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Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
03.11.2013 Martin Buber: ebraismo e sionismo
Recensione di Giulio Busi

Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 03 novembre 2013
Pagina: 34
Autore: Giulio Busi
Titolo: «Buber sulla strada per Sion»

Dal  supplemento culturale del SOLE24ORE di oggi, 03/11/2013, a pag.34, con il titolo " Buber sulla strada per Sion " riprendiamo la recensione di Giulio Busi al  libro " Rinascimento ebraico, scritti sull'ebraismo e sul sionismo 1899-1923 " di Martin Buber, appena uscito da Mondadori.

La copertina del libro

L'occasione per una valutazione critica viene da «Rinascimento ebraico» che raccoglie testi dal 1899 al 1923, il periodo che vede la trasformazione del giovane studente Martin Buber. Buon oratore fin che si vuole, e capace di grinta, nonostante la statura tutt'altro che imponente. E poi due occhi vispi, che lasciavano trasparire passione e ironia. Martin Buber arrivava a Praga, nel gennaio 1913, preceduto da fama e successo. Gertrud Eysoldt però, era un'altra cosa. Bella, era bellissima, e sensuale. A detta di un critico teatrale berlinese, aveva «movenze sinuose da gatta», e dava il meglio in ruoli di «sirena della disperazione». Abbastanza per spingere uno schizzinoso come Hugo von Hoffmannstahl a scrivere apposta per lei le scene di Elettra, con pathos e ammirazione. Tra Buber e l'attrice Gertrud Eysoldt, allora già all'apice della fama teatrale e mondana, nemmeno Franz Kafka aveva dubbi: «Buber non basterebbe certo a farmi uscire dalla mia stanza - scriveva a Felice - sono già andato a sentirlo ... ma dopo Buber, legge la Eysoldt, è per lei che ci vado». Così è il mondo, e un paio di occhi maliardi-quelli di Gertrud erano proverbiali - valgono quasi sempre di più di mille frasi ben tornite. In quella sera praghese, Kafka saltò il discorso buberiano sul Mito degli ebrei e si beò invece per la messa in scena della Eysoldt, che recitava passi dalle Leggende del Baal Shem, raccolte proprio da Buber. Qualche giorno più tardi, lo stesso Kafka ebbe però modo di ricredersi sul conto del bistrattato conferenziere. «Ieri ho parlato con Buber - annotava nel Diario - che di persona è franco e semplice e davvero notevole, e non sembra aver nulla a che fare con le cose tiepide che ha scritto». Promosso insomma alla prova d'appello: forse questo è il destino intellettuale dell'intera opera buberiana. E in effetti, a rileggerli a un secolo di distanza, i discorsi di questo pensatore eccentrico suscitano un misto di ammirazione e critica. Brillanti per certi scatti utopici, per le metafore che si accendono inaspettate, e allo stesso tempo datati, a causa di una certa patina retorica ancora ottocentesca, e per le incertezze e i ripensamenti propri di chi tenta una via non ancora percorsa, e talvolta la trova e talaltra si smarrisce. L'occasione per una valutazione critica è offerta dal volume Rinascimento ebraico, curato - con metodo esemplare - dalla germanista Andreina Lavagetto. La rassegna raccoglie testi dal 1899 al 1923. È il periodo che vede il giovane Buber trasformarsi, da studente un po' blasé e mondano a infaticabile attivista del ritorno a Sion. Nel 1899, quando partecipa al terzo congresso sionista di Basilea, la sua esperienza pubblica è appena cominciata. Arriva in Svizzera come delegatodegli studenti di Lipsia e finisce, un po' per caso, alla commissione propaganda. Su tutto e su tutti domina la personalità carismatica e dispotica di Theodor Herzl, col suo modo impolitico di fare politica, la capacità di dar voce a un'impensabile rivoluzione dell'identità ebraica, e la tendenza, sempre più manifesta, a imporre a tutti la propria visione personalistica. il congresso è dominato dallo scontro tra Herzle Leo Motzkin, di origine russa, assaicritico verso la gestione dittatoriale del movimento da parte del fondatore. Buber, allora appena ventunenne, cerca di ritagliarsi un proprio spazio tra le figure dei grandi, e lo fa con abilità e chiara visione dell'essenziale. Il suo primo discorso, pur breve, contiene già in nuce molti dei tratti caratteristici degli anni successivi. «Far propaganda significa comunicare movimento, ma significa anche conservare e rafforzare il movimento». Questo dinamismo è la bandiera del sionismo buberiano. Un dinamismo che nasce da orgoglio e frustrazione. Il giovanissimo Buber, che proviene da una famiglia illustre per censo e cultura, è fiero del passato ebraico e allo stesso tempo ha una visione estremamente negativa della vita della diaspora. Non si capiscono gli inizi del sionismo né il suo sviluppo successivo senza tener conto di questa carica critica e rivoluzionaria. «Si guardi al nostro popolo che continua a languire in una notte angosciosa», invita Buber. È l'oscurità della tradizione fine a se stessa, del legalismo arido, della passività, della fuga illusoria dalla brutale realtà della persecuzione. «L'antichissimo nemico ereditario vigila, la coppia assassina dei millenni - scrive polemicamente il nostro - l'angustia della vita e l'angustia dello spirito, il ghetto esteriore e interiore, le forze non ancora vinte». Per questo, il movimento dev'essere trasformazione, inizio di un mondo nuovo, con nuovi contenuti e nuove speranze. Si tratta di inventare un "Rinascimento". Il modello è quello italiano, così di moda negli ambienti colti di fin de siècle. Come nella Firenze del Quattrocento - che allora si idealizzava nella ricostruzione proposta da Jacob Burckhard - così gli ebrei d'Europa devono saper armonizzare l'anticocon l'invenzione moderna, sposare l'eredità millenaria coni fermenti della società che li circonda. E  il seme più inquieto e produttivo appare, a Buber e ai suoi compagni di credo sionista, quello del nazionalismo. Popolo come comunanza di volontà, quasi un corpo mistico che travalica i confini dell'essere individuale. «In ogni persona è contenuta in germe l'intera stirpe, e in ogni destino l'intera storia», leggiamo in Cheruth, un discorso su gioventù e religione, apparso nel 1919. L'enfasi nazionale, e sulla nazione come condivisione di destino, è forza e limite dell'oratoria buberiana. Si pensi all'interventismo con cui egli accompagnò l'entrata in guerra della Germania nel primo conflitto mondiale. Un impegno filo-tedesco che a noi oggi pare contrastare profondamente con la scelta di Sion, e di cui Buber ebbe ben presto a pentirsi, e amaramente. Non è un caso se il bellicismo buberiano sollevò da subito dubbi, come nel caso dell'amico Gershom Scholem, che osservava acido: «vorrei solo, una volta, sentire da lui ... una motivazione del perché la Germania stia mai in "metafisica affinità" con il popolo degli ebrei». Che l'affinità immaginata da Buber non ci fosse, né metafisica né d'altro tipo, lo avrebbero dimostrato purtroppo gli anni seguenti. Ma il pregio dei discorsi di propaganda è di essere scritti e interpretati di slancio. Per capire meglio, e magari pentirsi, verrà il domani. Cambiare, vivere, rinascere, questo è il compito d'oggi.

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