Iran: chi ha tutto da guadagnare dalla sospensione delle sanzioni commenti di Maurizio Molinari, Daniele Raineri, Paola Peduzzi
Testata:La Stampa - Il Foglio Autore: Maurizio Molinari - Daniele Raineri - Paola Peduzzi Titolo: «Dal petrolio alle ostriche. L’impero di Khamenei vale 95 miliardi di dollari - L’Iran esagera a Ginevra (e Khamenei controlla un mostro finanziario) - Vive la France»
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 12/11/2013, a pag. 17, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Dal petrolio alle ostriche. L’impero di Khamenei vale 95 miliardi di dollari ". Dal FOGLIO, a pag. 1-4, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " L’Iran esagera a Ginevra (e Khamenei controlla un mostro finanziario)", preceduto dal nostro commento, l'articolo di Paola Peduzzi dal titolo " Vive la France ". Ecco i pezzi:
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Dal petrolio alle ostriche. L’impero di Khamenei vale 95 miliardi di dollari "
Maurizio Molinari Ali Khamenei
Ammonta a circa 95 miliardi di dollari l’impero economico che fa capo al Leader Supremo della rivoluzione iraniana, Ali Khamenei, e potrebbe essere il maggiore beneficiario della riduzione delle sanzioni internazionali in caso di accordo a Ginevra sul nucleare.
La stima del valore della «Setad» - acronimo persiano per «Quartier generale per l’esecuzione dell’ordine dell’imam» - è frutto di un’inchiesta di «Reuters» sull’organizzazione che venne creata dall’ayatollah Khomeini poco prima della sua morte nel 1989 a fini di beneficenza per i poveri, i veterani e le vittime delle guerra Iran-Iraq, sfruttando le proprietà abbandonate dopo la rivoluzione del 1979. Ma anziché essere dissolta dopo 24 mesi, come era stato previsto da Khomeini, è arrivata quasi al traguardo di un quarto di secolo diventando la base economica del potere politico-militare di Ali Khamenei. Sono i documenti della «Setad» depositati presso la Banca Centrale di Teheran e le indagini condotte dal ministero del Tesoro americano a descrivere le caratteristiche di questo imponente complesso economico-finanziario: investimenti per 52 miliardi di dollari nel settore immobiliare, in 37 aziende colpite da sanzioni Usa inclusa una dal valore di 40 miliardi di dollari, in una ventina di imprese pubbliche per 3,4 miliardi di dollari e in 24 società di beneficenza. Dal petrolio agli anticoncezionali, dalla coltivazione delle ostriche alla finanza «Setad» è presente in maniera significativa. Lo scorso giugno il ministero del Tesoro Usa ha esteso a tutte le attività della «Setad» le sanzioni considerandola un «network massiccio composto da aziende che celano proprietà per conto della leadership iraniana». La dinamica che ha portato Khamenei ad accumulare una tale fortuna è, secondo l’indagine di «Reuters», basata soprattutto sulla requisizione di proprietà appartenenti a cittadini espatriati, oppositori, minoranze discriminate - come i Baha’i - che vengono inserite negli elenchi della «Setad» e poi messe all’asta fruttando decine di milioni di dollari. Nello scorso maggio circa 300 immobili sono stati venduti all’asta in questa maniera, portando ad entrate per oltre 88 milioni di dollari. «Ciò che distingue questo impero economico è l’assenza di supervisione sulle decisioni gestionali da parte del Leader Supremo», afferma Naghi Mahmudi, giurista iraniano espatriato in Germania nel 2010, ma Hamid Vaezi, portavoce di «Setad» a Teheran, smentisce numeri, entità e interpretazione dei dati diffusi, parlando di «descrizione scorretta, lontano dalla realtà». Colpisce il fatto che 95 miliardi di dollari è una cifra superiore del 40 per cento all’export annuale di greggio dall’Iran - 67,4 miliardi di dollari - e assai maggiore alle fortune che vennero attribuite nel 1979 al deposto Shah di Persia, stimate in 3 miliardi di dollari attuali. Né il governo Usa né l’inchiesta «Reuters» accusano però Khamenei di essersi personalmente arricchito, indicando nella «Setad» soprattutto uno strumento di consolidamento del potere, che somma gli aspetti religiosi al controllo delle Guardie rivoluzionarie incaricate di sviluppare e proteggere il programma nucleare. Proprio alla «Setad» è dedicato uno studio della «Foundation for Defense of Democracies» (Fdd) di Washington, secondo cui sarebbe «il principale beneficiario dell’alleggerimento delle sanzioni» perché «le entità riconducibili a Khamenei e alle Guardie rivoluzionarie controllano i settori auto, aerei ed energia» destinati a essere premiati da un’intesa a Ginevra. A redigere lo studio della «Fdd» è Emanuele Ottolenghi, l’analista che in primavera ha rivelato la presenza in Germania di una fabbrica di serbatoi per veicoli ibridi controllata proprio dalla «Setad». «Il network di Khamenei va dalla distribuzione auto all’immobiliare, dalle telecomunicazioni alle miniere - conclude Ottolenghi - per un totale di almeno 36 imprese quotate alla Borsa di Teheran».
Il FOGLIO - Daniele Raineri : " L’Iran esagera a Ginevra (e Khamenei controlla un mostro finanziario) "
Daniele Raineri Ali Khamenei
Sotto al titolo si legge "Molto peggio che lo Scià" un'affermazione che stupisce perché lo Scià stava modernizzando il Paese, motivo per cui si trovò contro la teocrazia dei mullah di Khomeini. La trasformazione della Persia in Iran avvenne con la cacciata dello Scià, grazie all'appoggio del governo francese che si illudeva di sotituire gli Usa nell'economia del Paese. Naturalmente questo non avvenne, come sempre succede con le utopie di un Occidente sempre più cieco e diviso.
Roma. Ci sono due versioni sul fallimento dei negoziati nucleari con l’Iran a Ginevra. Il Wall Street Journal e il New York Times scrivono che l’impossibilità di raggiungere un accordo è da imputare all’Iran, che ha preteso troppo. A un certo punto, spiegano fonti diplomatiche, c’è stata l’impressione che si fosse vicinissimi all’intesa, che le interminabili sessioni a porte chiuse all’Intercontinental Hotel stessero per avere un risultato, che soltanto poche parole di differenza ci separassero dagli iraniani, poi i negoziati sono naufragati: in particolare, è stata l’insistenza da parte del governo di Teheran a vedere riconosciuto il suo “diritto all’arricchimento dell’uranio”, senza peraltro specificare a quale grado (l’uranio a basso grado di arricchimento serve per uso civile, ma oltre una certa soglia può essere utilizzato per fare un’arma atomica). E’ il punto su cui Israele sta facendo lobbying al contrario: il premier Benjamin Netanyahu sostiene che il processo di arricchimento dovrebbe essere trasferito all’estero, per poter essere meglio controllato: l’uranio sarebbe arricchito fuori e poi consegnato all’Iran. Washington ha una posizione intermedia, vorrebbe discutere a quali condizioni e con quali tempi consentire all’Iran di arricchire, ma considera prematuro ed eccessivo parlare di “diritto” iraniano. Non si tratta dunque di un colpo di mano dei francesi, dice il dipartimento di stato americano, ma di una decisione presa in comune dal gruppo dei Cinque più uno per non cedere alle condizioni troppo ambiziose poste da Teheran. Foreign Policy scrive che il fallimento è stato voluto dalla Francia. Il ministro degli Esteri, Laurent Fabius, ha in effetti violato il protocollo sabato pomeriggio, parlando alla radio dei negoziati e dicendo in buona sostanza che la Francia non ci sarebbe cascata. I francesi hanno una conoscenza molto più particolareggiata rispetto agli altri del programma atomico iraniano, anche perché hanno contribuito a fondarlo. In particolare, il governo di Parigi vuole che sia fermata la costruzione del reattore al plutonio di Arak. Quel reattore è in bilico sulla linea dell’irreversibilità (un concetto chiave nei negoziati con l’Iran). Arak in teoria entrerà in funzione nel 2014 e potrà produrre plutonio a partire dal 2015 e l’Iran non ha ancora un impianto per convertire quel plutonio all’uso militare, quindi sembra esserci ancora margine per trattare. I francesi sostengono però che una volta in funzione quel reattore non potrà essere bombardato, perché il plutonio si disperderebbe e sarebbe una catastrofe per la popolazione. Per questo insistono sullo stop preventivo. Gli israeliani sostengono che l’accordo che stava per essere raggiunto a Ginevra era sostanzialmente diverso da quello presentato a loro dal segretario di stato americano, John Kerry. Così dice il ministro dell’Intelligence di Gerusalemme, Yuval Steinitz, al giornalista Barak Ravid del quotidiano Haaretz. L’accusa è grave, ma ieri Netanyahu ha provato a calmare il clima: “Con gli americani condividiamo l’obiettivo comune di prevenire un Iran nucleare”, ha detto. I negoziati riprendono fra dieci giorni, non vi parteciperanno più i ministri degli Esteri ma delegati di livello inferiore. Gli americani spingono per una soluzione in due tempi: un pre-accordo che durerà per sei mesi e che otterrà una pausa nel programma nucleare iraniano, il tempo sufficiente per lavorare a un accordo definitivo. La finestra di opportunità non è infinita e la sensazione è che se questa volta l’accordo non sarà raggiunto allora vuol dire che non può essere raggiunto.
Le tasche profonde dell’Ayatollah Ieri Reuters ha pubblicato il risultato di un lavoro investigativo di sei mesi che ha per oggetto Setad, un’organizzazione finanziaria che fa capo alla Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei e che controlla beni per la cifra di 95 miliardi di dollari (come il pil 2012 del Marocco. Oppure, per prendere un altro termine di paragone, è un numero il 40 per cento più alto dell’intero ricavato dalla vendita di greggio iraniano l’anno scorso). La fonte della ricchezza di Setad sono soprattutto le proprietà tolte agli iraniani dal governo e non avrebbe dovuto operare per più di due anni: adesso ha un ufficio di 500 dipendenti, presi dalle agenzie di sicurezza. Setad investe i suoi soldi nel controllo di quote di imprese nazionali e nel generare nuovi dividendi, che vanno alla leadership iraniana. Il pezzo di Reuters spiega che il paragone con lo scià, accusato di corruzione e di intascare ricchezze nazionali, non è corretto: Reza Pahlavi si era appropriato “soltanto” di 3 milioni di dollari, aggiustando la cifra all’inflazione attuale.
Il FOGLIO - Paola Peduzzi : " Vive la France "
Paola Peduzzi, François Hollande
Milano. “Ni isolée ni suiviste”, ha detto ieri il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, spiegando lo stop voluto da Parigi all’accordo sul nucleare iraniano a Ginevra. Non sono isolati ma non seguono il gregge, i francesi, e così il mondo s’è capovolto: i falchi americani, messi tutti in un unico calderone neocon dal Monde, festeggiano la decisione francese ritmando “Vive la France”, mentre le colombe boicottano le french fries – tutto il contrario di quel che accadde con la guerra in Iraq, insomma. E’ circolato un tweet domenica attribuito alla Guida suprema iraniana, Ali Khamenei, che è pessimista sull’accordo nucleare (così ha detto qualche settimana fa) ma non tollera che i francesi si mettano di traverso: “I francesi sono stati apertamente ostili nei confronti della nazione iraniana negli ultimi anni. E’ una mossa imprudente e inetta”, e ancora: “Un uomo saggio, in particolare un politico saggio non deve mai sentirsi motivato a trasformare un’entità neutrale in un nemico”. I tweet erano in inglese, non è stata confermata la paternità, ma a marzo in un discorso pubblico Khamenei si era già grandemente lamentato delle prese di posizione di Parigi. Nei palazzi della diplomazia francese gira voce che l’approccio “tutto-e-subito” di Washington con l’Iran aperturista non può essere adottato anche da Parigi. Ma tutti si chiedono: perché? Com’è che la Francia è diventata la nazione più interventista di tutto l’occidente? Quando ancora c’era il presidente gollista Nicolas Sarkozy, Parigi ha voluto il regime change in Libia contro Muammar Gheddafi; con l’arrivo del socialista François Hollande all’Eliseo c’è stata la guerra in Mali contro al Qaida, la presa di posizione – con tanto di aerei pronti a colpire – contro il regime siriano di Bashar el Assad (poi finita in nulla), e ora la freddezza con l’Iran. La spiegazione di questa strategia sta nelle pieghe dell’identità francese, nell’assenza di una politica estera americana, e anche – soprattutto, secondo i detrattori – nel rapporto con la corte reale saudita. Alcuni esperti interpellati da giornali internazionali, come François Heisbourg del think tank Fondation pour la Recherche Stratégique, dicono che i francesi sono fatti così, sono irritanti a volte, si sa, se gli americani vogliono fortemente una cosa, loro devono trovare un modo per dissociarsi. Se si pensa che su questo dossier anche i tedeschi, contro i quali l’insofferenza a Parigi è palpabile, sono ben predisposti ad aprire a Teheran, il quadro è completo. Ma qui siamo ancora nell’ambito dei cliché. A parole Hollande continua a confermare la perfetta sintonia con Barack Obama, ma quel che è accaduto sulla questione siriana ha quasi stroncato l’Eliseo: a fine agosto, erano tutti d’accordo sul fatto che Assad non poteva rimanere impunito, il segretario di stato John Kerry aveva parlato di “oscenità morale” da parte di Damasco, lo strike era imminente. Ma Obama decide di aspettare l’autorizzazione del Congresso, il momentum svanisce, e Hollande s’è trovato a dover difendere, questa volta isolato per davvero e al di fuori del gregge, una guerra che poi non è stata fatta, ché i francesi da soli nulla potevano né possono in Siria. E’ riuscito a evitare un voto vincolante all’Assemblea nazionale, che avrebbe distrutto la sua credibilità interna, già fortemente ammaccata, ma sostenere da solo il peso dell’interventista non è affatto facile per Hollande. Certo, ad aiutarlo ci sono i sauditi. Come è noto, la corte di Riad ha fatto di tutto per convincere Obama ad attaccare la Siria – l’obiettivo finale è contenere l’Iran – e quando pensava di avercela fatta s’è scontrata con l’ennesimo passo indietro di Washington. Il Wall Street Journal ha dato voce all’ira del principe Bandar bin Sultan, capo dell’intelligence saudita, il quale ha invitato a metà ottobre a Gedda “un diplomatico occidentale” per riorganizzare la strategia contro il regime di Damasco e notificare all’America tutto il suo scontento. Quel diplomatico era francese, e in quell’incontro s’è parlato di un accordo militare ulteriore rispetto a quello già siglato a luglio del valore di un miliardo di euro. Se all’asse con i sauditi si aggiunge che Parigi ha stretto i rapporti con Israele – Hollande parlerà alla Knesset lunedì prossimo, commercio e cooperazione sulla difesa vanno alla grande tra i due paesi – il complotto è presto confezionato: la Francia non è mossa da buone intenzioni, ma vuole ingraziarsi i sauditi e le monarchie del Golfo Persico che così parteciperanno più volentieri al bailout della Francia in crisi.
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