tra le rovine e le macerie, con uno strano suono simile a un disperato respiro umano. Le trincee che ancora si distinguono sono ingombre di cassette sventrate, fucili distrutti, elmetti, baionette sparsi per il terreno. Pierre raspa un po’ la terra vicino alla buca di un cecchino: spuntano frammenti di antica argilla… La Storia, eccola, dove ora soffrono, lottano e muoiono creature viventi.
Zawri racconta: qui c’erano i tiratori, là sono salite le nostre squadre d’assalto… Pare di assistere alla spiegazione di un gioco, alla tranquilla constatazione di una scoperta sulla quale non è nemmeno necessario spendere troppe parole. La quiete, il silenzio tolgono ogni voglia di ragionare: pare di vivere un sogno col timore di non goderlo abbastanza.
Torniamo ad al-Qusser. I piccoli calibri del nemico aprono il fuoco nel momento in cui imbocchiamo la strada che si perde nella pianura. Sotto un cavalcavia, che un bombardamento ormai antico ha lentamente demolito e sconvolto, un gruppo di ribelli sfiniti dalla fatica, con grandi occhi pieni d’ombra, ci guarda passare senza un gesto, masticando gli avanzi di una pagnotta. Nel luogo della strage dell’alba non sono rimasti che crateri di un colore grigio che sfuma al nero sui bordi. L’aria è limpida, di una trasparenza che dà il capogiro.
Al cimitero si raduna una folla silenziosa: il funerale di uno dei morti del bombardamento al mulino. I cimiteri musulmani: così diversi dai nostri, senza marmi, gessi, angeli dalle ali ammuffite. C’è un senso di appartenenza, si può andare ovunque e vedere qualsiasi cosa. Da questo posto la vita si è ritirata, completamente. In Siria ho assistito a molti funerali. Ma mai a uno come questo. In passato avevo visto rabbia, volontà di battersi, di vendicare il «martire»; qui c’è soltanto puro dolore, vuoto, silenzio. Ciò che il mondo conosce meglio di qualunque altra cosa – la speranza – qui ci si è abituati a perderla, a vederla svanire.
La folla passa, in una lenta processione, accanto ai parenti del ragazzo ucciso e stringe loro la mano. Un vecchio cade in ginocchio, protendendo le braccia. Sono tutti uomini: alle donne l’Islam assegna il dolore del giorno dopo, senza testimoni, senza voce. Lì vicino, una madre accarezza il semplice tumulo di terra dove è sepolto un figlio; piange, senza lacrime, con un suono come di qualcosa chiuso in trappola che cerca di liberarsi.
Nello spiazzo hanno già scavato altre buche, grattando a fatica nella terra dura e asciutta: sanno che non resteranno vuote per molto tempo. Teneri mucchietti ondulati con una cura che fa sentire il palmo della mano. Certo, il giorno in cui nessuno se ne occuperà più, verranno disfatti dal vento. Sembra assurdo che quella terra tutta dissociata atomo per atomo, senza germi di vita o goccia di umore o ombra di foglia, possa accogliere la morte. Assurdo quanto un cadavere seppellito nell’aria.
Questo è un carnaio, un carnaio di principî veri e falsi, di buone e cattive intenzioni.
Ricordo un’altra guerra, il momento in cui ho creduto di aver imparato la mia prima lezione: quando non c’è più nulla da fare dimentica, voltati, tieni duro. La pietà è una cosa da tempi di pace, non quando in gioco c’è l’esistenza. Seppellisci i morti e divora la vita! Ne avrai bisogno, il dolore è una cosa, la realtà un’altra. Solo a questa condizione si sopravvive. Ma ora so che non bisogna rassegnarsi a questa filosofia.
Riprendiamo la strada verso il comando dell’Armata siriana libera, dove abbiamo lasciato i nostri zaini, e ci sentiamo come due che ancora una volta se la sono cavata. D’un tratto il giorno mi sembra di nuovo caldo e sfavillante. Ancora una volta, dunque, la grigia posta della vita è pietosamente velata dal dono di alcune ore. Ma forse è solo una menzogna: nulla è donato, questo è solo un rinvio. Ma che cosa nella vita, nelle vicende, guerre, rivoluzioni, che racconto da vent’anni, non lo è? Non è un continuo rinvio, una pietosa dilazione?
Abbiamo chiesto di essere riportati a Qara. Ci presentano un miliziano che ci accompagnerà. È grosso, ha una lunga barba rossa e le mani callose da contadino, sorride in modo strano, sfuggente, non parla ma con gli occhi sembra ferire tutto ciò che vede. Insieme a lui e ad alcuni ribelli mangiamo un piatto di fagioli, per terra. Quando usciamo dalla casa, dei ragazzi armati ci guardano e ci lanciano strani saluti ironici: «Bye bye».
Tacciono le armi nella quiete della notte, la città sembra riposare. Scalpiccio di scarpe nella via, passano due miliziani con i mitra tenuti tra le mani come fossero arnesi da lavoro. La notte si richiude su di loro. Prendiamo posto a fianco dell’autista. La macchina parte sollevando turbini di polvere bianca. La città ci sfila davanti nel buio che nasconde le sue ferite, arcanamente bella. Nulla vive, nulla sembra vivere.
Passano cinque minuti da quando ci siamo lasciati alle spalle le ultime case: un’auto avanza verso di noi con i fari accesi. Strano: qui di notte si viaggia con tutte le luci accuratamente coperte, il nastro adesivo nero perfino sul quadro dei comandi, anche una sola bava di luce può richiamare l’attenzione mortale degli elicotteri e dei cecchini. L’auto misteriosa punta verso di noi, e il miliziano che ci guida abbozza una manovra a dir poco bizzarra: rallenta e si arresta a metà strada, la portiera rivolta verso le luci che si avvicinano sempre più rapidamente.
«È un’imboscata» grido, ma invece di ripartire l’uomo sembra impacciato con le marce e lascia spegnere maldestramente il motore. Dalla luce emergono figure scure di incappucciati che sparano raffiche di mitra e gridano: «Police, police».
«Pierre! Sono gli uomini di Bashar…!».
Non faccio quasi in tempo a dirlo che ci sono già addosso, spalancano la portiera, ci trascinano verso il loro pick up. Mi volto e l’ultima cosa che vedo è il nostro autista che passa gli zaini a uno degli assalitori. Ci hanno venduti, traditi!
Ci gettano nel cassone dove, ora che ho gli occhi bendati, sento la presenza di altri uomini.
«Pierre, sei lì?».
«Sì».
E subito piovono pugni e calci per farci tacere. Il pick up riparte, dritto su uno sterrato dove sobbalza e sbanda. Dieci minuti di viaggio a velocità sostenuta, poi si ferma. Ci gettano giù, ci fanno inginocchiare a terra, e sono già certo che arriverà una raffica di mitra. Invece ci spogliano e mani brutali ci fanno indossare una maglia e i pantaloni di una tuta. Ci fanno proseguire a spintoni, a calci, ho i piedi nudi, sento la rugiada, il freddo che sale dall’erba. Inciampando mi arrampico lungo una breve scala ed entro in una stanza. Lo so perché attraverso la benda intravedo una luce forte e sento delle voci, i rumori di molti uomini riuniti. Mi gettano a terra e a pedate mi sistemano con la schiena contro il muro.
Una mano grossa, nodosa mi afferra alla gola e stringe.
«Lo sai dove sei?».
«No».
«Sei con la polizia di Bashar Assad. Io sono un colonnello della polizia di Bashar».
L’uomo mi colpisce una, due, tre volte alla testa, ma non è questo che mi fa paura: è la sua voce, profonda che raschia la pelle, la voce di un orco. Attraverso la sua mano, una mano che stringe di colpo senza bisogno di tastare, dura, impietosa, e il suo fiato a due passi dal mio viso, avverto il piacere fisico, bestiale che quell’uomo prova a sentire la mia paura, il mio sudore. Ci chiedono come ci chiamiamo, da dove veniamo, Italia, Belgio, il mestiere, giornalisti, giornalisti, sghignazzano: si capisce che già sapevano. Quando vogliono appurare se ho figli, mento, dico che ho due maschi, «Alberto e Giuseppe» mi invento. Non so perché lo faccio, forse non voglio che i nomi delle mie figlie striscino in mezzo ai lazzi di questa gente, a parole che spesso non posso decifrare. Se ne vanno, ordinandoci di stare in silenzio e di non muoverci. La luce si spegne.
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