Israele: la settimana della cucina polacca commento di Elena Loewenthal
Testata: La Stampa Data: 01 novembre 2013 Pagina: 31 Autore: Elena Loewenthal Titolo: «Varsavia o cara: si cura in cucina la ferita aperta degli ebrei»
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 01/11/2013, a pag. 31, l'articolo di Elena Loewenthal dal titolo " Varsavia o cara: si cura in cucina la ferita aperta degli ebrei ".
Elena Loewenthal
Mai come in questi tempi la cucina è carica di attenzioni. Se siamo quello che mangiamo, allora significa che in questi ultimi anni abbiamo molto a cuore la nostra identità perché il cibo è sempre più consapevole e meno casuale, raccogliticcio. In un mondo in cui come mangiare è sempre più importante, debutta a giorni la settimana della cucina polacca in Israele, organizzata dall’Istituto di cultura polacca. Più che una manifestazione gastronomica, si tratta di un evento quasi epocale, in cui il cibo si carica di solennità – nonché di una buona dose di ironia. Per i gaudenti telaviviani, sempre al passo con le ultime novità – che siano high tech o impiattamenti fusion – la cucina polacca è infatti l’emblema del passatismo, dei sapori perduti, di un’equivoca eredità avita (equivoca sul profilo del sapore, beninteso). Per i gerosolimitani, ma anche gli abitanti di Bne Beraq, ad esempio – un sobborgo abitato quasi esclusivamente da religiosi – il cibo polacco è pane quotidiano nel vero senso della parola. Anche se magari si è nati a Fez, in Marocco. In realtà gli ebrei - israeliani o meno - hanno con la Polonia un rapporto lancinante. Lì ci sono fisicamente Auschwitz, Treblinka, Maidanek. Lì c’erano quasi quattro milioni di ebrei, quasi tutti sterminati. Gran parte dei sopravvissuti ha serbato per il Paese d’origine una specie di amore/odio intriso di paura: praticamente nessun ebreo polacco superstite è tornato laggiù. In questo impasto di sentimenti grazie ai quali dopo la guerra la Polonia è diventata una lontananza estrema, nello spazio e nel tempo, gli ebrei originari di lì – e non solo loro – hanno strenuamente continuato a mangiare alla polacca… E quasi tutti i must della cucina ebraica ashkenazita, che di fatto ha sempre goduto di supremazia interna, sono Polonia allo stato puro: dal famigerato gefillte fisch al brodo di pollo, dalla gelatina di piede di manzo intrisa di aglio al pasticcio di fegato. Tutta questa roba greve e proteica ma anche lieve come una proustiana madeleine nella sua straordinaria capacità di evocare ricordi, nostalgie e un mondo scomparso, è schiettamente polacca. Il gefillte fisch, ad esempio, che significa «pesce ripieno», era in origine un piatto in cui la pelle della carpa veniva farcita con la polpa tritata e condita. Facendolo proprio, la massaia ebrea, nota per il suo spirito pratico assai più che per quello estetico, ha deciso che farcire il pesce era una fatica inutile, e ha cominciato a servire la farcia nuda e cruda, anzi stracotta: il gefillte fisch è diventato una polpetta di pesce che non riempie più un bel niente. L’evento clou della settimana polacca in Israele sarà davvero straordinario. Nella calda atmosfera autunnale di Tel Aviv verrà infatti allestita la ricostruzione di un banchetto ebraico tenutosi a Varsavia nell’agosto 1893 e ampiamente descritto dalla stampa locale. Al banchetto parteciparono dotti e maestri, riunitisi in onore di un illustre ospite, il professor Abraham Eliyahu Harkavi. Niente donne, tanto per cambiare. Chissà se almeno erano in cucina… Le fonti riportano anche per filo e per segno il ricco e variegato menù, ma ovviamente non le ricette. Maoz Alonim e Itali Hargil del «Caffè Europa» – locale trendy della città – avranno faticato non poco a ricostruire i piatti che hanno il duplice obiettivo di risvegliare ricordi ancorati in fondo alla coscienza nazionale di tutto Israele e riconciliare gli israeliani più «moderni» con la cucina polacca. Se infatti la stampa dell’epoca descrive come memorabili le portate del banchetto durato fino a notte fonda (complici anche i lunghi discorsi), non sarà stato facile ricostruire la ricetta per l’immancabile pesce ripieno ma anche «i diversi grani, la zuppa d’uva, il pollo arrosto, la frutta fritta» così come un invitante «gelato di miele». Il convivio ebraico polacco di Tel Aviv non è certo l’unico caso di cena storica – basti ricordare il banchetto medievale che si tiene ogni anno nel Cenacolo francescano di Borgo San Lorenzo vicino a Firenze o le cene regali che in occasione del centocinquantenario italiano hanno visto avvicendarsi nelle sale della Venaria i grandi cuochi e le regioni italiane con la loro storia di sapori. Ma questa puntuale ricostruzione polacca fondata sulle testimonianze scritte, al di là della correttezza filologica, è anche il postumo omaggio a un mondo perduto, che, prima di estinguersi nel terribile silenzio della Shoah, ha lasciato all’ebraismo – israeliano e diasporico – una gran messe di testi, parole, ricordi e anche tanti sapori forti. Magari conditi di disdegno, magari discutibili come quell’improbabile mix di dolce e aspro che si avverte masticando il gefillte fisch o l’immancabile sovradosaggio di aglio, ma certamente tenaci dentro la memoria e capaci di scatenare come poche altre cose la nostalgia per quel mondo che non c’è più e mai più tornerà.
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