I trucchi di Obama per piegare Israele
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
Cari amici,
non so se avete letto le ultime novità, o forse piuttosto le ultime voci sulle trattative fra Israele e Autorità Palestinese. E' semplice: le trattive sono bloccate. Quel che pretendono i palestinesi (tutto il territorio al di là della linea verde, inclusa la città vecchia di Gerusalemme e la frontiera con la Giordania, il “diritto del ritorno” per coloro che vantano un parente che dica di essere stato un tempo residente nel territorio del mandato britannico – i cosiddetti profughi) è sufficiente a distruggere Israele. Ciò di cui Israele ha bisogno per accettare uno stato profondamente nemico al suo fianco (il riconoscimento del suo carattere ebraico e cioè del buon diritto degli ebrei di vivere sulle loro terre, il disarmo dei nemici, la definizione di confini indipendenti dalla linea verde per dividere le popolazioni secondo linee che non provochino una pulizia etnica) l'Anp non lo vuole accettare e probabilmente non potrebbe senza essere abbattuta da una popolazione che essa stessa ha sobillato.
Tutto questo si sa da tempo, ed è la ragione per cui si è sempre detto che le trattative erano destinate ad arenarsi e non si capiva perché gli americani, in un momento in cui si stanno ritirando a tutta velocità dal Medio Oriente (ignorando ormai i crimini di Assad, lasciando all'egemonia persiana l'Iraq per cui hanno fatto due guerre, cercando un accordo con l'Iran che avrà quantomeno il costo non solo per Israele di consacrarlo potenza egemone nella regione), si siano impelagati a forzare queste trattative.
Bibi Netanyahu, Barack Obama, Abu Mazen
La novità è che non solo si sono impelagati, ma ci si buttano dentro a tutta forza. E' stata diffusa infatti l'indiscrezione che se Israele e Anp non si metteranno d'accordo entro un paio di mesi, gli Usa sostituiranno le trattative con una sorta di ultimatum: proporranno loro una soluzione che gli interessati dovranno prendere o lasciare (http://www.israelnationalnews.com/News/News.aspx/173582#.UniXOPnmPnu ). Il piano, a quanto si dice, è simile a quello che Clinton propose dodici anni fa, che fu respinto da Arafat: uno stato palestinese nei territori al di là della linea verde (quella dell'armistizio del '49), con scambi di territorio. Naturalmente nessuno conosce i termini reali di questa mossa, che può essere anche pura tattica negoziale, ma essa certamente pone a Israele una sfida difficilissima. Perché quel che forse poteva essere sperato dodici anni fa non può più esserlo dopo la seconda intifada, col suo carico di tremendo terrorismo, il ritiro dal Libano e il terrorismo di Hezbollah e la guerra che ne seguì, il ritiro da Gaza e il terrorismo di Hamas con le spedizioni militari che furono necessarie per contenerlo; le rivolte arabe che hanno portato l'instabilità e soprattutto le forze organizzate da Al Queida ai confini di Israele, l'inefficienza delle forze internazionali in tutti questi casi e infine la consapevolezza del già citato ritiro americano. Insomma, la dura esperienza di questi anni ha accresciuto le esigenze di sicurezza anche territoriale e ha ridimensionato fortemente le speranze di pace salvo in qualche settore che ormai è marginale rispetto alla società israeliana, estremista o pagato dall'estero.
Il risultato rischia dunque per Israele di accettare una gravissima perdita di sicurezza con frontiere indifendibili (http://www.israelnationalnews.com/News/News.aspx/173405#.Unid5fnmPnu ), dividere la società sullo sgombero forzato degli insediamenti (molto peggio che sette anni fa a Gaza), apparire nel contesto mediorientale debole e attaccabile, oppure rompere con gli Usa e cercare nuove alleanze, magari con la Cina, come ha suggerito qualcuno. Per gli Usa si tratterebbe di perdere l'ennesimo alleato nella regione (dopo l'Egitto, l'Arabia Saudita, l'Irak conquistato e abbandonato, la Turchia): una catastrofe unica nella storia americana, la perdita di un intero settore strategico di cui Obama porta la responsabilità storica (come ormai riconoscono anche i giornali amici, per esempio il New York Times: http://www.nytimes.com/2013/10/30/opinion/allies-in-revolt.html?_r=0 ).
Per Israele sarebbe l'isolamento internazionale, con gli arabi tutt'intorno, l'Europa ostile e antisemita, buona parte dei paesi lontani che dovrebbero essere neutrali coinvolti nell'ideologia terzomondista e dunque tendenzialmente ostili anch'essi. E' vero che Israele avrebbe molto da dare in termini di tecnologie e di progresso scientifico a grande emergenti come l'India e la Cina e che i contatti in questo senso sono molto fitti. Ed è anche vero che si sta saldando nell'ombra un certo accordo pragmatico fra Israele e i vicini sunniti più responsabili (Egitto, Arabia), per far fronte al vuoto strategico lasciato dal ritiro americano e contenere l'armamento atomico iraniano.
Ma ci sono rischi molto più concreti. Gli Usa hanno fatto da schermo, anche durante l'amministrazione Obama, ai tentativi più gravi di guerra diplomatica contro Israele, che certamente si ripeteranno dopo una rottura delle trattative. Buona parte dell'armamento israeliano è stato sviluppato insieme agli Usa o dipende da loro rifornimenti. I servizi americani sanno molte cose sulle azioni di Israele. Per questo forse negli ultimi mesi sono uscite regolarmente a Washington, a quanto pare direttamente dalla Casa Bianca, indiscrezioni sulle azioni israeliane in Siria anche a rischio di provocare rappresaglie e con grande irritazione israeliana ( http://www.i24news.tv/en/news/international/131102-israel-angered-by-us-leaks-over-syria-attack ) ed è uscita anche con implicita minaccia, dato che la fonte era di nuovo vicina a Obama, la notizia che la Turchia, un paio d'anni fa, ha consegnato un'intera rete informativa israeliana in Iran ai carnefici persiani (http://www.jpost.com/Middle-East/Ankara-Reports-of-betrayal-of-Israeli-spy-ring-to-Iran-meant-to-discredit-Turkey-329037 ). Insomma, se Israele fosse costretta a rifiutare la mediazione americana, il costo sarebbe molto grande.
Inutile dire che la pressione propagandistica è molto forte. Il New York Times, per esempio, espressione – almeno da quando si rifiutò di dar notizia della Shoà per non imbarazzare la presidenza Roosevelt - dei settori ostili a Israele e “nemici di sé” dell'ebraismo americano, sta usando tutta la sua potenza di fuoco per cercare di isolare il governo israeliano e influenzarne l'opinione pubblica (http://blogs.timesofisrael.com/the-new-york-times-telling-readers-how-to-think-about-israel/ http://blog.camera.org/archives/2013/10/newest_new_york_times_columnis.html ). E lo stesso vale per J-Street, la lobby degli ebrei americani contro Israele molto appoggiata dal governo Obama, di cui sono documentati i finanziamenti provenienti dai nemici di Israele (http://www.jpost.com/Opinion/Columnists/My-street-your-street-and-J-Street-330399 ). Inutile dire che la sinistra in Israele sta cercando di rovesciare l'asse del governo per cedere alle pressioni americane (http://www.jpost.com/Diplomacy-and-Politics/Livni-to-Labor-Join-Netanyahu-government-for-sake-of-peace-328977 )
Insomma, il momento è difficilissimo, anche se non direttamente drammatico sul piano militare, uno dei più delicati mai affrontati da Israele. Si può solo sperare che Netanyahu, sulle cui spalle ricadono le scelte decisive di questi mesi, sia abile e integro nel suo amore di Israele, come finora è stato.