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Informazione Corretta Rassegna Stampa
18.11.2013 IC7 - il commento di David Meghnagi
Dal 10/11/2013 al 16/11/2013

Testata: Informazione Corretta
Data: 18 novembre 2013
Pagina: 1
Autore: David Meghnagi
Titolo: «IC7 - il commento di David Meghnagi»

" Oltre i conflitti "
di David Meghnagi


David Meghnagi
psicoanalista, scrittore

La vita e la morte ho posto dinnanzi  a te [...] scegli dunque la vita...
Devarim / Deuteronomio, 30, 15-19.

In ogni generazione ciascuno deve considerare se stesso come
fosse uscito dall’Egitto.
Talmud Bavlì, Pesachim, 116b.

 Seimila anni di calendario sono il simbolo di un inizio rappresentato da un’origine comune, dove la patria è il mondo intero e la Terra promessa appartiene al Signore. L’inizio cui si richiama l’ebraismo per celebrare il nuovo anno è ciò da cui ha preso corpo il tutto. È impegnativo nei rapporti con la natura e con il mondo animale e vegetale. Ha un valore ecologico attuale.

Nella prospettiva ebraica la natura non è un possesso, ma in affido. Gli animali hanno diritti inviolabili. Il riposo dello Shabbath è anche per loro. I figli non appartengono ai genitori. Sono il più prezioso dei doni da custodire con responsabilità.  

Gli ebrei sono l’unico popolo che simbolicamente fa iniziare la storia con la genesi. Il loro natale è la festa delle origini della vita e del mondo, simbolo del diritto alla differenza e allo stesso tempo dell’unità del  genere umano perché nessuno possa dire: «Mio padre è meglio del tuo».

La rivelazione che fa del popolo ebraico «un popolo di sacerdoti» (‘am kohanim) al servizio di Dio e dell’umanità, non impone la rivelazione mosaica al resto del genere umano. La rivelazione mosaica non abolisce quella più antica (“noachide”), che appartiene a tutti, lasciando che ogni popolo sviluppi in proprio la sua cultura, rispettando alcuni principi indissolubili validi per tutti.

L’appello di Abramo ad abbandonare la sua terra, per dare ascolto all’animo e al cuore, è anche un viaggio interiore.

L’inizio nell’universo ebraico significa che l’altro non ha il ruolo di comparsa, non è riducibile alle nostre proiezioni. Esiste in sé e per sé. Il comandamento biblico di amare il prossimo ha qui un suo preciso significato. Poiché Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, nello sguardo dell’altro è la Divinità che si annuncia e viene incontro. L’offesa contro l’umanità è un oltraggio all’immagine divina. L’offesa contro la natura è un atto di ibris.  E’ per l’amore verso Dio, madre e padre di ogni vivente, che il sentimento della compassione deve essere esteso a ogni creatura.

Contro possibili fraintendimenti sul senso da dare a un comandamento spesso disatteso, Ben Azzai non esita a trovare nel passo biblico sulla storia della famiglia umana («Questo è il libro delle generazioni dell’uomo») il fondamento di ogni cosa. La parola acher, che in ebraico significa altro, si compone di tre lettere che fungono da acrostico. La alef indica l’achariut con cui si intende il sentimento della responsabilità; la chet sta per chaver e chevratiut con cui si indicano l’amico e l’amicizia. Solo se questi due aspetti del comportamento sono stati introiettati l’altro diventa una persona e non una mera proiezione. Chi nella prima infanzia e nell’adolescenza non ha sperimentato il valore dell’amicizia, avrà poi difficoltà a vivere una relazione che non sia meramente utilitaristica e di provare gioia per la sola presenza di una persona cara.

Le benedizioni che Dio rivolge a Israele non escludono gli altri popoli. Il patriarca Abraham è capostipite di popoli e nazioni che in lui sono benedette. Ishma’el (Ismaele), suo primogenito, è nella tradizione ebraica il capostipite dei popoli arabi e islamici. ’Esau (Esaù), primogenito di Itzchaq, il secondo dei patriarchi, è il capostipite dei popoli cristiani.

Anche nella tragedia, l’Ebraismo non ha mai negato ai suoi oppositori la loro umanità. Non era stato Abraham a mettere in discussione il diritto divino a distruggere Sodoma se vi erano dieci giusti7? Ishma’el ed ’Esau, fratelli carnali dei patriarchi di Israele, sono nel Midrash i simboli dell’Islam e del Cristianesimo.

Sin dalla loro apparizione sulla scena storica gli ebrei sono in cammino. La Terra è una promessa che si trasfigura nella nostalgia di un ritorno al futuro in cui realizzare le speranze mancate e le aspirazioni del passato più antico e recente.

Nell’umorismo ebraico la patria può essere un violino, più facile da portare con sé in caso di abbandono forzato. Per parafrasare Heine, il violino è come la Torah, «una patria portatile».

Diaspora ed esilio non sono sinonimi. La diaspora esisteva molto prima che le ultime vestigia di una vita indipendente fossero spazzate via. Quanto all’esilio, anche il più doloroso e devastante, non ha mai distrutto l’amore per la vita e l’aspirazione per un mondo dotato di senso.   

Per i padri fondatori, il sionismo voleva dire recupero di un più antico passato nazionale che riportava gli ebrei dentro la storia. La valorizzazione della Bibbia rispetto al Talmud rientrava in questo quadro perché racconta una teodicea dentro la storia. Il Talmud colloca i personaggi biblici fuori dalla storia, li trasforma in figure archetipiche e in metafore di un discorso situato fuori dal tempo storico, valido in ogni epoca. Che un evento raccontato nel Midrash si svolga due o tremila anni fa ha poca importanza.

Obiettivo del Midrash è l’attualizzazione dell’insegnamento religioso, la drammatizzazione delle ansie della comunità, la gestione delle angosce e delle paure collettive, la loro sublimazione nell’ambito di una visione religiosa della vita.

L’immagine del ritorno conservata nella liturgia è stata caricata, generazione  dopo generazione, di significati nuovi che hanno reso possibile il rinnovamento dell’esistenza e l’immaginazione necessaria per sognare e costruire un futuro diverso quando le condizioni storiche lo hanno reso possibile. Nella prospettiva ebraica è una teshuvah: non solo pentimento, ma anche riparazione, restaurazione esterna ed interna. Il ritorno non è solo al passato ma anche futuro e alle sue promesse mancate.

Combinando le immagini di un passato idealizzato con la speranza in un futuro diverso per l’umanità intera, l’Ebraismo si è rinnovato nei secoli conservando i legami con la storia più antica. Il posto della patria è stato preso da un Libro rinnovato di continuo nei suoi significati.  Nella mistica è il mondo intero a vivere in questa in quest’attesa.

Nella prospettiva della mistica ebraica,  l’esilio (ghaluth) e i silenzi di Dio e la sua eclisse sono un effetto d’ombra che assumerà un altro significato con l’avvento della redenzione (gheullah).

La parentela semantica delle parole galuth e gheullah è per i mistici della Qabbalah una parentela di sostanza. Avendo la Divinità creato il mondo attraverso le lettere, è solo una questione di spostamento simbolico del significato, della capacità di donare senso all’esistenza, anche quando il mondo sembra averlo del tutto perduto, di sognare e immaginare, nonostante tutto un futuro diverso e migliore. 

Di fronte alla tragedia delle persecuzioni il più oppresso dei popoli sa di essere interiormente più libero dei suoi oppressori. Nonostante le apparenze, sono i persecutori e gli oppressori a non essere liberi, perché si sono staccati dalla fonte primaria dell’Essere. Il Dio che si nasconde è tale solo nella confusione prodotta dallo smarrimento e dal dolore. In realtà per l’Ebraismo Dio non è mai assente, anche se in questa presenza può non esservi più nulla delle teofanie trionfali con cui lo spirito ingenuamente religioso ne aveva cercato i segni. Chi bruciava nelle fiamme dei crociati invocando il Dio della vita conservava la libertà interiore. Chi è rimasto fedele ai valori della vita, nonostante la barbarie dilagante, era più libero dei suoi oppressori.  Dio era presente laddove lo si faceva esistere,  e cessava di esistere dove non si faceva esistere.

Il rapporto che la Bibbia intrattiene con la Terra non è di appropriazione, né di saccheggio, né di dominio. A differenza che nelle culture pagane, la Bibbia rifiuta l’idea regressiva di un’origine incontaminata e pura. In contrasto con i culti nazionalisti dell’appartenenza, nella Bibbia la Terra non attribuisce il nome al popolo. Al contrario è il popolo che attribuisce il nome a una terra di cui è solo custode.  

La memoria della condizione straniera in Terra d’Egitto è nella Bibbia un  appello contro la tentazione regressiva dell’idolatria statalista e nazionalista. La condizione straniera, come ripete con insistenza Devarim, è una condizione ontologica che prescinde dalla condizione materiale e dalla sovranità. I popoli che opprimevano gli ebrei non erano liberi. La libertà non si misura sul potere che si ha sugli altri. Quella è la libertà del Faraone, un atto di ibris che conduce il mondo alla catastrofe. 

Abraham è un ebreo (’ivrì) perché è altrove non nel senso fisico e materiale del termine, ma con la mente e con lo spirito. Il suo orizzonte mentale è una giustizia rivolta a tutta l’umanità e che si estende al mondo animale e vegetale. La responsabilità verso il creato è assoluta e la terra è  “in affidamento”.

La terra di Israele è tale perché il patriarca Giacobbe lottò con l’angelo per averne la benedizione.  Il suo nuovo nome rimanda alla Divinità, creatore del cielo e della terra.

Laddove nei nazionalismi moderni, l’appartenenza al popolo e alla terra, appaiono intrecciati e fusi secondo un principio pagano, dove la terra rimanda alla “Grande Madre” e i figli ne sono come un’emanazione, nell’ebraismo il rapporto tra il popolo e la terra non è né di filiazione, né di possesso. Secondo un principio che ha profonde radici nel monoteismo ebraico “di affidamento” e di “responsabile custodia”.

In questa prospettiva il nazionalismo moderno e il culto dello stato sono una nuova forma di paganesimo che mina alle radici il principio che lega fra loro gli esseri umani ed estende il suo odio contro lo Stato di Israele.


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