Ginevra, stanno per iniziare i colloqui tra le democrazie occidentali e la teocrazia iraniana, con il contorno di dittature varie. Riprendiamo la Cronaca di Cecilia Zecchinelli sul CORRIERE della SERA di oggi, 09/11/2013, i commenti di Fiamma Nirenstein sul GIORNALE, Maurizio Molinari sulla STAMPA, Franco Venturini ancora dal CORRIERE della SERA, e per finire un editoriale dal FOGLIO. Alcuni pezzi prceduti dal nostro commento.
Corriere della Sera-Cecilia Zecchinelli: " I capi delle diplomazie a Ginevra , a un passo dall'accordo con l'Iran"
Arriva Kerry
Le attese del mondo per la firma già ieri di uno storico accordo sul nucleare iraniano sono state parzialmente deluse, smentendo le previsioni ottimistiche del ministro degli Esteri di Teheran Mohammad Zarif. Ma a Ginevra, dopo due giorni di fitti negoziati, ieri notte sembrava vicina l’intesa che per la prima volta da oltre un decennio aprirebbe la via a risultati concreti: la sospensione delle attività nucleari iraniane e il simmetrico annullamento delle sanzioni contro la Repubblica islamica. Obiettivi ancora lontani in realtà: oggi, se sarà oggi, ci arriverà solo a un accordo preliminare, una sorta di «test» con parziale congelamento del programma atomico di Teheran e parziale allentamento del blocco finanziario-economico imposto dalla comunità internazionale. Ma sarà, se sarà, un inizio cruciale. Anche perché raggiunto nonostante le fortissime opposizioni interne ai due fronti: i falchi iraniani, contrari a qualsiasi concessione da parte del nuovo presidente Hassan Rouhani, a cui viene dato merito dell’inedita disponibilità di Teheran; e storici alleati dell’Occidente come Israele e Arabia Saudita, affiancati da parte del Congresso Usa nel «no» ad accordi che non impongano l’immediato e assoluto stop al nucleare di Teheran. Soprattutto Israele ha messo in chiaro che un’intesa ad interim sarebbe un «errore storico»: lo Stato ebraico, ha detto il premier Benjamin Netanyahu, non si sentirà vincolato dall’accordo e «farà tutto il necessario per difendersi», alludendo a un possibile attacco preventivo. Nella notte Barack Obama lo ha chiamato, riaffermando la volontà Usa di «arrivare a una soluzione pacifica, di impedire all’Iran di arrivare all’atomica».
«Restano importanti differenze che speriamo di superare», ha messo in guardia ieri John Kerry, il segretario di Stato Usa che ha interrotto la missione in Medio Oriente per precipitarsi a Ginevra. Presenti anche i ministri degli Esteri francese Laurent Fabius, tedesco Guido Westerwelle e britannico William Hague, oltre a Catherine Ashton, capo della diplomazia Ue. E oggi arriverà pure il russo Sergei Lavrov seguito da un viceministro cinese. Ovvero la massima rappresentanza del «5+1», il gruppo formato nel 2006 dai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu più la Germania per trattare sull’atomica con Teheran, rappresentata a Ginevra da Zarif.
Dalle delegazioni poco è trapelato, se non cauto ottimismo e qualche dettaglio su cui si lavora ancora tra ostacoli politici e tecnici. La richiesta dei «5+1» sarebbe un blocco di sei mesi al nucleare, difeso dall’Iran come civile ma sospettato di fini militari. In particolare lo stop riguarderebbe tre dossier: la costruzione del reattore ad acqua pesante di Arak, in grado di fornire plutonio con uranio non arricchito; le 19 mila centrifughe attive e la costruzione delle nuove «Ir-2»; le scorte di uranio al 20%. A fronte di concessioni da parte di Teheran in questi tre campi, i «5+1» scongelerebbero 50 miliardi di dollari, frutto soprattutto della vendita di petrolio iraniano, bloccati in banche mondiali. Le stime dei fondi a cui Teheran non può accedere variano dai 60 ai 100 miliardi, secondo le recenti dichiarazioni delle stesse autorità iraniane. Solo in Cina, primo acquirente di greggio, vi sarebbero 47 miliardi, 25 dei quali trasferiti da Teheran dalle più intransigenti banche europee tra il 2006 e il 2011. L’opacità dell’Iran, nonostante la nuova apertura, preoccupa molti in vista delle necessarie verifiche a cui la probabile intesa dovrà sottoporsi. Ed è per questo che lunedì arriverà a Teheran il capo dell’Agenzia atomica dell’Onu, Yukiya Amano. In passato l’Aiea aveva incontrato mille ostacoli alle sue ispezioni. L’accoglienza che troverà ora sarà un ulteriore test.
Il Giornale-Fiamma Nirenstein: " Netanyahu furioso per l'imminente intesa Usa-Iran"
Ormai è questione di ore, l'accordo con l'Iran sull'arricchimento nucleare e quindi l'alleggerimentodelle sanzioni che fino a oggi lo hanno colpito sembrano molto vicini. Si parla di «un primo accordo temporaneo» per cui l'Iran congelerebbe per sei mesi buona parte delle sue attività nucleari, e in cambio potrebbe accedere di nuovo ai suoi conti bloccati e riaprire i commerci in oro e petrolchimici.
Gli atteggiamenti che accompagnano le ultime ore di discussione a Ginevra sono molto diversi: l'entusiasmo della baronessa Ashton, ministro degli Esteri dell'Ue, traspare da tutti i pori, la si vede aggirarsi per i colloqui con un luminoso sorriso. Il ministro degli esteri Mohammed Javad Zarif, che ha avuto un incontro decisivo ieri mattina con la Ashton è cortese, solenne, sopporta sorridente il contatto con un mondo che il suo regime disprezza, e a cui proprio ieri la manifestazione religiosa centrale del venerdì a Teheran ha dichiarato inimicizia sempiterna. Ha l'aria di uno che sta là per fare un piacere e deve dimostrare insieme apertura e senso di superiorità sull'Occidente. È arrivato ieri in mezzo ai colloqui John Kerry, che invece, sia agli occhi del mondo che a quellidel Congresso non contento della ennesima cedevolezza di Obama, fa la parte di chi dimostra il senso di responsabilità degli Usa: infatti in una conferenza stampa ieri sera ha detto che l'accordo ancora non c'è, si è dimostrato cauto e severo, ha detto che si discutono aggiustamenti significativi.
Probabilmente il tono è stato dettato dall'atteggiamento del quarto attore, stavolta assente da Ginevra, ovvero il primo ministro dello Stato d'Israele Bibi Netanyahu. Raramente Bibi ha dimostrato con l'espressione del viso, il linguaggio del corpo e la durezza delle parole un simile stato di oltraggio. Ha detto che l'Iran «ha fatto l'affere del secolo, mentre il mondo ha fatto un pessimo affare », che «è logico che gli iraniani girino per Ginevra con l'aria soddisfatta, perché hanno avuto tutto e non hanno dato niente. Hanno avuto un sollievo dalle sanzioni senza rinunciare all'arricchimento nucleare». Netanyahu ha aggiunto, molto scuro in volto, di rifiutare l'accordo, che Israele non se ne sente obbligato e farà tutto quello che è necessario per difendere la sicurezza del suo popolo. Su Netanyahu pesa il senso di abbandono che gli comunicano gli Stati Uniti: in questi giorni, inaspettatamente, Kerry ha anche rovesciato su Israele, proprio dopo la sofferta liberazione dei terroristi pattuita con Abu Mazen, la responsabilità del rischio di rottura dei colloqui, e ha parlato addirittura di una terza Intifada, un'uscita molto minacciosa.
Ora molto più minacciose sono le clausole dell'accordo che sta per essere raggiunto. L'Iran non cesserà l'arricchimento dell'uranio, non consegnerà se non una parte dell'uranio arricchito, non cesserà di utilizzare il plutonio. L'arricchimento dell'uranio solo fino al 20 per cento, data l'accumulazione del minerale precedentemente arricchito, consente comunque l'assemblamento della bomba quando gli iraniani lo decidessero. Netanyahu chiede a Kerry di non firmare, ma è difficile ormai spengere la luce dei riflettori per la politica obamiana, che in questo caso può creare però un danno irrecuperabile. Nell'oscurità, fuori dal palcoscenico, i sauditi organizzano l'acquisto della bomba atomica pakistana ready made , e Israele medita come non restare vittima di un Paese che giorno dopo giorno non smette di promettere la sua distruzione.
La Stampa-Maurizio Molinari: " Talwar, l'indiano d'America tratta per conto di Obama"
Puneet Talwar
È un ex studente di Columbia, fidato collaboratore di Joe Biden ma ascoltato anche da George W. Bush, il protagonista della diplomazia segreta adoperata da Barack Obama per aprire la strada al dialogo con Teheran. L’indiano-americano Puneet Talwar studia l’Iran sui banchi della «School of International and Public Affairs», i suoi amici assicurano che «frequenta Washington da quando aveva 10 anni» con un’innata passione per la politica e nel 1997 diventa il consigliere sul Medio Oriente di Biden, allora capo della commissione Esteri al Senato. È la competenza sull’Iran che lo fa emergere. Per questo l’amministrazione Bush lo recluta, a guerra irachena iniziata, inserendolo nel ristretto gruppo di mediatori ufficiosi che incontrano nel più grande riserbo a Stoccolma gli inviati di Teheran fra cui c’è anche Javad Zarif, attuale ministro degli Esteri. Su suggerimento di Biden, Obama porta Talwar al Consiglio di Sicurezza nazionale, sin dal 2009 e nel 2011 il dossier Iran è suo, con in più i gradi di assistente segretario di Stato, assegnatigli da John Kerry in settembre. Stakanovista con la voce tenue, Talwar guida, assieme a Susan Rice, più tentativi di aprire un canale con Teheran. Sin dalle prime lettere scritte da Obama ad Ali Khamenei nella primavera del 2009. Ma poiché l’effetto è pressoché nullo, Talwar suggerisce a Obama di cambiare approccio, spingendolo all’applicazione più rigida delle sanzioni internazionali. Includendovi ad esempio i prodotti petrolchimici, come la benzina, e la Banca centrale iraniana. «Siamo riusciti a cambiare la dinamica dei rapporti con Teheran – ha detto di recente Talwar a Washington – perché quando arrivammo alla Casa Bianca il regime iraniano era compatto e la comunità internazionale divisa mentre oggi è vero l’opposto». L’elezione di Rohani e le esitazioni di Khamenei nel sostenere le aperture a Obama vengono lette dalla Casa Bianca come la conferma che la strategia di Talwar paga: sotto il peso delle sanzioni gli ayatollah mostrano crepe. Da qui la scelta del presidente di inviarlo, almeno sei settimane fa, in prima linea ovvero in Oman dove grazie ai buoni uffici del sultano Qabus bin Said al Said incontra a più riprese inviati di Rohani recapitando messaggi anche grazie ad americani «non governativi» di cui si fida, da Jeffrey Feltman vice di Ban Ki-moon per gli affari politici, a Suzanne DiMaggio vicepresidente dell’Asia Society di New York. L’intento è convincere il team di Rohani della volontà di Obama di arrivare ad una «soluzione pacifica» del contenzioso nucleare e per dimostrare la serietà delle intenzioni Washington limita al massimo nuove sanzioni dall’indomani delle presidenziali in Iran. Obama attribuisce a questa diplomazia segreta la decisione del leader iraniano di telefonargli da New York, malgrado le obiezioni di Khamenei, e ora punta ancora su Talwar per l’«accordo a fasi» che si propone di cambiare, ancora, la dinamica Usa-Iran: congelando il nucleare per creare un clima di intesa crescente su altri fronti.
Corriere della Sera-Massimo Gaggi: " Ma l'America con gli ayatollah non ha una strategia "
Vali Nasr
DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK — Mesi di colloqui preparatori riservati, il Tesoro Usa che si mostra meno severo nell’applicazione delle sanzioni economiche contro l’Iran dal giorno dell’elezione di Hassan Rouhani, il 14 giugno scorso. Il ritmo incalzante dei negoziati dopo le aperture del presidente iraniano a New York, nei giorni dell’assemblea dell’Onu e dopo il suo colloquio telefonico con Barack Obama. E, ora, il tentativo di raggiungere una prima intesa a Ginevra.
Cambiamenti straordinari e sorprendenti che nessuno, ancora sei mesi fa, avrebbe mai immaginato. Ma Vali Nasr, profondo conoscitore dell’Iran e dei suoi difficili rapporti con l’Occidente, frena: «Non creiamo leggende sui negoziati. Ad alcuni incontri preparatori ho partecipato anch’io e non ho visto svolte clamorose: è un processo complicato, molto graduale. Aspetto ancora di capire fin dove è disposta a spingersi Teheran con le concessioni. Ma, soprattutto, non vedo un piano Usa preciso e ben articolato. Quando Richard Nixon andò in Cina c’era dietro una strategia chiara, con precisi obiettivi di lungo termine. Washington sapeva dove voleva arrivare. Non si può dire la stessa cosa oggi nei confronti dell’Iran».
Nato e cresciuto in Iran, emigrato in America dopo la rivoluzione khomeinista, oggi rettore della Scuola di Studi internazionali della John Hopkins University, Vali Nasr ha lavorato a lungo al Dipartimento di Stato (soprattutto su Pakistan e Afghanistan insieme a Richard Holbrooke), e ha scritto molti saggi. Nell’ultimo, «The Dispensabile Nation», critica il basso profilo della politica estera Usa nell’era di Obama. E anche oggi, sull’Iran, Nasr non riesce a vedere un vero progetto politico della Casa Bianca.
Il premier israeliano Netanyahu furibondo, l’Arabia Saudita e gli emirati sunniti del Golfo molto preoccupati. Aprendo a Teheran, gli Stati Uniti mettono in pericolo il rapporto coi loro alleati in Medio Oriente: lo fanno perché pensano che siamo pericolosamente vicini a una guerra o vogliono ridisegnare la mappa politica dell’area riconoscendo un ruolo di potenza nel Golfo a un Iran che adesso si propone come un interlocutore affidabile e promette di diventare un fattore di stabilità nell’area?
«Per Obama l’unico vero problema, quando negozia con Teheran, è Israele, soprattutto per le pressioni che questo Paese è in grado di esercitare negli Stati Uniti. Non mi pare che a Washington ci si preoccupi molto delle relazioni con l’Arabia Saudita e gli Emirati».
Perché l’America, sempre più energeticamente indipendente, non ha più bisogno di questi Paesi?
«Gli Usa hanno le mani più libere, certo, ma per cambiare davvero la mappa del Medio Oriente c’è bisogno di un’azione politica a tutto campo e molto aggressiva in tutta l’area: un impegno che fin qui non ho visto».
Per Nasr, insomma, la «shuttle diplomacy» di John Kerry tra Gerusalemme e Palestina non basta.
Fino a che punto si spingeranno, secondo lei, gli iraniani nelle concessioni? Per la costruzione del reattore ad acqua pesante di Arak si parla di rinvio, non di abbandono. L’Iran smetterà di arricchire il suo uranio? Gli ispettori avranno carta bianca?
«E’ quello che aspettiamo di sapere dai negoziatori di Ginevra. L’unica cosa chiara è che la linea del “tutto o niente” caldeggiata da Gerusalemme non è passata».
Meglio nessun accordo che un accordo che non sia onnicomprensivo e definitivo nello sbarrare all’Iran la strada della bomba atomica, dice Netanyahu. E invece?
«Invece si faranno accordi parziali, a un livello inferiore. Le parole chiave sono congelamento e sospensione, piuttosto che eliminazione. Quante centrifughe in meno, quanto arricchimento in meno e per quanto tempo. In cambio di quale alleggerimento delle sanzioni da parte degli Usa e dell’Europa: di questo si sta discutendo».
Anche molti esperti Usa ritengono che sia difficile privare un Paese evoluto come l’Iran di tecnologie nucleari avanzate. Si può solo cercare di bloccare il procedimento materiale di costruzione della bomba.
«Ci vorrà tempo per capire, siamo ancora alle intese preliminari. Certo, è curioso che oggi si lavori attorno a un approccio basato sul congelamento delle capacità: il cosiddetto “freeze for freeze”, che era l’approccio messo sul tavolo anni fa dai russi. Niente di nuovo sotto il sole, insomma. Salvo che, allora, gli americani respinsero quel tipo di approccio».
Corriere della Sera-Franco Venturini: " Accordo sull'Iran, i segnali incoraggianti "
Il commento di Franco Venturini rispecchia la linea del Corriere uscita ieri nell'editoriale di Sergio Romano. A parte alcune eccezioni, è quella sposata dalla maggior parte dei quotidiani oggi. Il ritorno dell'Iran sulla scena internazionale con una economia nuovamente rimpinguata da buoni affari è è la chiave per capire l'appeasement occidentale. L'arma nucleare , una minaccia non solo per Israele - rinnovata l'altro giorno da Khamenei anche se le parole erano meno dirette di quelle di Ahmadinejad - ma per il mondo intero non conta nulla.
Ci sono poi gli analisti coraggiosi, ma sono pochi.
Ci sarà anche Catherine Ashton..
Anche in diplomazia si raccomanda di non vendere mai la pelle dell’orso prima di averlo ucciso, ma i segnali che vengono da Ginevra indicano concordemente che dopo trentaquattro anni di estrema tensione l’Occidente e l’Iran hanno già in tasca una prima storica intesa sulla limitazione dei programmi nucleari di Teheran.
Che senso avrebbe, altrimenti, l’accorrere sulle rive del Lemano di John Kerry che per essere presente ha interrotto ieri una missione in Medio Oriente? E l’arrivo dei ministri degli Esteri di Francia, Germania e Gran Bretagna, seguiti a ruota dal russo Lavrov e a quanto pare dal collega cinese, in attesa dei quali si continuerà a discutere fino a oggi? Davvero tutti costoro corrono a dar man forte alla rappresentante della Ue Catherine Ashton per poi annunciare un fallimento? Poco probabile.
Tanto più che le pochissime indiscrezioni disponibili descrivono i punti di accordo raggiunti, e inevitabilmente sottolineano anche le preoccupazioni e le contrarietà trasversali che ieri stesso sono venute con grande fermezza dal premier israeliano Netanyahu ma anche dall’Arabia Saudita, da una parte del Congresso di Washington e dalle fazioni più conservatrici dei militari e del clero iraniani.
Di trovare l’intesa sulla «prima fase» di un lungo e accidentato percorso si trattava ieri e si tratterà oggi a Ginevra, e già questo primo passo è bastato a far emergere speranze e paure che paiono entrambe legittime. Secondo lo schema d’accordo, l’Iran accetta di congelare il suo programma nucleare, di sospendere l’arricchimento dell’uranio al venti per cento (soglia considerata pericolosa), di rendere innocue le scorte, di accettare verifiche internazionali senza preavviso, di fermare l’impianto ad acqua pesante di Arak e, forse, anche di disattivare le centrifughe di ultima generazione.
Una sostanziosa mano tesa che conferma la preannunciata volontà negoziale del presidente Rouhani, e che dovrebbe mettere a disposizione delle parti una finestra temporale di almeno sei mesi per sancire un accordo definitivo. Ma, dicono gli iraniani, tutto ciò non siamo disposti a farlo gratis. Non solo vogliamo un alleggerimento delle sanzioni approvate dall’Onu e da alcuni Paesi occidentali, ma vogliamo anche che in esso figurino da subito i divieti che ci hanno isolati dal mondo finanziario (da qualche parte giacciono 37 miliardi di euro iraniani bloccati) e quelli che ci impediscono di esportare il nostro greggio. Qui è ripreso, ieri notte, un braccio di ferro che l’arrivo dei «big» dovrebbe consentire di superare. Teheran dà molto e vuole molto, ma Obama ha promesso al Congresso e a Israele di muoversi con i piedi di piombo revocando, in maniera reversibile, soltanto sanzioni minori. Ora la sfida, sempre che si ottenga la pelle all’orso, è di individuare una via di mezzo da ricalibrare successivamente. E la presenza di Kerry e Lavrov dovrebbe aiutare.
Preparare le trombe del successo è dunque lecito, e tanto più fragoroso apparirebbe a questo punto un nulla di fatto. Ma accanto alla speranza e all’ottimismo degli uni, lo dicevamo, c’è la furibonda contrarietà di altri. Netanyahu ha parlato ieri di pessimo accordo (dandolo per fatto dopo aver visto Kerry) che favorisce soltanto l’Iran e dal quale Israele non si riterrà vincolato. Come dire che per Gerusalemme l’opzione di uno strike contro le centrali iraniane resta sul tavolo. Il ragionamento di Netanyahu è che anche l’uranio arricchito al 3/5 per cento, quanto si dispone di molte centrifughe, può essere portato rapidamente a livelli militari. Dunque l’intero processo di arricchimento dell’uranio va vietato all’Iran (mentre Obama tende a riconoscere la liceità di quello pacifico, come previsto nel Trattato anti-proliferazione) , e soprattutto bisogna insistere con le sanzioni economiche in assenza delle quali gli iraniani non sarebbero mai venuti al tavolo di una seria trattativa. La logica è chiara: se è vero che le sanzioni funzionano, bisogna appesantirle e ottenere il massimo.
La rotta di collisione con Washington e con gli europei è tracciata. Ma Gerusalemme potrebbe ricorrere a incursioni aeree che gli Usa vogliono evitare, e soprattutto non è sola. Oltre a settori del Congresso in America e alla fronda conservatrice in Iran, non nasconde la sua esasperazione l’Arabia Saudita. Perché l’Iran è il suo nemico regionale storico, perché un Iran riabilitato potrebbe esportare una enorme quantità di petrolio, e anche perché, tra sunniti e sciiti, l’Iran è il capofila degli odiati sciiti.
È presto per dire che a Ginevra stia nascendo una nuova carta geopolitica del Medio Oriente. Ma anche le carte cominciano con un passo.
fr.venturini@yahoo.com
Il Foglio- " Accordo pessimo sul nucleare iraniano "
Rohani, tutti i motivi per essere soddisfatto
Forse è stato l’ultimo incontro prima della notizia di un accordo raggiunto sul nucleare iraniano. Ieri il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha visto il segretario di stato americano, John Kerry, all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Kerry era alla fine di un tour diplomatico per provare a rabbonire paesi tradizionalmente alleati con Washington come l’Egitto, l’Arabia Saudita e Israele, ma ha avuto poco successo. Con un finale a sorpresa, l’americano ha poi lasciato Israele per volare a Ginevra, dove sono in corso negoziati tra il gruppo dei Cinque più uno e l’Iran – finiscono oggi – e dove si aspetta la notizia di un accordo dopo tanti anni di trattative andate a vuoto. E Netanyahu all’aeroporto? Ha parlato: “Ho incontrato il segretario Kerry prima che partisse per Ginevra. Gli ho ricordato che una volta ha detto che non fare nessun accordo è meglio che fare un cattivo accordo. E che l’accordo discusso in questi giorni a Ginevra è davvero un cattivo accordo. Un pessimo accordo. All’Iran non è chiesto nemmeno di smontare una sola centrifuga, ma la comunità internazionale sta per alleggerire lo stesso le sanzioni per la prima volta in molti anni. L’Iran ottiene tutto quello che vuole – in questa fase – e non paga nulla. E adesso è il momento in cui è più sotto pressione. Chiedo al segretario Kerry di non correre a firmare, di aspettare, di riconsiderare, di ottenere un buon accordo. Ma questo è davvero un pessimo accordo. E’ l’accordo del secolo per l’Iran; ma è un accordo molto pericoloso per la pace e per la comunità internazionale”. Il giudizio del premier israeliano ha il tono di chi sta considerando l’inevitabile: c’è troppa voglia di dichiarare progressi nel negoziato atomico per ascoltare Israele. Per questo ha avvertito: non ci consideriamo legati da qualsiasi patto tra l’occidente e l’Iran e faremo quello che serve per proteggere Israele e la sicurezza della sua popolazione. Tradotto: possiamo ricorrere alle armi. E ha aggiunto: “Quello che dico è condiviso da molti nella regione”. Anche l’Arabia Saudita non è stata convinta da Kerry.
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