Ricordare Karski
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
Oggi si tiene a Torino, presso la fondazione De Fonseca, in Via Pietro Micca, una giornata di studio dedicata alla figura di Jan Karski. Penso che sia un'occasione importante per capire le dinamiche dell'antisemitismo e della Shoà e per questo vi partecipo con una relazione. Uso oggi questo spazio, certamente più largo del pubblico di un convegno, per spiegare il perché.
Karski, pseudonimo di Jan Kozialewski, nato nel 1914 era un giovane ufficiale polacco quando i tedeschi invasero il suo paese nel '39. Negli anni successivi svolse un ruolo sempre più importante nella Resistenza polacca, che aveva la forma di un esercito regolare, anche se clandestino. Catturato prima dai russi, poi dalle SS, torturato, evaso, diventato corriere per i vertici della Resistenza, fu spedito nel '43 in Inghilterra e poi negli Stati Uniti a comunicare al governo in esilio e agli alleati quanto aveva visto e saputo durante il suo lavoro clandestino. Costretto a rimanere negli Stati Uniti dalle vicende della guerra, nel '44 pubblicò un libro destinato a spiegare ed esaltare la Resistenza, “Story of a secret state”, tradotto quest'anno in italiano da Adelphi col titolo “La mia testimonianza davanti al mondo”.
E' un libro scritto molto bene, con grande capacità di descrizione e di penetrazione psicologica, un racconto di avventure rocambolesche che prende il lettore senza lasciargli mai prendere il fiato, e anche un'analisi lucida delle tattiche dei nazisti e della Resistenza. Si è catturati dalla durezza della lotta, dall'angoscia dell'oppressione, dal coraggio dei partecipanti. Quel che rende il libro assolutamente unico, però, sono due capitoli (il numero 29 e il 30), quasi alla fine del volume: una quarantina di pagine che sono una presentazione straordinariamente vivida della Shoà, una delle più impressionanti che si possano leggere. Karski, in preparazione del suo viaggio in Inghilterra e negli Stati Uniti, viene invitato a incontrare due rappresentanti del movimento clandestino ebraico. Il loro messaggio, la loro disperazione, l'angoscia di comunicare al mondo che “non vi è una persecuzione contro di noi, stanno sterminandoci tutti”, è tale da coinvolgere Karski, che nella sua narrazione e probabilmente nella sua vita aveva avuto pochissimo a fare con gli ebrei. Accetta di entrare clandestinamente nel ghetto, lo fa due volte, lo descrive in una maniera sconvolgente, proprio perché lui è un testimone, non è coinvolto fra le vittime. Poi accetta anche di fare un viaggio ancora più rischioso a Oriente per entrare in un campo di sterminio dove gli ebrei sono ammazzati a migliaia ficcandoli a forza in centinaia dentro carri bestiame col pavimento coperto da calce viva, dove muoiono bruciati vivi, avvelenati, soffocati. Assiste a un'esecuzione di massa di questo tipo travestito da guardia ucraina, ne esce malato e sconvolto, parte per il mondo libero, dove cerca di raccontare quel che ha visto. Incontra ministri inglesi come Eden, la moglie di Hemingway, i capi dei partiti, la commissione per i crimini di guerra, dà interviste, tiene conferenze; poi va in America dove fa lo stesso lavoro, arrivando fino a parlare con Roosevelt.
Alle sue denunce non seguì quasi azione. Vi fu una generica denuncia delle stragi contro gli ebrei, firmata dagli alleati, ma nessuna azione militare per impedirla, nessun monito o minaccia per chi la compiva o la organizzava, mentre già si poteva capire che la guerra sarebbe finita con la vittoria degli alleati. La ragione l'ha spiegata l'altro giorno una frasetta dal cinismo acuminato di Sergio Romano in risposta a una lettera al Corriere della Sera: non volevano si pensasse che la guerra servisse a difendere gli ebrei. (http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=2&sez=120&id=51412). Credo anch'io che il pensiero fosse questo, e non solo di Roosevelt e Churchill, ma anche degli ebrei americani, quell'ambiente che è degnamente rappresentato oggi come allora dal New York Times. Ci sono analisi storiche dettagliate che mostrano la sistematica sottovalutazione anzi l'occultamento che il maggior giornale americano, di proprietà ebraica, espressione in un certo senso degli ambienti culturali ebraici di New York, fece volontariamente della Shoà, mentre si svolgeva, per non imbarazzare Roosevelt. Fu questa la risposta alla richiesta portata da Karski a nome degli ebrei che morivano in massa in Polonia:
“Dica loro che non è il momento di mettersi a fare politica, di spaccare il capello in quattro, e discettare di strategia standosene bene al sicuro a casa propria o nel proprio studio. Dica loro che il mondo dev'essere scosso con violenza, dalle fondamenta, perché l'umanità sappia quel che sta accadendo. Forse ciò gli sveglierà. Occorre che la gente si renda conto, capisca […] Dica loro di recarsi in tutti gli uffici e le agenzie più importanti degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Devono pretendere che venga messo in atto un piano per salvare gli ebrei. Si rifiutino di mangiare o di bere finché non verrà trovata una soluzione. Digiunino fino a morire di fame e di sete sotto gli occhi del mondo, quel mondo che intanto assiste impassibile alla distruzione del nostro popolo […] Non siamo così crudeli da chiedere ai nostri fratelli all'estero sacrifici che non siamo pronti ad affrontare in prima persona, sia ben chiaro. Il ghetto insorgerà e finirà in fiamme. Non moriremo in una lenta agonia, ma con le armi in pugno. Dichiareremo guerra alla Germania. Sarà la dichiarazione di guerra più disperata che sia mai stata fatta.”
Churchill, Roosevelt, Stalin
In effetti il ghetto si ribellò e gli interlocutori di Karski furono anche loro uccisi “con le armi in pugno”. Ma nessuno degli ebrei americani saltò il suo breakfast. E' una conclusione amara. Roosevelt e Churchill vendettero a Stalin, che per portarsi avanti aveva ammazzato molte migliaia di ufficiali polacchi, la Resistenza ufficiale di Karski e compagni; gli ebrei americani, almeno nelle loro rappresentanze ufficiali, fecero poco per salvare i loro fratelli di Varsavia e di Auschwitz. Erano guidati come oggi da un ambiente progressista (il New York Times) che si è permesso con Hannah Arendt di buttare la colpa addosso ai capi delle comunità locali, quegli Judenraete che Arendt si permise di indicare come corresponsabili del genocidio, mentre loro, “ bene al sicuro a casa propria o nel proprio studio”, furono certamente più responsabili.
Arendt si permise anche di teorizzare la “banalità del male”, quando testimonianze come quella di Karski, pubblicata in America nel '44 ( e anche quella di Yankel Wiernik, evaso da Treblinka - la potete leggere qui: http://www.zchor.org/wiernik.htm), chiarivano fino al livello dell'incubo la spaventosa violenza diretta e sadica dei nazisti nei campi. Tutti sapevano, i leader politici e quelli ebraici, anche il pubblico generale, perché il libro di Karski fu un best seller nel '44, quando Auschwitz lavorava a pieno ritmo. Si chiusero tutti gli occhi apposta per non “digiunare”, per non compromettere la loro “politica”, come oggi si chiudono gli occhi di fronte all'Iran che pianifica il genocidio. Del resto buona parte dei leader ebraici “progressisti”, come per esempio Yehuda Leib Magnes, presidente dell'Università di Gerusalemme, sessantacinque anni fa facevano campagna negli Usa contro la fondazione di Israele. Arendt, amante non pentita di un nazista come Heidegger e teorica della sostanziale innocenza dei nazisti(la “banalità del male”, che trasforma Eichmann in un incosciente burocrate), “diffidente della politica di Israele” o semplicemente sua nemica, è diventata un santino per la sinistra intellettuale (http://mosaicmagazine.com/picks/2013/06/idolizing-hannah-arendt/), Karski e Wiernik furono quasi dimenticati, per la colpa di aver fatto sapere in tempo diretto la verità al mondo che voleva ignorarla. Ricordare oggi questi fatti, e ricordare la parte che il Muftì di Gerusalemme padre del movimento palestinista, ebbe nella Shoà (https://www.facebook.com/photo.php?v=1424656354415007 https://www.facebook.com/photo.php?v=396629677090142 ) non è solo un compito di verità storica, ma una esigenza politica ancora attuale, per limitare i danni dei nipotini di Arendt e del Muftì.