I quotidiani italiani di oggi, 05/11/2013, dedicano ampio spazio alla cronaca del processo a Morsi. Un processo definito erroneamente 'farsa'. E' semplicemente breve perché rinviato.
Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 05/11/2013, a pag. 41, il commento di Renzo Guolo dal titolo " L’esperimento fallito degli islamisti al potere ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 12, l'articolo di Alessandra Coppola dal titolo " Io, egiziano di Milano, a fianco degli islamici ".
Particolarmente equilibrato il commento di Renzo Guolo, che spiega i motivi del fallimento dei Fratelli Musulmani.
Non si può, invece, definire negli stessi termini le parole di Ahmed Abdel Aziz, studente del Politecnico, egiziano e residente a Milano, del quale riporta le dichiarazioni Alessandra Coppola. Ahmed Abdel Aziz, infatti, è totalmente schierato a favore di Morsi e dei Fratelli Musulmani. Facile esserlo da lontano, quando si vive in un Paese democratico che ti garantisce i diritti. Aziz crede che nell'Egitto dei Fratelli Musulmani avrebbe potuto manifestare il suo dissenso o vivere una vita laica?
Ecco i pezzi:
La REPUBBLICA - Renzo Guolo : " L’esperimento fallito degli islamisti al potere "
Renzo Guolo
Fratelli Musulmani
Il presidente destituito Morsi e i principali esponenti di Libertà e Giustizia, il partito dei Fratelli musulmani, vanno a processo in Egitto, proprio mentre in Tunisia giunge alla fine l’esperienza al governo degli islamisti di Ennahda. Si chiude così in Nord Africa il ciclo dell’Islam politico di filiera dei Fratelli musulmani, che solo due anni fa sembrava destinato a durare. Infatti, per governare società investite dai processi della globalizzazione non basta l’antico slogan della Fratellanza: «Dio è il nostro programma, il Corano la nostra costituzione». Così come non basta tradurre categorie religiose in categorie della politica: la shura, la consultazione declinata come democrazia, e l’ijma, il consenso della comunità in materia di questioni teologiche e giuridiche non possono declinarsi in una sorta di centralismo democratico in salsa islamista. La realtà è che, nonostante i tentativi di adattamento, la cultura politica dei Fratelli si è mostrata inadeguata per dirigere società complesse. Tanto più in un quadro pluralistico. Persino il pragmatismo adottato talvolta da quelle formazioni è parso, più che un indicatore di mutamento, mero occasionalismo: disancorato com’era da ogni riferimento a una cultura politica che legittimasse le scelte che lo avevano indotto. L’errore di Ennahda e di Libertà e Giustizia è non aver compreso la natura del consenso ricevuto. Non tutti quelli che li avevano votati volevano una società islamica. Scegliendo i partiti legati alla Fratellanza, l’elettorato non di appartenenza aveva premiato le forze che con più coerenza si erano opposte ai regimi autoritari. Una volta caduti quei regimi, il consenso doveva essere riguadagnato nell’azione di governo. Il responso popolare è stato, invece, interpretato come mandato a realizzare un progetto di lunga durata, ipotecato dall’ambiguità, mai sciolta, tra Stato religioso e Stato islamico. Pagato il pegno dell’affidabilità sistemica internazionale, i partiti di filiera della Fratellanza musulmana si sono così irrigiditi sull’islamizzazione dei costumi. Scelta che, in presenza di una pessima gestione della pesante crisi economica, ha innescato la reazione che ha condotto alla sconfitta. È il tracollo del consenso che ha permesso il golpe in Egitto e le dimissioni “concordate” in Tunisia. L’altra ambiguità decisiva ha riguardato il rapporto con le forze salafite. In nome del principio “nessun nemico nel campo dell’Islam politico”, i partiti della Fratellanza volevano evitare che forze islamiste collocate all’opposizione lucrassero rendite di posizione mentre essi si logoravano nell’azione di governo. Opzione sfociata in Egitto nell’alleanza costituente con i salafiti: assai mal ripagata, visto il ruolo avuto da Al Nour, principale partito salafita, nella deposizione di Morsi. In Tunisia questo atteggiamento si è tradotto nella tolleranza istituzionale verso un salafismo aggressivo che ha avuto come bersaglio donne, intellettuali e docenti universitari, ed è sfociato nell’assassinio di due leader dell’opposizione laica. Quando il consenso è evaporato, le forze — militari, politiche, sociali — ostili alla Fratellanza hanno presentato il conto. In Egitto saldando cortei e cingoli, in Tunisia mobilitazione e resistenza degli apparati. Ora i Fratelli musulmani sono a un bivio. In Egitto sono fuori legge e la loro organizzazione è decapitata. Il grosso del movimento punta a ricostituirla, poi si vedrà. I giovani quadri invece sono convinti che la disfatta obblighi ad affrontare il nodo di una plausibile cultura di governo. Su posizioni opposte, si fa strada anche una fazione persuasa che, dopo l’esperienza Morsi, attraverso il consenso elettorale non sia possibile costituire né uno Stato islamico, né uno Stato religioso. E che riposizionarsi sulle antiche certezze consenta, invece, di contenere almeno l’insidiosa concorrenza salafita. Anche in Tunisia l’uscita dal governo, con le dimissioni promesse dal premier islamista Ali Larayedh, costringe Ennahda a scegliere: percorrere la via indicata da alcune posizioni di Ghannouchi, il co-fondatore e leader intellettuale di Ennahda, costruendo un autentico partito conservatore su base confessionale, o imboccare la scorciatoia del ritorno alla purezza ideologica che, però, condanna all’impotenza. Il tutto mentre il Paese è scosso dal terrorismo qaedista che attacca l’industria turistica e un monumento a Bourghiba, ritenuti simboli della globalizzazione e della laicità dello Stato. Il duplice fallimento dell’Islam politico neotradizionalista impone una svolta e non lascia spazio a una terza via.
CORRIERE della SERA - Alessandra Coppola : " Io, egiziano di Milano, a fianco degli islamici "
Manifestanti pro Morsi in Italia
MILANO — Gridare slogan a Milano perché Il Cairo intenda, e alla fine anche perché Roma si svegli. «Viva Morsi, abbasso Al Sisi», i cartelli gialli con le quattro dita che sono il simbolo della protesta di piazza Rabaa al-Adawiya repressa nel sangue, gli uomini che sfilano avanti e le donne che seguono dietro fino a piazza Castello. Un giovane studente di Ingegneria, Ahmed Abdel Aziz, che fissa gli appuntamenti, mobilita i partecipanti, tiene i contatti con la polizia locale e risponde alle domande di Al Jazeera .
Succede spesso, in estate s’è visto anche più volte in una settimana, e ancora ieri e l’altro ieri. Si sollevano i cartelli in Egitto, in Italia fa eco la diaspora, adesso organizzata nel «Comitato nazionale libertà e giustizia» coordinato da Ahmed, 29 anni, scuola materna dalle suore a Busnago e poi tutto il corso di studi tra gli istituti della periferia Nord e l’università a Milano. Perché questa attenzione così forte per un Paese che hai conosciuto solo nelle vacanze estive? «Per le radici, sicuramente. Ma anche per un senso di responsabilità che sento di fronte a chi è rimasto in Egitto: essere in Italia mi permette di avere delle possibilità, inclusa quella di manifestare, che lì non hanno».
Certo, c’è anche una «questione musulmana»: «Ci sentiamo parte di una famiglia unica». Il Comitato nazionale di cui è portavoce, però, non ha solo una matrice religiosa, sottolinea: «Ci sono ex socialisti, comunisti egiziani, nasseriani, moderati e radicali». La preoccupazione comune, dice, è «l’estrema emergenza» in cui si trova Il Cairo, dopo l’intervento dei militari e la deposizione del presidente eletto Mohammed Morsi, adesso alla sbarra. «Fino a quando c’era Mubarak al potere non abbiamo seguito le vicende egiziane con particolare entusiasmo — continua Ahmed —. Con la primavera araba, nel 2011, c’è stata un’accelerazione». Finché in quest’estate di «restaurazione» ha preso forma il Comitato. «Nominato “Libertà e giustizia” per richiamarci ai principi che abbiamo assimilato qui in Europa».
A scendere in piazza, però, la sensazione è che ci siano pochi ragazzi cresciuti a Milano e molti lavoratori arrivati adulti, gridano slogan solo in arabo, le donne sfilano separate: non si direbbe una manifestazione italiana. «I più attivi, in effetti, sono gli immigrati di prima generazione — spiega Abdel Aziz —. Molti vengono da paesini di provincia, portano in strada le proprie abitudini». Quanto al messaggio, che sia rivolto all’esterno non è solo una vaga intuizione: è l’obiettivo dichiarato. La più grande comunità egiziana all’estero è in Italia, oltre centomila persone, è la stima, altrettanti voti in patria. Del totale, il 70 per cento è in Lombardia. Una manifestazione a Milano diventa allora «un avvertimento politico forte» al Cairo: «I militari devono sapere che noi siamo contro. E che con noi ci sono tanti dei milioni di connazionali nel mondo. In questi giorni ospitiamo un esponente della comunità statunitense: stiamo creando un Comitato internazionale e stilando un documento comune». Nota a margine per il governo italiano: «I cortei ricordano a Roma che la questione non è così lontana: se le cose non cambiano, ondate di rifugiati si riverseranno anche dall’Egitto. E si tratta di un Paese di novanta milioni di persone…».
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