Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 11/11/2013, a pag. 14, l'articolo di Stefano Montefiori dal titolo " La Francia «neocon» che spiazza il mondo ". Dalla STAMPA, a pag. 1-28, l'articolo di Roberto Toscano dal titolo " Le pericolose ambizioni della Francia ", preceduto dal nostro commento.
Ecco i pezzi:
CORRIERE della SERA - Stefano Montefiori : " La Francia «neocon» che spiazza il mondo "
François Hollande
PARIGI — Il demonio a Teheran oggi è Le Grand Satan , la Francia, che ha strappato all’America il primato di nemico occidentale preferito.
A Los Angeles invece «Stasera mangio French Fries », esulta l’ex portavoce americano alle Nazioni Unite, Richard Grenell, che 10 anni fa si indignava per il no di Chirac e Villepin alla guerra in Iraq e partecipava alla campagna di odio anti-francese (tra boicottaggio delle patatine al Congresso e litania di insulti ai «francesi arrendevoli scimmie mangiarane»)
I tempi sono cambiati. I falchi della politica internazionale sembrano non volare più a Washington ma a Parigi, e su tutti i dossier più delicati, dalla Siria all’Iran: il 31 agosto il presidente Hollande aveva già deciso per i raid aerei su Damasco, ed è stata solo la marcia indietro di Barack Obama a fargli disarmare i missili Rafale già pronti a colpire. La fiaccola del regime change , la formula neocon applicata dieci anni fa a Bagdad, è ora impugnata da Parigi, la prima a proclamare già un anno fa che «Bashar Assad se ne deve andare» da Damasco.
In Africa, dal Mali alla Repubblica Centrafricana, la Francia è in prima linea. In Medio Oriente è la Francia a tenere il discorso più intransigente sull’Iran, a evocare l’uso della forza per costringere gli ayatollah a rinunciare alla bomba atomica, mostrandosi in questo più vicina a Israele di quanto non faccia l’America, alleato storico dello Stato ebraico.
Il ruolo di baluardo degli interessi e valori dell’Occidente, almeno nel gioco diplomatico e della visibilità mediatica, sembra essere passato dagli Stati Uniti — che vogliono guidare from behind , dalla retroguardia — alla Francia, che teorizza il suo essere una «potenza di influenza»: con poche armate e pochissimi droni, è vero, ma con una rinnovata determinazione politica.
Così succede che Laurent Fabius sia giudicato il maggiore se non l’unico responsabile della mancata intesa alla fine dei colloqui di Ginevra tra i «5 + 1» ( Stati Uniti, Cina, Regno Unito, Francia, Russia più Germania) e Iran. La Francia non si è fidata delle aperture del ministro iraniano Zarif, e ha preteso una rinuncia esplicita al reattore di Arak, che una volta completato potrebbe fornire il plutonio sufficiente per fabbricare ordigni nucleari e rendere così ininfluente l’addio iraniano all’arricchimento dell’uranio.
Il Quai d’Orsay sostiene che nella bozza di accordo provvisorio — di una durata di sei mesi — discussa a Ginevra l’Occidente allentava sì le sanzioni all’Iran, ma in cambio non otteneva alcuno strumento concreto per fermare il programma atomico degli ayatollah. Meglio nessun accordo che un cattivo accordo, e Fabius si è precipitato ad annunciarlo per primo alla radio France Inter. Una esposizione di cui gode ora frutti, e svantaggi.
Il ministro degli Esteri francese raccoglie gli inabituali complimenti degli americani intransigenti — «La Francia ha avuto coraggio. Vive la France! » (il senatore conservatore John McCain) — e gli insulti di tanti iraniani che sabato notte si aspettavano l’inizio di una nuova era nei rapporti tra Teheran e l’Occidente.
Sul conto Twitter attribuito alla Guida suprema Ali Khamenei ieri sono ricomparse parole pronunciate a marzo, con le quali definiva «imprudente e inetta» l’ostilità francese verso l’Iran. E a Fabius arrivano via Facebook minacce in inglese e in persiano: da «occupiamo l’ambasciata francese a Teheran» a — di nuovo, ma stavolta all’altro capo del mondo — «boicottiamo le French Fries».
La STAMPA - Roberto Toscano : " Le pericolose ambizioni della Francia "
Roberto Toscano
Toscano, da sempre molto favorevole ai negoziati con l'Iran, è molto critico con la Francia per aver bloccato le trattative sul nucleare.
Tutto il pezzo è una lode a Rohani-moderato, come se non fosse sempre Khamenei a decidere su tutto.
Toscano sostiene che già una decina di anni fa ci fossero le premesse per negoziare grazie a Khatami (definito anche lui, a torto, 'moderato) e che fosse saltato tutto per colpa di Bush (e di chi, se no?).
Intanto, mentre l'Occidente si lascia incantare dalla presunta moderatezza di Rohani (che, comunque, ha definito Israele "cancro da estirpare", proprio come hanno fatto tutti i suoi predecessori), il programma nucleare degli ayatollah procede indisturbato.
Ecco il pezzo:
Smentendo le aspettative che si erano diffuse negli ultimi giorni, i negoziati di Ginevra non hanno permesso di raggiungere un accordo su un testo di «intesa provvisoria» che avrebbe aperto la via per la soluzione della complessa questione nucleare iraniana, da cui dipenderà una parte molto significativa di quello che avverrà nella regione – e anche oltre – nei prossimi mesi.
L’ottimismo non era certo frutto di un’illusione, tanto è vero che era condiviso da commentatori ed esperti che sarebbe difficile catalogare fra gli idealisti.
Era anzi il più concreto realismo a fare ritenere che fossero finalmente riunite le condizioni politiche tali da rendere possibile un’intesa i cui profili erano evidenti sotto il profilo tecnico già da dieci anni, quando però il riformista Mohammad Khatami si trovava di fronte l’unilateralista George W. Bush, convinto della possibilità che il regime iraniano fosse destinato ad essere spazzato via subito dopo quello di Saddam Hussein.
Leadership (Obama da una parte, Rohani dall’altra), interessi nazionali e contesto internazionale hanno infatti ultimamente creato una congiunzione favorevole, anche se fragile ed esposta a critiche e contestazioni da parte di poderosi avversari.
Il laconico annuncio congiunto di domenica mattina da parte dei capi delle due delegazioni, Lady Ashton e il ministro degli Esteri iraniano Zarif, ci informa semplicemente di un processo negoziale che continuerà prossimamente sulla base dei buoni risultati già conseguiti.
Nello stesso tono positivo si è espresso il Segretario di Stato Kerry, che ha sottolineato che la tornata negoziale ha permesso di ridurre le divergenze, chiarire le tematiche discusse e avanzare in modo significativo verso possibili soluzioni.
Fin qui il livello ufficiale, il comprensibile intento di preservare gli spazi per un accordo ancora possibile e che le parti continuano a perseguire.
Ma la delusione è evidente, l’inquietudine anche. Chi scrive ha cominciato a ricevere allarmati messaggi da amici iraniani certo non sospettabili di simpatie per il regime, ma che si rendono conto del fatto che un fallimento del tentativo di soluzione della questione nucleare sarebbe l’inizio della fine per il progetto di apertura (non solo internazionale, ma anche interna) su cui hanno riposto la speranza di poter finalmente vivere in quello che loro stessi chiamano «un Paese normale», più democratico e meno isolato. Un progetto che suscita le forti ostilità delle ali più radicali del regime, mentre il Leader Supremo Khamenei ha dato a Rohani e alla sua squadra un mandato non certo illimitato nel tempo, oltre che accompagnato da uno scetticismo di fondo sulla buona volontà dell’avversario che un fallimento non farebbe che convalidare. Al riguardo risulta molto significativo che Rohani, dopo la notizia del mancato accordo a Ginevra, si sia recato al Majlis per assicurare i parlamentari (e non solo loro) che il suo governo, pur impegnato nella ricerca di un accordo, «non piegherà mai la testa di fronte a nessun potere, nessuna pressione».
Ma cos’è andato storto? Per capirlo basta ascoltare l’intervista che il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius ha rilasciato alla Radio France Inter alle 8 della mattina di sabato. Non solo, saltando tutte le regole di un negoziato collegiale, Fabius ha rivelato quali fossero le difficoltà che non era risultato possibile superare (la questione della centrale ad acqua pesante di Arak e le regole sugli stock di uranio arricchito già accumulate dall’Iran), ma si è espresso in termini così apertamente negativi da rivelare una sostanziale opposizione ai termini di una possibile intesa che stavano emergendo a Ginevra. Con una significativa coincidenza con quanto dichiarato un giorno prima da Netanyahu – secondo cui l’Iran stava per portare a casa «l’accordo del secolo», mentre i 5+1 stavano per sottoscrivere un pessimo affare – Fabius ha espresso per ben due volte il timore che potesse concretarsi un «accordo da allocchi» (il termine francese usato è dupes, che potremmo correttamente anche rendere con il meno obsoleto, anche se più volgare, «fessi»).
E c’è di più. Sappiamo da alcune indiscrezioni che prima che i negoziati si concludessero Kerry aveva fatto la spola fra Fabius e Zarif alla ricerca, in extremis, di formule capaci di sbloccare la situazione. Possiamo dire di avere ormai visto di tutto, in questo nostro mondo «post-postmoderno»: anche gli Stati Uniti colombe che cercano di placare i falchi francesi.
Il fatto è certo straordinario, ma non sorprendente. In primo luogo chi si è occupato fin dalle prime battute, dieci anni fa, del negoziato con l’Iran sulla questione nucleare (agli inizi, condotto dagli «Eu3»: Regno Unito, Francia, Germania), sa che Parigi è sempre risultata la più intransigente, molto di più – sorprendendo gli iraniani, affezionati cultori dello storico mito della Perfida Albione – di Londra. Più sensibile degli altri rispetto alla minaccia di un’atomica iraniana? Difficile crederlo, mentre è invece inevitabile ritenere che per la Francia l’appartenenza al ristretto club nucleare sia un privilegio da difendere, un lasciapassare esclusivo per uno status mondiale di cui le altre componenti, per la Francia, non sono certo più quelle di una volta.
Ma non si tratta solo di nucleare. Basti ricordare la Libia, e il ruolo di assoluta protagonista che la Francia ha svolto nel promuovere un intervento esterno per eliminare Mouammar Gheddafi.
C’è da sperare che i risultati di questo protagonismo francese non siano altrettanto disastrosi di quelli prodotti dall’intervento in Libia. Non ci manca certo «l’amico Mouammar», ma il fatto è che oggi la Libia è in mano a bande armate, immersa nella violenza e nella più totale illegalità, le esportazioni di energia sono ridotte ai minimi termini e, come se non bastasse, sul suo territorio si muovono indisturbati gruppi estremisti e bande terroriste.
Il negoziato con l’Iran va certo condotto con tutta la necessaria cautela e nella tutela dei principi e delle regole sulla non proliferazione, ma sarebbe assurdo che dall’Europa venisse una delegittimazione ad un tempo del Presidente americano e di quello iraniano, entrambi sinceramente (anche se per ragioni diverse) convinti che l’unica alternativa a un’intesa sia il rischio di un’ulteriore destabilizzazione a livello regionale, e forse anche di una nuova guerra.
I giochi sono ancora aperti, ma non ce la sentiamo davvero di dire grazie alla Francia. Gli applausi non le mancheranno comunque: verranno dal governo israeliano e da quello saudita, che non hanno mai fatto mistero della convinzione che gli ingenui americani stessero per farsi abbindolare dai diabolici iraniani.
Due governi che temono la pace con l’Iran più di una guerra con l’Iran.
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