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Il Foglio Rassegna Stampa
15.11.2013 Iran: da dove viene la ricchezza di Khamenei
e che interessi hanno gli Usa nei negoziati ? Commenti di Daniele Raineri, Eugenio Dacrema

Testata: Il Foglio
Data: 15 novembre 2013
Pagina: 3
Autore: Daniele Raineri - Eugenio Dacrema
Titolo: «Un’inchiesta superba sull’ayatollah da 95 miliardi di dollari - Le ragioni petrolifere dell’appeasement obamiano in Iran»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 15/11/2013, a pag. 3, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Un’inchiesta superba sull’ayatollah da 95 miliardi di dollari", l'articolo di Eugenio Dacrema dal titolo "Le ragioni petrolifere dell’appeasement obamiano in Iran ".
Ecco i pezzi:

Daniele Raineri - " Un’inchiesta superba sull’ayatollah da 95 miliardi di dollari"


Ali Khamenei

Roma. Questa settimana tre giornalisti di Reuters hanno pubblicato in tre parti una lunga inchiesta su Sedat, un conglomerato finanziario iraniano che vale 95 miliardi di dollari e fa capo all’ayatollah Ali Khamenei, autorità suprema del paese. Il lavoro dei tre giornalisti è durato sei mesi e ora è pubblicato in inglese, in farsi – che è la lingua dell’Iran – e in arabo. Ieri è arrivata l’ultima puntata. Sedat è un impero finanziario nato dagli espropri della rivoluzione khomeinista del 1979. Due mesi prima della sua morte, nel 1989, l’ayatollah Khomeini dispose con un documento lungo due paragrafi la creazione di un ente che mettesse ordine tra i beni confiscati o abbandonati dai proprietari in dieci anni di rivoluzione. Sedat vuol dire “il quartier generale” in lingua farsi ed è un’abbreviazione per “il quartier generale per implementare l’ordine di Khomeini”. In teoria l’ente avrebbe dovuto restare in attività soltanto per due anni, il tempo di fare l’inventario dei beni. Ma il successore della prima Guida suprema, l’ayatollah Khamenei, lo ha fatto crescere fino alle dimensioni attuali (il suo valore stimato è pari al prodotto interno lordo del Marocco nel 2012). Sedat è un’organizzazione molto grande ma anche molto opaca e i numeri esatti sui suoi affari sono difficili da ottenere: Reuters ha incrociato le cifre dichiarate dagli iraniani nelle poche occasioni pubbliche in cui dichiarano qualcosa con quelle del dipartimento del Tesoro americano, che tiene sotto osservazione Sedat per la questione delle sanzioni contro il programma nucleare. L’ente funziona grazie a un ufficio centrale che ha circa 500 dipendenti, tutti presi dai ranghi delle agenzie di sicurezza e dei reparti militari, quindi di provata fedeltà alla Guida suprema. Per la prima parte della sua vita Sedat ha tenuto un comportamento passivo e si è limitata ad accumulare i beni sequestrati agli iraniani – Reuters ha documentato molti casi in cui non c’era una ragione legittima per la confisca o in cui i beni non erano stati davvero “abbandonati”, ma sono stati incamerati lo stesso. Poi, a partire dal 2008, c’è stata la decisione di usare la ricchezza enorme – 52 miliardi di dollari soltanto per quanto riguarda le proprietà immobiliari – per investire e per partecipare al controllo delle parti più importanti dell’economia nazionale. La decisione di trasformare Sedat in un investitore attivo è stata presa – spiegano dall’organizzazione stessa – guardando a economie dinamiche come la Corea del sud, il Brasile o gli Stati Uniti. Oggi Sedat possiede quote di maggioranza nella banca privata più grande del paese, nella fabbrica di cemento più grande del paese, nell’impresa di telecomunicazioni più grande del paese e in altre attività economiche che fanno una lista lunghissima e non conosciuta del tutto, che va dalla farmaceutica all’allevamento di ostriche. Grazie a questi investimenti il conglomerato di Khamenei ha continuato a crescere proprio nello stesso periodo in cui l’Iran ha cominciato a soffrire le sanzioni economiche internazionali contro il programma atomico. Il governo iraniano, sorvegliato da Khamenei che ha la massima autorità su ogni decisione, ha sistematicamente legittimato le confische e facilitato le attività di Sedat. La Guida suprema, i giudici e il Parlamento nel corso degli anni hanno emesso una serie di provvedimenti burocratici, interpretazioni costituzionali e sentenze tutte favorevoli al conglomerato. Reuters si chiede perché tutta questa attenzione e cautela con l’apparato legale che rende possibile il sequestro dei beni, considerato che Sedat è un’emanazione diretta di Khamenei, vertice dello stato, che ha potere sulla politica e anche sulle Guardie della rivoluzione, l’arma più efficiente delle Forze armate. Il punto è che una delle accuse fatte al regime dello Scià Reza Pahlavi riguarda le espropriazioni di terre fatte dal padre e poi diventate uno dei leitmotiv della rivoluzione khomeinista contro l’establishment laico e corrotto. Reuters calcola che al momento della sua cacciata lo Scià fu accusato per una somma che oggi, aggiustata con l’inflazione, sarebbe di tre miliardi di dollari. Sedat fa capo a Khamenei e controlla 95 miliardi di dollari. La Guida suprema conduce uno stile di vita frugale e severo che è l’opposto dei fasti dello Scià, ma l’inchiesta sostiene che una parte dei ricavi – che sono privati – va a finire a membri dell’establishment iraniano. Reuters non riesce a specificare chi guadagna da che cosa, ma lascia sospettare un effetto politico di Sedat, oltre che economico. La spinta della rivoluzione khomeinista come causa comune attorno a cui i vertici iraniani si compattano sarebbe andata ormai perduta e sarebbe stata rimpiazzata dalla custodia di questa trama di interessi comuni, alcuni riuniti nel conglomerato. Viene da chiedersi se non è possibile leggere la recente svolta diplomatica dell’Iran – ora più conciliante sul programma nucleare rispetto al passato, almeno a parole – anche alla luce di questi interessi economici fusi dentro Sedat. Per ora, la notizia che la Guida suprema potrebbe essere l’uomo più ricco del mondo non sta suscitando reazioni visibili in Iran. Il distacco dai beni terreni e l’incorruttibilità hanno un fascino particolare su una parte dell’elettorato iraniano – portarono alla presidenza Mahmoud Ahmadinejad – ma sarà sempre più complicato esercitare questo tipo di richiamo.
Proteggere gli interessi dalle sanzioni
L’ayatollah Khamenei ha dato mandato al presidente eletto a giugno, Hassan Rohani, di negoziare con l’occidente la fine delle sanzioni in cambio di un accordo rassicurante sul programma nucleare. Gli americani stanno pensando di rispondere con un pacchetto di alleggerimento che vale 10 miliardi di dollari l’anno, che l’Iran incasserebbe invece che perdere a causa delle misure punitive internazionali. Il ministro israeliano per gli Affari strategici, Yuval Steinitz, teme però che il pacchetto americano sia molto più consistente di quanto sostiene l’Amministrazione Obama e che potrebbe valere il doppio, venti miliardi di dollari, in una prima fase, per poi arrivare fino a 40 miliardi di dollari. Sarebbe una rimozione significativa, perché secondo i calcoli attuali le sanzioni internazionali bloccano l’Iran dall’accesso a una somma di circa 100 miliardi di dollari ogni anno.

Eugenio Dacrema - " Le ragioni petrolifere dell’appeasement obamiano in Iran"

Milano. Quanto vale il “fattore Iran” sul prezzo del petrolio? Gli operatori e gli analisti se ne stanno facendo un’idea in questi giorni. Mentre a Ginevra ottimismo e delusione si alternano durante le trattative sul programma nucleare iraniano, il prezzo del greggio sembra seguire di pari passo gli sviluppi della diplomazia. Da settembre a inizio di novembre il prezzo del brent era infatti rapidamente passato da 117 a 105 dollari. Gli analisti vedevano dietro questo rapido declino il generale clima di ottimismo che si era creato attorno al possibile raggiungimento di un accordo sul nucleare iraniano e la fine (graduale) delle sanzioni internazionali a Teheran. Nei giorni scorsi il brent è però tornato a salire, seppur di poco, in seguito alla battuta d’arresto subita dai negoziati a causa della linea dura francese. La correlazione sembra inconfutabile, e, anche considerando solo gli ultimi tre mesi, si può affermare con ragionevole precisione che la “distensione” di questo periodo vale almeno 10 dollari al barile. Più difficile capire quanto può valere sul mercato petrolifero il raggiungimento di un accordo definitivo e la fine delle sanzioni. Nonostante la crisi e la frenata della domanda, a bloccare la discesa dei prezzi è intervenuta negli ultimi tre anni l’instabilità causata dai moti della cosiddetta “primavera araba” che ha causato nuove tensioni e interruzioni nelle esportazioni di produttori grandi (Libia) e piccoli (Siria, Yemen). Sullo sfondo di questi avvenimenti la minaccia iraniana non ha mai cessato di essere un fattore di ulteriore destabilizzazione, soprattutto in contesti come il Bahrein e la Siria. Secondo le opinioni raccolte tra i trader americani intervistati dalla Cnbc, negli ultimi anni la reiterata minaccia di chiusura dello stretto di Hormuz e le tensioni causate dal programma nucleare iraniano sarebbero pesate per circa 10-15 dollari sul prezzo totale del greggio. Se esse dovessero venire meno con la normalizzazione dei rapporti con l’occidente, il brent tornerebbe quindi stabilmente intorno – se non sotto – i 100 dollari al barile: un prezzo alto, ma assai più abbordabile di quello cui siamo abituati. Non solo. Al venire meno del puro “premio di rischio” determinato dalle tensioni politiche si accompagnerebbe, inoltre, il riversamento sul mercato internazionale di quelle quote di produzione iraniana di cui le sanzioni hanno finora impedito la vendita. Secondo la US Energy Information Administration, la quantità di produzione iraniana che rimane invenduta quotidianamente a causa delle sanzioni sarebbe di oltre 500 mila b/g, una cifra notevole in un mercato già caratterizzato da un’offerta in costante crescita e una domanda stagnante. Una normalizzazione dei rapporti tra occidente e Iran non significa, quindi, solo maggiore stabilità nella regione e minori rischi di futuri conflitti. Significa, nell’immediato, soprattutto una boccata d’aria per l’economia internazionale, la cui ripresa è frenata dagli alti costi dell’energia. Non c’è da sorprendersi se altri grandi paesi produttori come l’Arabia Saudita stanno facendo fuoco e fiamme per evitare il riavvicinamento fra Washington e Teheran. Dietro la paura di Riad di vedere il grande rivale iraniano guadagnare riconoscimento internazionale per il proprio programma nucleare si nasconde anche il timore che tutto questo si traduca in un crollo dei prezzi del petrolio dai quali dipende la stabilità economica e politica del regno saudita e delle altre monarchie petrolifere del Golfo. Anche la partita della distensione tra occidente e Iran avrebbe quindi i suoi vincitori e i suoi vinti. A beneficiarne sarebbero i paesi importatori, Italia compresa.

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