Il mio rapporto con il PCI: una storia italiana (2a parte)
di Luciano Tas
Luciano Tas
Il dieci giugno 1940 (credo che le scuole fossero già chiuse, ma non ci giurerei) di pomeriggio andai al cinema (“Orfeo” via XX Settembre) con un mio compagno a vedere “Paradiso perduto” di Abel Gance, con Fernand Gravey e Micheline Presle e una canzone (Danse d’amour, bonheur tropo court, mon paradis perdu). A un certo momento, era appena finito il film, grande brusio. Dopo pochi minuti luce in sala. “Il Duce parlerà a momenti, tra mezz’ora…no, meno…” e via tutti, chi di corsa a casa, come me e il mio amico, che eravamo a un quarto d’ora dalle nostre abitazioni, chi nel bar più vicino. Tutti sapevano che le sue parole sarebbero state importanti, che in un modo o nell’altro avrebbero messo fine a quell’attesa che durava da nove mesi, da quando cioè Mussolini aveva dichiarato non la neutralità, che gli sembrava parola troppo borghese, ma la “non belligeranza” dell’Italia nel conflitto in corso. Come dire, con un’alzata di furbizia propria del nostro paese, che “io non sono neutrale, sono dalla parte della Germania, però non combatto, almeno per ora”. E tutti (o quasi) ad aggrapparsi a questa furbata. L’Italia era legata alla Germania e al Giappone da un’alleanza chiamata “Asse”, proprio una Triplice come nel 1914. Solo che allora alla fine eravamo entrati in guerra contro la Germania e l’Austria, e ora i segni erano all’opposto. Ma l’estrema speranza risiedeva nel fatto che a cominciare le ostilità era stata la Germania contro la Polonia. Anche se formalmente la dichiarazione di guerra fosse poi partita dal Regno Unito e dalla Francia, pareva che non dovesse scattare automaticamente la clausola del “Patto d’acciaio” (del resto più vago nella sua formulazione di quanto facesse presagire il titolo ringhioso) della nuova Triplice alleanza. In realtà – questo lo avremmo capito dopo – nel ’39 Mussolini voleva prendere tempo per vedere come si mettevano le cose, tanto più che l’Italia non era affatto preparata a sostenere un conflitto. Ma ora, dieci giugno 1940, le sorti della guerra parevano decise. Chi avrebbe scommesso un soldo sulla sconfitta della Germania mentre stava trionfando con facilità estrema in mezza Europa? Per l’altra mezza, pensavano tutti a cominciare da Mussolini, sarebbe stata questione di settimane, se non di giorni. E per l’altra mezza s’intendeva (e lo era) la Gran Bretagna. La Germania, dopo avere occupato la Norvegia, poi il Lussemburgo, la Danimarca, l’Olanda e il Belgio, aveva bypassato senza difficoltà, con la stessa manovra usata nel 1914, la già “imprendibile” linea Maginot e si avviava a conquistare Parigi, con l’esercito francese in una rotta che coinvolgeva i britannici. La Francia non costituiva più un ostacolo. Niente, salvo il Canale della Manica, proteggeva ora il Regno Unito, dove lo sbarco tedesco era, pensava Mussolini, questione di ore. Così, a pochi giorni dalla resa francese e a quella ritenuta imminente della Gran Bretagna, Mussolini volle mettere un po’ di cadaveri di soldati italiani sulla bilancia del negoziato di pace. (Pare che si sia espresso proprio così). Le cose, ora si sa, sono poi andate molto diversamente, per fortuna, ma allora la disperazione dei trentacinquemila ebrei italiani (cinquemila erano riusciti lasciare l’Italia dopo il ’38) e delle migliaia di italiani antifascisti non ebrei, era al culmine e la zattera della speranza, che non comprendeva più l’Unione Sovietica, andava davvero alla deriva. Solo lo zio comunista, dopo il trauma del ’39 con l’alleanza Hitler-Stalin, sembrava recuperare più fede che fiducia nel santo Stalin, e ne trasmetteva anche a me qualche goccia. “Popolo italiano! Corri alle armi!” concludeva Mussolini il suo discorso di guerra che da piazza Venezia a Roma indirizzava a un popolo plaudente che quella piazza gremiva e a quello, forse un tantino meno plaudente, che ascoltava la radio in tutta Italia. Correre alle armi va bene, ma quanto a usarle l’entusiasmo calava. Dieci giugno. Qualche giorno più tardi si presentava a casa nostra la polizia e portava papà (ancora convalescente), la mamma e me in Questura, dove venivamo ospitati per tutta la giornata in una cella per così dire “di passaggio”. Non era tanto sorprendente perché papà era suddito britannico (per meriti di guerra: infatti, nato in Belgio, all’invasione tedesca del 1914 – ci avrebbe fatto l’abitudine alle invasioni tedesche – riparava con la famiglia in Inghilterra e si arruolava nell’esercito di Sua Maestà per non perdere neanche un minuto dei cinque anni di guerra che si sarebbe fatto sul fronte francese, dove per qualche mese sulle Argonne si trovò fianco a fianco con la Legione Garibaldina). Dopo gli accertamenti del caso veniva mandato al “confino” in un paesino marchigiano, Belforte sul Chienti provincia di Macerata. Gli avevano dato qualche giorno di tempo per prepararsi. Una volta arrivato al paese si presentava ai carabinieri, nella cui stazione avrebbe dovuto firmare tutti i giorni un registro delle presenze. La mamma ed io lo avevamo seguito, anche se, a parte essere ebrei, non avevamo altre “colpe”, essendo lei ed io, pure con doppia nazionalità, considerati italiani. Di seconda categoria, ma italiani (anche se per legge gli ebrei non lo erano più, né, dicevano, lo erano mai stati, da prima di Giulio Cesare in poi). Si era al principio dell’estate e mentre la mamma sarebbe rimasta con papà, io sarei tornato a Genova, ospite dei miei zii, per poter andare a scuola. Molti e molti anni dopo il Comune di Belforte mi avrebbe invitato, accogliendomi con tutti gli onori – discorsi, ricordi, festeggiamenti – che a dire il vero non meritavo affatto, anche perché in quel paese ero rimasto solo pochi mesi e tanti motivi per ricevere onori non li vedevo proprio. Ma quando ci sono andato mi sono emozionato davvero e sono rimasto grato al paese e ai suoi abitanti. Di nuovo a scuola dunque, a settembre del 1940. Devo dire che ero abbastanza bravo e in italiano andavo benissimo, ma non così bene da mimetizzare i miei sentimenti politici. E siccome i temi in classe dovevano essere tenuti a disposizione delle autorità, il professore e il preside mi scongiuravano spesso di farne un altro per sostituire quello “pericoloso”, cui pure era stato assegnato un buon voto. Ma io che cosa avrei potuto scrivere su “Italia, Italia, sacra alla nuova aurora con l’aratro e la prora”? Come vedete, il titolo di quel tema in classe lo ricordo ancora e la sua idiozia non smette di affascinarmi. La mia cultura politica però era rimasta ferma alla forzatamente recuperata fede in Stalin, malgrado l’indegno inciucio tra URSS e Germania. Non mi sembrava di avere altri santi a cui rivolgermi (la già santificata Inghilterra sembrava proprio sull’orlo del crollo). Non è proprio che credessi alla santità del comunismo staliniano, ma credevo che malgrado tutto il comunismo fosse la soluzione dei problemi, di tutti i problemi, magari con qualche maggiore gentilezza. E speravo tanto che Stalin avesse inventato qualche trucco sopraffino (contro Hitler, si capisce) e dopo il successo sarebbe tornato al “vero” comunismo, che con il fascismo e il nazismo nulla aveva a che fare. Un po’ semplice, ma io dove dovevo andare a sbattere? Chi dovevo cercare per esserne illuminato? A dire i vero uno finii per trovarlo, non era proprio comunista ma poteva andare. Lo conobbi a Firenze al matrimonio di un parente, di cui ricordo soltanto il pranzo di nozze che mi aveva deliziato con i suoi “petti di pollo alla Doney” (dal nome del locale), per me una emozionante scoperta in tempi in cui la grande cuisine era messa male anche lei. Ebbene, tra gli invitati c’era un personaggio un po’ buffo che vestiva in modo strano, con un tipo di cravatta che ho poi saputo chiamarsi “Lavallière” (dice google: “cravatta in mussola, dall’aspetto morbido e svolazzante”) ed era stata portata nell’800 dai “repubblicani storici”. E quel signore, di cui non ricordo il nome, repubblicano lo era davvero, seguace di Mazzini e di Cattaneo, e dunque antifascista doc. Oggi non riesco a rendermi conto come mai i fascisti lo facessero circolare, ma forse lo consideravano una macchietta. Però macchietta, malgrado la cravatta storica, non era davvero. Da lui ho imparato i primi rudimenti della politica, la prima illustrazione colta di quello che era il fascismo, e un po’ di storia dei partiti politici italiani prima che il fascismo li proibisse tutti. Il repubblicano storico fu un saggio maestro. Non era comunista, ricordo di aver pensato, però una brava persona e un antifascista per libera scelta, non come me (e molti altri ebrei) per costrizione, visto che era stato il fascismo a dichiararci guerra e non noi al fascismo, che in fin dei conti quella guerra contro un pugno di italiani non sarebbe nemmeno riuscito a vincerla. Noi eravamo al tappeto per KO alla prima ripresa. Ma “loro”, i fascisti, le battaglie vere le avrebbero perse tutte, dalla prima all’ultima. Per fortuna. Del 1941 ricordo il bombardamento navale di febbraio a Genova. Una sorpresa per me felicissima. Di quel bombardamento (più significativo che efficiente) ho saputo tutto in seguito da un marinaio calabrese, che sarebbe poi diventato un carissimo amico, imbarcato su un MAS (alla lettera Motoscafo Anti Sommergibile, una piccola unità che i siluri li aveva anche lei) incaricato della protezione della costa. Il mio amico Francesco Colella mi raccontava che alle prime cannonate dal mare nessuno al comando della difesa capiva e sapeva niente. I botti però li sentivano e accompagnavano i tiri diretti in città. Così fu deciso di mandare proprio il MAS dove era imbarcato a vedere un po’ cosa stava succedendo. In effetti la piccola unità scovava le navi nemiche a portata di binocolo. Si trattava, veniva appurato, di un paio d’incrociatori, di alcuni cacciatorpediniere e di diverse unità minori, in numero sufficiente da suggerire al giovane comandante del mezzo italiano di voltare saggiamente la prua verso il porto prima di finire nel mirino della squadra navale inglese. L’indomani però il comunicato di guerra (che veniva trasmesso alla radio tutti giorni all’una, e nei luoghi pubblici tutti in piedi e sull’attenti ad ascoltarlo) parlava di un intenso combattimento sostenuto dall’imbarcazione italiana contro il nemico inglese. Il MAS, raccontava il comunicato, non aveva esitato a impegnare i nemico in battaglia, malgrado la grande disparità di potenza di fuoco. Dopo avere inflitto diversi danni alle unità nemiche, il MAS faceva ritorno alla base. Per questo poi tutto il suo equipaggio, compreso naturalmente Francesco, riceveva una medaglia. Molto presto in quel 1941 la mia educazione politica doveva trovare uno sbocco importante. A giugno finiva l’anno scolastico. A Genova, dicevo, la scuola ebraica non era parificata, come invece erano quelle di Roma e Milano (le due Comunità ebraiche più numerose, ieri come oggi), e perciò ogni anno noi ebrei genovesi dovevamo dare l’esame da privatisti, esame non previsto, tengo a precisarlo, per tutti gli altri, gli “ariani”. L’esame si svolse quell’anno presso una scuola pubblica al centro della città. Qui venimmo isolati dai privatisti “normali”, esaminati prima di noi per non farci avere alcun contatto diretto al fine di non infettarli con il nostro virus razziale. Entrati dunque per ultimi in classe, ci aspettava il Preside, professor Castorina, a braccio destro alzato nel saluto fascista (era un omaggio o una intimidazione? Non l’ho mai saputo). Fatto sta che noi, in fila indiana, ci stavamo avviando ai banchi, e ognuno rispondeva al saluto nello stesso modo. Io invece, certo non per eroismo, del quale non ho mai avuto modo di controllare il livello, ma per una irresistibile inclinazione ad essere “bastian contrario”, mi è girato di non alzare il braccio, e di dire semplicemente ”buon giorno professore”. Il Preside però mi richiamava. “E tu perché non fai il saluto?”, al che mi sono dilungato a spiegargli che non facevo il saluto fascista in quanto perseguitato dal fascismo che mi faceva dare un esame a mio avviso non dovuto (altro per il momento non gli contestavo). Il Preside restò sconcertato per questo mio atto sovversivo. Ci pensò su un attimo, poi evidentemente decise di non farne niente all’insegna di quaeta non movere et mota quaetare (spero di non aver sbagliato la citazione dal Bianciardi de “La vita agra”), che rappresentava un po’ il manuale di sopravvivenza sotto la dittatura. La cosa quindi pareva finita lì (credo che il Preside si fosse poi limitato a farmi abbassare il voto d’italiano), ma ecco una telefonata la sera a casa dei miei zii, dove vivevo. Era un professore (professor Brenda) di quell’istituto, che mi comunicava laconicamente come in sala professori l’episodio fosse circolato e avesse fatto molto scalpore, facendo di me una specie di Giobatta Perasso detto Balilla (“Fiero l’occhio, svelto il passo, il ragazzo di Portoria è l’intrepido balilla, sta gigante nella storia…” Genova 7 dicembre 1746, inizio della rivolta contro l’occupante francese). Per non farla tanto lunga, questo professore mi rivelava la materia d’esame del giorno dopo, e poi così continuò le altre sere, fino a promozione trionfale. Dopo di che, minimo, sono andato a casa sua a ringraziarlo, e in quella occasione il professore ha incominciato a mettermi a parte dei misteri del comunismo. Non fino a farmi leggere “Il Capitale” (tomo di una noia mortale), ma il “Manifesto” (non il giornale dei nostri giorni) comunista, quello sì. E mi spiegò molte altre cose, fino a farmi capire che il mondo si reggeva sulla ricerca del profitto, tutto esosamente ricavato dallo sfruttamento dell’uomo. (Molto più tardi mi avrebbero spiegato sinteticamente questo concetto e cioè che il capitalismo è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e il comunismo è il contrario) In breve, sono entrato solennemente nel PCI clandestino, garante il professor Brenda che escludeva ogni mia simpatia per Trotzkij (temo invece che lo zio Armando avesse più di qualche simpatia per il leggendario capo dell’Armata Rossa). In pratica non è che facessi qualcosa di molto utile (se non forse, qualche tempo dopo, guadagnare le suore di Nevers, da cui prendevo lezioni di tedesco e inglese, alla causa sovietica, mettendo le bandierine dei contendenti su una grande carta geografica dell’Europa Orientale che le buone e colte suore avevano appeso al muro in mio onore), ma sinceramente il professore mi conquistava alla Causa appellandosi non solo ai miei sentimenti, ma anche alla mia capacità di pensare. In questo modo le mie quotazioni presso lo zio ferroviere comunista salirono alle stelle. A partire poi dal primo giorno d’estate del 1941, quando finalmente Unione Sovietica e Germania non potevano più essere tanto amici come prima perché Hitler aveva pensato bene di invadere anche la Russia, le mie speranze sulle sorti della guerra (è utile precisare che il mio tifo era finora tutto per l’Inghilterra) aumentarono di colpo. Dire “aumentare”, e per di più di colpo, è certamente esagerato perché nei primissimi giorni dell’aggressione le armate tedesche erano riuscite a dilagare in Russia, che sembrò dover fare la stessa fine degli altri paesi europei inghiottiti da Hitler. Come si sa, le cose non andarono in questo modo. La mia equazione politico-militare era questa: chi è il massimo nemico della Germania e dell’Italia? L’Unione Sovietica. Qual è la principale forza armata contro la Germania? L’Armata Rossa. Dunque viva Stalin, massimo Genio umano! Come ho detto, finii per farlo credere anche alle ottime suore di Nevers. (Parentesi: ma come ero bravo a quattordici anni!). Il professor Brenda doveva farmi conoscere libri di politica ed economia a me fino a quel momento del tutto ignoti, ma anche romanzi russi (e americani: tra l’altro era appena uscito uno splendido “Americana” curato da Vittorini che introduceva proprio alla letteratura contemporanea degli Stati Uniti con una serie di racconti dei grandi autori a stelle e strisce). Non ho mai più rivisto quel professore nel dopoguerra e non so dirmi il perché. Ma su questo ritornerò (forse) perché qualcuno mi aiuti a spiegare certe mie involontarie censure del “dopo”. Probabilmente ho spinto la mia macchina umana troppo in fretta. Nel 1942 ho studiato molto, mi sono stancato molto. Per esigenze familiari sono andato a lavorare (come fattorino in una piccola azienda di legname di proprietà ebraica), per cui ho dovuto continuare la scuola di sera, senza contare che un improvviso attacco di appendicite mi portava all’ospedale, dove, alla vigilia dell’intervento un prete voleva convertirmi, minacciandomi, in caso ci lasciassi la pelle, di andare all’inferno. Questo mi aveva fatto un po’ arrabbiare e per il momento fui io a mandarlo, come diceva Alberto Sordi in una sua canzone, “a quel paese”. Anno difficile dunque per me il ’42. Ottobre fu però fantastico. La notte del 22, mentre non ero a scuola ma in casa di un amico a studiare per l’indomani, verso le dieci di sera suonarono le sirene. Svogliatamente e senza fretta me ne andai in un solido rifugio. Dico solido perché a Genova ci sono diversi tunnel, proprio al centro della città, sovrastati da decine di metri di rassicurante roccia. Io mi avviai in uno di questi, non lontano dalla stazione Brignole. All’entrata e all’uscita del tunnel si levavano imponenti barriere fatte di sacchi di sabbia per proteggerci da eventuali schegge. Non doveva essere passato molto tempo quando incominciarono a sentirsi i primi tuoni di fuoco. Dapprima gli inconfondibili e inutili spari della contraerea, poi, dopo i rombi di centinaia di aerei (si saprà poi che questa del 22 ottobre 1942 di Genova sarebbe stata la prima delle più grandi incursioni aerea sull’Italia condotta da bombardieri inglesi e americani che si alternavano), le prime esplosioni, Dalle dieci, dieci e mezza, le esplosioni continuarono fino quasi all’alba. Verso le quattro/cinque del mattino l’urlo continuato delle sirene segnalava il cessato allarme. Appena uscito dal tunnel mi misi a correre verso la case dei miei zii, dove si trovava in quel momento anche mia madre. Dico correre, ma penso di avere volato. Attorno a me la città bruciava. Alle bombe dirompenti gli incursori avevano aggiunto quelle incendiarie, oltre a migliaia di spezzoni incendiari. Così davvero alle case sbriciolate all’interno facevano corona le fiamme che si levavano al vento da ogni dove. In fiamme la stazione ferroviaria di Brignole, in fiamme i tetti delle case di Corso Torino, dove vivevo. Col cuore in gola arrivai in vista del palazzo della mia casa. Il tetto bruciava (gli spezzoni), ma l’edificio mi sembrava intatto. Trovai i miei zii e mia madre sani e salvi in cantina, promossa però dal fascismo a rifugio antiaereo. A questo punto la mia ansia, la mia angoscia erano cessate per lasciare spazio ad una incontenibile esaltazione: sentivo in bocca il gusto drogato della vendetta, di cui capii immediatamente il senso velenoso e inebriante. Bastardi senza gloria.
1942: gli ebrei fuori scena
Il 1942 non fu solo questo, anche se sul finire dell’anno le sorti della guerra apparvero a tutti rovesciate. Due i momenti topici alla fine di quell’anno: la rovinosa uscita dell’Italia dalla Libia e dall’Africa e la disfatta tedesca a Stalingrado. Tutto ciò non impediva al governo italiano di continuare a “epurare” gli ebrei dalla società in ogni settore, anche in quelli che potevano essere stati dimenticati. Ma come dimenticare il peggior nemico che minacciava l’Italia? Non lo si dimenticò. Si conoscono abbastanza le leggi razziali del 1938 che escludevano gli ebrei dalle scuole (docenti e discenti), dall’amministrazione pubblica, dall’esercito, dalle banche, dalle assicurazioni e poi via via da ogni tipo di lavoro. Tutto per la difesa della pura razza italiana e di quegli indifesi quaranta milioni di italiani ariani dalle ire concupiscenti di quarantamila ebrei, appena sbarcati in Italia da non più di duemila anni, e armati fino ai denti. Si conosce meno un’altra legge, la numero 517 del 19 aprile 1942, anno XX dell’era fascista, firmata da Vittorio Emanuele, Mussolini, Pavolini e Grandi, quest’ultimo anche nella sua qualità di Guardasigilli. Il titolo della legge è “Esclusione degli elementi ebrei dal campo dello spettacolo”. Dalle leggi antiebraiche del 1938 erano passati quasi quattro anni, con l’Italia impegnata da due in una guerra andata male fin dal primo giorno e avviata ad essere perduta disastrosamente. Ma, si sa, la difesa della razza prima di tutto. Recita il primo articolo: “E’ vietato l’esercizio di qualsiasi attività nel campo dello spettacolo a italiani ed a stranieri o ad apolidi appartenenti alla razza ebraica (.), nonché a società rappresentate, amministrate o dirette in tutto o in parte da persone di razza ebraica”. Era questo il passo decisivo verso la salvezza del paese e la tutela della sua integrità ariana, minacciata tra gli altri da quel Trio Lescano (tre ebree olandesi) le cui canzoncine, come tuli-tuli-tulipan, trasmesse sprovvedutamente dall’EIAR, diffondevano germi (appartenenti anche loro alla razza ebraica) di alta pericolosità per le innocenti orecchie degli ascoltatori? Ma ecco a rafforzare le difese l’articolo due della legge. “Sono vietate la rappresentazione, l’esecuzione, la proiezione pubblica e la registrazione su dischi fonografici di qualsiasi opera alla quale concorrano o abbiano concorso autori o esecutori italiani, stranieri o apolidi appartenenti alla razza ebraica e alla cui esecuzione abbiamo comunque partecipato elementi appartenenti alla razza ebraica. Sono del pari vietati lo smercio dei dischi fonografici e importazione di matrici di dischi previsti dal precedente comma e la successiva riproduzione delle matrici stesse”. L’Italia avrebbe potuto essere salvata in questo modo dalle orde angloamericane? Chissà. Certo buttare fuori gli ebrei dai palcoscenici e dagli schermi costituiva un robusto aiuto alle truppe italiane in Libia (l’Etiopia e l’Impero erano già andati) che qualche mese più tardi incominciavano una ritirata che si sarebbe conclusa solo con la cattura da parte inglese di trecentomila soldati italiani e tedeschi e la fine della “Quarta Sponda”, come si amava chiamare la Libia. Ma l’importante aiuto bellico non doveva bastare. Eppure questa legge si dilungava nei più minuti particolari (non si sa mai). Articolo tre. “E’ vietato utilizzare in qualsiasi modo per la produzione di film, soggetti e sceneggiature, opere letterarie, drammatiche, musicali, scientifiche e artistiche, e qualsiasi altro contributo di cui siano autori persone appartenenti alla razza ebraica, nonché impiegare e utilizzare comunque nella detta produzione, o in operazioni di doppiaggio o di post sincronizzazione, personale artistico, tecnico, amministrativo ed esecutivo appartenente alla razza ebraica”. C’è da stupirsi che questi provvedimenti non siano risultati sufficienti per rovesciare le sorti della guerra, visto che la difesa della pura razza ariana era una priorità assoluta, costasse quel che doveva costare, anche sapendo, come diceva una canzone dell’epoca, che “tutte le cose son come le rose che durano un giorno e niente più”. Le leggi razziali sono durate ben di più e hanno inferto ferite profonde al nemico più nemico che ci fosse, la comunità ebraica italiana, quarantamila persone tra quaranta milioni di “ariani”. E pazienza se dopo l’Africa l’Italia ha perso tutto. E l’onore? Mah. La legge del ’42 va avanti (articolo quattro), imponendo la più stretta sorveglianza ai film provenienti dall’estero, che dovevano essere accompagnati dagli “elenchi nominativi degli autori delle opere utilizzate per la produzione dei film medesimi e di coloro che hanno ad essa concorso con contributi artistici e tecnici…”. All’articolo cinque si legge che “sarà nominata una Commissione (.) alla quale è attribuito il compito di provvedere alla compilazione e all’aggiornamento degli elenchi di autori e di artisti esecutori appartenenti alla razza ebraica”. Saggia decisione, le precauzioni non sono mai troppe. Ah, dimenticavo. Dice l’articolo sei che “Ai componenti della Commissione saranno corrisposti per ogni giornata di adunanza gettoni di presenza (…)”. Beh, teniamo famiglia. Menomale che Stalin c’è, pensavo.
Il 1943, la fuga, la salvezza
Si parlava prima di normalità nell’anormalità. La vita per noi ebrei si era andata assestando ai livelli più vergognosamente bassi. A dire il vero la vergogna avrebbe dovuto essere sentita a) da chi aveva emanato le leggi razziali, b) da chi le aveva approvate, quelli per esempio che si erano gettati sui posti di lavoro lasciati liberi dalla cacciata degli ebrei, c) da chi era rimasto indifferente all’emarginazione degli ebrei, d) e soprattutto dagli intellettuali, docenti, artisti, giornalisti, scrittori (come dire tutti) che, non richiesti, si erano affrettati a far sentire la loro voce di esaltazione delle leggi medievali e persecutorie. Ma la vita, come l’erba nelle strade abbandonate e deserte, ha sempre o quasi il sopravvento. Soprattutto per i più giovani, come me, che alla scuola ebraica, all’emarginazione si erano abituati senza troppi dolori. Poi però, bruscamente, se le strade vengono annaffiate con il napalm, l’erba smette di crescere. Anche la natura conosce dei limiti di sopravvivenza. Per noi il napalm si chiamò 8 settembre.
8 settembre
Chiuse le poche settimane di gioiosa speranza, cominciate il 25 luglio con la caduta del fascismo, l’arresto di Mussolini e il dissolvimento di quelle divisioni che portavano ai baveri della giacca i fascetti, l’incubo avvolse l’Italia. Per gli ebrei, cacciati ovunque come animali da preda, si trattava di una condanna a morte. Il 25 luglio ci aveva ingannato tutti. Aveva ingannato in particolare i più semplici, i più sprovveduti e gli ebrei cui quella giornata era parsa segnare la fine di un brutto sogno. L’inimmaginabile peggio doveva ancora incominciare. In quella parentesi – 25 luglio/8 settembre - si era incominciato a parlare ad alta voce di politica. Si erano rivisti i partiti e quello che era ritenuto (non solo da me) il più antifascista di tutti (a parte Giustizia e Libertà che sembrava essere per così dire e a torto il partito antifascista dei signorini) era il PCI, il ricostituito alla luce del sole Partito Comunista Italiano, dove l’accento era pertanto più sul “comunista” che sull’”italiano”. Allora, a 16 anni, a questo non ci pensavo proprio, e anche lo zio ferroviere comunista, malgrado non fosse stato ancora fatto tornare con tante scuse al lavoro, aveva perdonato l’URSS e Stalin. Avrà avuto le sue buone ragioni a fingersi amico di Hitler, diceva. Io non avevo dubbi. Del resto non avevo fatto a tempo ad averne. L’8 settembre ci precipitò il cielo in testa. La sera del 7 settembre nel piccolo paese vicino alla città in cui papà era stato confinato e dove si trovavano molte persone sfollate per evitare i bombardamenti, alcuni ragazzi e io avevamo organizzato un piccolo spettacolo teatrale in cui immaginavamo qualcuno che, restato in coma per dieci anni, si fosse risvegliato all’improvviso, trovandosi alle prese con le novità determinate dalla fine del fascismo e della dittatura. In seguito questo trucco è stato ripreso mille volte, ma allora non lo aveva messo in scena nessuno. Nel teatrino messo a disposizione dalla parrocchia erano stati invitati i rappresentanti dei presidi militari, uno italiano e uno, ahimè, tedesco. Dico ahimè perché tra le varie scene, una doveva mirare ai tedeschi. Non era proprio feroce ma, via, la satira era pesante. Molto poco in confronto di quello che stavano davvero facendo i tedeschi in Europa, ma troppo per la salute pubblica. Tuttavia, devo dire che anche da parte degli ufficiali della Wehrmacht, la cosa pareva essere stata presa con sufficiente spirito, anche quando il “risvegliato” aveva visto con raccapriccio la fotografia di Stalin al posto di quella di Mussolini. L’idea di Stalin era stata mia. Dio salvi il re. La giornata successiva doveva farci rimpiangere di avere messo su lo spettacolo. L’atmosfera era pesantissima, le notizie, contraddittorie, ci turbarono molto. E il giorno dopo, il 9, un sidecar con due soldati tedeschi si piazzava davanti alla caserma dei nostri soldati, che nessuno aveva avvertito dell’armistizio, nessuno aveva dato chiari ordini, e senza colpo ferire li aveva disarmati tutti. Avevo capito come si stavano mettendo le cose. Con un mio amico, figlio di un antifascista cattolico che aveva accolto i miei genitori e me con simpatia e affetto nella sua famiglia, decidevamo di andare nelle vicine montagne dove senza dubbio, pensavamo, si sarebbero raccolti soldati e volontari per combattere i tedeschi in attesa che le forze alleate sbarcassero in Liguria e mettessero in fuga quello che ora era anche ufficialmente il “nemico”. Con lo zaino in spalla, una pagnotta e una frittata ci siamo messi in moto e via, su per la montagna in cerca di volenterosi. Che però non avevamo trovato. Avevamo inteso invece un rombo che ritenevamo essere di cannoni della marina inglese ed invece chissà cosa diavolo era. Fatto sta che pensavamo “Ecco, ora sbarcano e tra un giorno o due arriveranno fin qui e allora ecco perché non si fa vivo nessuno dei nostri”. Grave errore. E anche l’aeroplano che ci volava sulla testa non era un ricognitore alleato come avevamo creduto, ma un aereo tedesco che buttava volantini per incoraggiare i soldati italiani sbandati a presentarsi al comando della Wehrmacht dove sarebbero stati accolti a braccia aperte (“per strangolarti meglio” avrebbe detto il lupo a Cappuccetto Rosso). Ma noi due imperterriti restavamo in attesa. E aspetta oggi, aspetta domani, volatilizzate pagnotte e frittate, sperimentando che non tutte le erbe sono commestibili, ci siamo trovati ad essere letteralmente presi per la gola, o meglio, per lo stomaco. Per questo abbiamo fatto tristemente ritorno al paese, dove il maresciallo dei carabinieri ci esortava a scappare, dato che non solo lui non sarebbe stato più in grado di difenderci, ma che lui stesso stava per fuggire (ho saputo anni dopo che si era aggregato a un gruppo di partigiani combattendo con valore i tedeschi e i loro servi repubblichini). Così il mio amico e io ci siamo lasciati. Lui scappava da una parte perché era in età militare, io da un’altra con i miei genitori perché eravamo in età compresa tra zero e cento, l’età giusta quindi per essere ammazzati dai tedeschi. Dove potevamo andare? Ma certo, a Genova, dove avevamo parenti e amici e, per me, anche qualche “compagno” che però lì per lì, niente avrebbe potuto fare per noi. A salvarci, nascondendoci in casa sua, è stata la fidanzata “ariana” di un mio cugino (e anche lui “compagno”). In quella casa non ho manifestato alcuna propensione al coraggio. Altrimenti detto vivevo di paura, giorno e notte. Sapevo che più o meno cose buone dai tedeschi non c’erano da aspettarsi, pure ignorando l’assai più cruda realtà. Dunque, la paura. E a dirla tutta, il terrore. I sobbalzi la notte per ogni rumore di camion che si avvicinava, il terrore per ogni scampanellata alla porta. E il “Capitale” non poteva aiutarmi. Poteva aiutarmi – incoscientemente – il cinema, il “pidocchietto” della mia infanzia genovese, l’”Orientale”. Incoscientemente perché non sapevo ancora che proprio nei cinema sarebbero piombati i tedeschi a fare retate. Ricordo: “Il carretto fantasma”, remake francese di un film svedese. Come si può capire già dal titolo, un film pauroso, tanto che a un certo momento mi prende un attacco di panico ed esco di corsa. A casa non mi passa. E’ allora che i miei genitori decidono di darsi una mossa. Amici degli amici (sì, siamo in zona mafiosa) ci procurano a) documenti falsi, b) contatti con il capo di una vera banda di ladri che a sua volta c) ci mette in contatto con un contrabbandiere, uno “spallone”. La metà dei risparmi di tutta la vita mio padre prendono il volo. Ma la “macchina” è pronta e il motore acceso: manca di ingranare la prima. A far partire la macchina occorrono tre avvenimenti che si producono nel giorno di Kippur, il giorno del pentimento e del digiuno per gli ebrei. Non è che in famiglia siamo molto osservanti, ma il digiuno di Kippur lo rispettiamo (da qui lo sprezzante titolo di “kippur-jude”, cioè ebrei solo a Kippur, che arriva dagli osservanti ai così-così come noi). Bene, all’alba di quel giorno – siamo ai primi di ottobre del 1943 – la scampanellata alla porta di chi ci ospita è dei soldati tedeschi. Fuori i documenti di tutti i presenti. Bene, tutto in ordine. Poi perquisiscono la casa: cercano un loro disertore. Non c’è, se ne vanno. Mi scoppia il cuore. Poche ore dopo è la volta dei fascisti a cercare un comunista. Documenti di tutti; perquisizione: il comunista non c’è. Ci sarei solo io, ma ritengo che non sia bene farlo sapere a tutti. Per finire ci avvisano che la stessa mattina i tedeschi sono andati a cercare mia nonna, Rosa Funaro nata Pesaro, però senza trovarla, dato che la nonna era morta esattamente tredici anni prima senza avvertire l’esercito tedesco. Sono a pezzi. Via subito da Genova e, speriamo, dall’Italia. Così partiamo per Milano, dove veniamo ospitati nella villetta del capobanda, gentile, corretto, amichevole. Alla sera c’è consiglio d’amministrazione della banda a casa sua e lui non vuole far sapere ai suoi uomini chi siamo. Non si sa mai. Sono uomini d’onore, ma è meglio non metterli alla prova. Così presenta mio padre come un collega: specializzazione gioielleria. E visto che mio padre davvero se ne intende, sta al gioco. Un gioco dove bisogna saper bluffare. Stiamo a Milano una settimana. E poi viene il giorno. Il giorno è il 14 ottobre 1943. Partiamo da Milano la mattina. E’ con noi lo spallone che dovrà farci raggiungere – e oltrepassare – la frontiera con la Svizzera. A Como dobbiamo aspettare qualche messaggio, forse qualche segnale diretto al nostro accompagnatore. E aspettiamo. Si fa l’ora di mangiare qualcosa. Non per me, che ho a gola serrata da dieci giorni, e nemmeno per i miei. Lo spallone ha fame. Andiamo in una modesta trattoria. Ci mettiamo appena a sedere quando entrano soldati tedeschi. Non si tratta di gente della Gestapo, e nemmeno di SS, perché in quel caso non sarebbe potuta sfuggire la paura dipinta sulle nostre facce, voglio dire la mia e quella dei miei genitori, il nostro accompagnatore invece trasudava tranquillità, chissà perché. Il tempo che siamo rimasti in quella trattoria è stato interminabilmente lungo. All’uscita barcollavamo. Ma l’ora era quella giunta. Ci siamo avviati verso la periferia di Como e ci siamo avviati su un sentierino che doveva portarci alla cima del monte Bisbino, dove passava il confine tra Italia e Svizzera. Un confine che a quel tempo era segnato da una lunga rete metallica saldamente conficcata nel terreno. Ho saputo solo dopo moltissimo tempo che il monte fa parte delle Prealpi Luganesi (sottosezione delle Prealpi Comasche) e misura alla cima 1325 metri. E’ però comprensibile che al momento non fossi particolarmente interessato a questioni di geografia. E sali e sali, con valige e cappotti addosso e una ulteriore preoccupazione per mio padre con il cuore in disordine, e per mia madre, non proprio allenata a escursioni di montagna. Ci fermiamo a mezza costa in una specie di baita diroccata dove ci fermiamo per la notte, sdraiati sulla paglia e per cena alcune castagne abbrustolite al camino (che tuttavia non sono riuscito a mandar giù, per via della strozza chiusa). All’alba del giorno 15 ottobre ricominciamo a salire, e questo secondo pezzo è assai più duro. Ma ecco, ci dice lo spallone, ancora cinquanta o sessanta metri e siamo al confine. Non facciamo a tempo a tirare un sospiro di sollievo che l’abbaiare di un cane anticipa l’arrivo di un soldato con i fascetti al posto delle stellette e una pistola in mano che ci intima di alzare le mani. E per meglio far capire che non intendeva scherzare si avvicina a me e mi appoggia piuttosto vivacemente la canna alla testa. Non ho più fiato, non ho più saliva in bocca, mi pare di sentire il sapore del ferro. Insomma, è un esperienza difficile da dimenticare, e infatti qualche sogno del genere mi è capitato di fare per molti anni, fino a quando ho imparato nel sonno a censurare i sogni. Mio padre intanto, che aveva recuperato un po’ di lucidità, si rivolgeva allo spallone per cercarne l’aiuto, e a sua volta lo spallone confabulava con il milite fascista che rinfoderava la pistola e dopo un po’ decideva di essere misericordioso, in cambio, si capisce, di tutto il denaro che mio padre aveva con sé e che costituiva la seconda metà (la prima, come dicevo, era già partita) dei risparmi di tutta la sua vita. Vita che aveva comprata per tutti e tre. L’avventura non doveva ancora essere finita. Oltrepassata sul crinale la frontiera, dopo pochi passi ci imbattiamo in una pattuglia svizzera che ci porta al più vicino comando, dove un tenente ci interroga separatamente e poi decide di rimandarci indietro. I nostri documenti erano falsi e nulla poteva provare che noi fossimo ebrei (la circoncisione, che a poche decine di metri ci avrebbe condotti a morte, qui non assicurava la vita). Soltanto dopo ore di sforzi riuscimmo a farci accogliere. Qui potrebbe finire un capitolo, di sicuro importante, della mia vita, visto che eravamo ma al sicuro, e la mia passione politica non finiva qui, anzi. Non mette conto che io stia qui a raccontare i quasi due anni di permanenza in Svizzera, ma è invece della mia attività comunista che mi preme raccontare, per togliermi un peso dal cuore. In Svizzera ho potuto concludere un ciclo scolastico e incominciare quello universitario, ma soprattutto sono stato attratto e coinvolto nella psicoanalisi che mi è stata fatta scoprire da un mio compagno di internamento e studiare a Ginevra con le lezioni universitarie di uno psicoanalista strettamente freudiano. La mia passione politica si esercitava invece sulle pagine di un giornale socialista ticinese di cui non farò il nome neanche sotto tortura per quanto scrivevo sull’URSS e su Stalin, al quale dedicavo i miei peana. Avevo diciassette anni. Lo dico per rendere meno dura la punizione, rimettendomi all’indulgenza della Corte. Al mio ritorno a Genova dalla Svizzera nell’agosto 1945 (un viaggio durato una dozzina di giorni) ho trovato subito una occupazione provvisoria ma necessaria alla sopravvivenza della mia famiglia, rimasta senza una lira e ospitata per alcuni mesi da uno zio. Dico subito che si trattava di un lavoro per così dire capitalistico, cioè molto lontano dai miei sogni giustizialistici e degni delle mie aspettative: portiere e buttafuori in un circolo di militari inglesi (NAAFI-EFI) con turni pomeridiani e notturni. Me la cavavo piuttosto bene: conoscevo abbastanza l’inglese per farmi capire. In genere posso dire che mi divertivo e avevo i miei primi soldi, con uno stipendio sontuoso per quei tempi e incrementato dall’approvvigionamento allo spaccio interno di stecche di sigarette che mi consentiva di dedicarmi con successo alla borsa nera. Naturalmente i primi mesi di questo ritorno non sono stati tutti così divertenti. In primo luogo dopo sette anni (dal 1938 al 1945) esiliato in patria ed escluso dalla società civile e incivile, non sono riuscito a riallacciare fili troppo a lungo spezzati. Quelli relativamente integri erano con altri coetanei ebrei, ex compagni alla scuola ebraica della città, con i quali (e solo con loro) fatalmente riprendevo contatto. Un contatto, dico subito, non sano, perché mi escludeva ancora dal resto della società. Mi rimetteva in un ghetto. A Genova, la cui scuola ebraica era stata locata nel vasto piano sotto la cupola della Sinagoga, ci siamo trovato tutti, gli studenti ebrei di allora: Tutti, ma voglio meglio dire, i superstiti. Ne mancavano, ragazzi e ragazze del dopo settembre 1943. Ne mancavano e nessuno ne parlava. E nessuno raccontava niente di sé. Eppure ognuno di noi “salvati” ne avrebbe avuto da raccontare.
Tra il 1952 e il 1953 qualcosa accade
A dicembre del 1952 si svolgeva a Genova l’annuale congresso della FGEI, la federazione dei giovani ebrei d’Italia. A quel tempo i giovani ebrei erano fortemente politicizzati e quasi tutti orientati a sinistra, in maggioranza PCI. Io all’epoca ero ancora iscritto al partito e al congresso di Genova rappresentavo l’esponente dell’ala più a sinistra. Come in tutti i congressi che si svolgono in Italia i problemi pratici, concreti – per noi i soldi per mandare avanti la baracca, l’organizzazione dell’annuale campeggio estivo e roba del genere – anche il nostro sembrava che discuterne fosse indegno di noi. Preferivamo (preferivo) trattare del pianeta, prendere decisioni epocali. E su questo litigavamo molto. In verità qualcosa di serio su cui dibattere c’era davvero. Negli Stati Uniti erano stati condannati a morte per spionaggio a favore dell’URSS due scienziati ebrei, Julius Rosenberg e la moglie Ethel (malgrado le proteste da tante parti del mondo sarebbero morti entrambi sulla sedia elettrica il 19 giugno del 1953). Il 20 novembre del 1952, giusto un mese prima del nostro congresso, erano stati arrestati e processati a Praga quattordici tra ministri del governo comunista e dirigenti del partito, accusati di spionaggio, alto tradimento, e così via. Tredici di loro, tra cui Slansky, capo dei capi, e Artur London, viceministro egli Esteri, che avrebbe poi raccontato in un libro di memorie l’intera vicenda. Dei quattordici, dodici venivano fucilati subito, per non perdere tempo, e due (tra cui appunto London) andavano all’ergastolo. Normale per un paese comunista (l’Unione sovietica ci era già passata alla grande), meno normale che tutte le vittime fossero ebrei. Per questo molti capi d’accusa parlavano di collusione degli imputati – e peggio - con elementi “sionisti” e anche con il giovanissimo Stato d’Israele, persino da molti anni prima della sua nascita. La verità storica è che i coniugi Rosenberg avevano davvero passato notizie riservate a Mosca, la quale peraltro era ancora tecnicamente paese alleato agli Stati Uniti pur dopo la fine della guerra. Per questo, e anche per lo scarso valore delle notizie trasmesse, la condanna a morte di entrambi fu una autentica mostruosità giuridica. Per quanto riguarda la “banda” di Slansky, tutti i processati e condannati erano assolutamente innocenti delle cervellotiche accuse e quindi anche queste condanne furono un ancora più mostruoso atto giuridico (semmai erano stati tutti colpevoli di avere instaurato una turpe dittatura comunista in Cecoslovacchia nel 1948. Comunque la linea del PCI fu semplice: innocenti i Rosenberg, colpevole la “banda” di Slansky. Una linea adottata non senza qualche imbarazzo dal partito di Togliatti. E, scendendo di molti gradini, anche il mio imbarazzo per dover difendere la “linea” dl PCI al congresso giovanile ebraico. Non potevo tuttavia concordare con l’Unità che a proposito dei Rosenberg scriveva qualche esagerazione che “quando l’affare è scoppiato, un velo di paura, come non avevo mai visto prima, sembrava coprire le masse ebraiche”, data poi dalla completa innocenza di due coniugi sostenuta dall’organo di stampa del PCI, per il quale invece “Slansky è evidentemente della stessa razza dei Kostov, dei Rajk, dei Tito”, conclamati traditori e come tali perseguiti (solo Tito riuscì a restare in sella). Non potevo più concordare con l’Unità quando sul suo banco degli accusati compare “Oren, agente delle organizzazioni sioniste… accolto sotto questa veste a Belgrado dai più vicini collaboratori di Tito…”, tutti ovviamente spie e traditori. E per l’Unità tutti ebrei, incominciavo a notare. “Ecco – scrive il 13 novembre – Slansky e Clementis favorire l’espatrio in Israel di grandi capitalisti, i quali esportavano clandestinamente valute pregiate pr oltre sei miliardi di corone”. A chiamare a testimone a favore, l’Unità chiama il suo inviato a Praga, Sergio Segre, un ebreo, nel più collaudato sistema sovietico di far togliere le castagne dal fuoco a un componente del gruppo che si vuole eliminare. Antisemiti i nuovi padroni della Cecoslovacchia? Ma quando mai, scrive Segre. Sono “le inviperite centrali di propaganda americana (che) ricorrono a nuove menzogne come quella dell’antisemitismo in Cecoslovacchia che sarebbe ‘provato’ dal fatto che la maggior parte dei processati sono di religione israelita”. Ebbene, torniamo a volare basso. Al congresso di Genova ho sostenuto le tesi comuniste per onor di firma, ma ormai non ci credevo più. Nel 1953 non avrei più rinnovato la tessera del PCI e avrei incominciato a documentarmi seriamente. E a far coro con il partito, ecco Amleto Boccaccini, Ottavio Pastore vi dicendo. Pochi mesi dopo ecco l’arresto in URSS di un gruppo di medici, anche loro accusati di aver perpetrato e di accingersi a perpetrare orrendi reati, come uccidere lo stesso Stalin, e anche loro ebrei. E ancora l’Unità a scrivere “Nessuna lotta contro gli ebrei. Lotta contro i nemici del progresso umano”. Progresso rappresentato da quel bonaccione di Stalin che per fortuna poco tempo dopo sarebbe morto per fortuna dei medici in galera e di tutta la Russia, ebrei russi compresi. Ma con lui, strillava a tutta pagina l’Unità, moriva il più grande genio di tutti i tempi. Più vicino a noi il Medio Oriente e la guerra-lampo, detta “dei sei giorni” (tanto era durata), che era stata nel 1967 la fulminea vittoriosa risposta d’Israele all’aggressione congiunta di Egitto, Giordania, Siria e Iraq. Ma l’angoscia, presumibilmente autentica, provata da gran parte dell’opinione pubblica italiana per la sorte promessa a Israele dal mondo arabo alla vigilia della guerra dei sei giorni, lentamente evapora di fonte al diverso risultato temuto. La simpatia per Israele condivisa dal PCI lascia spazio sopra tutto a quest’ultimo all’atteggiamento via via più critico, fino a diventare nettamente ostile per l’ossequio dovuto a Mosca che oltre a essere il faro-guida del PCI tra l’altro gli paga in dollari i conti. Si parva licet, la mia rottura totale con il comunismo (sovietico o italiano che sia) coincide con il “tradimento” consumato alle Botteghe Oscure nei confronti non solo d’Israele, ma anche degli ebrei italiani, raffinati esperti nell’individuare ogni fonte di antisemitismo sotto qualunque forma (cosmopolitismo, sionismo, ora anche antisraelianesimo) si manifesti. Nel Sessantotto si discuterà ancora sulla Risoluzione dell’ONU del novembre ‘67: Israele deve ritirarsi dai territori occupati (versione francese “des territoires”) o da territori occupati (versione inglese “from territories”)? Per l’Unità, organo di stampa del PCI le cose erano chiare fin dall’anno prima. Era infatti il 14 giugno del ’67, dunque appena un paio di giorni dopo la cessazione delle ostilità, quando l’Unità decideva che lo Stato d’Israele era il frutto di “un movimento tecnocratico e nazionalista, solidamente appoggiato dalle banche americane, frutto di pionieri di gran classe, conquistatori nati”. Braccio armato di questi banchieri (sottinteso ebrei o ebreizzanti) erano stati naturalmente quei pionieri “conquistatori nati” e “di gran classe”, in gran parte probabilmente addestrati in quegli shtetl miserabili di lumpenproletariat (per dirla con Marx) che “vivevano d’aria” (una sintetica espressione yiddish, luftmensch)), definiti – gli ebrei - da De Gaulle “un popolo sicuro di sé e dominatore”. Ora, giugno 1968, a un anno preciso dalla guerra dei sei giorni, l’Unità commemora l’”infausto avvenimento”, cioè per lei la vittoria israeliana: “Ricordiamo tutti quanti quanto accadde un anno fa. Un’abile propaganda, mistificando tutti i dati del problema, aveva portato larga parte dell’opinione pubblica italiana e mondiale a credere davvero al pericolo dello sterminio e del genocidio degli ebrei”. Il titolo è “Medio Oriente a un anno dalla guerra di conquista”. Ma davvero era stata tanto abile quella propaganda? L’allora presidente egiziano Gamal Abder Nasser aveva annunciato da Radio Cairo alla vigilia di quei “sei giorni” che “La guerra con Israele non verrà limitata alla frontiera egiziana o a quella siriana. Sarà una guerra totale e il suo obiettivo sarà la distruzione d’Israele”. E dalla stessa Radio Cairo il 5 giugno del ’67 usciva questa garbata esortazione: “Uccideteli tutti, non lasciatene uno vivo sulla terra, che avrà sempre qualcuno che lo piangerà”. Un altro trucco della propaganda sionista? Curioso quello che ha potuto fare quella propaganda. Ma il ’68 ci propone altri fatti. In Francia la rivolta degli studenti vede confluire nelle file dei “ribelli” anche molti operai. La risposta del presidente Charles De Gaulle arriva il 30 maggio con lo scioglimento delle Camere. Alle elezioni successive la sinistra subisce una dura sconfitta. Tra non molto però De Gaulle sarà costretto a dimettersi. Gli studenti universitari otterranno dei risultati, principalmente quello della moltiplicazione delle università a Parigi che decongestionerà la Sorbonne. Un risultato sicuramente positivo ma più borghese che rivoluzionario. E gli operai? Tornano in fabbrica, però De Gaulle è battuto. Ma una crisi più grave si abbatterà sull’Europa. Il 21 agosto le truppe sovietiche e quelle degli eserciti dei paesi vassalli (salvo l’Ungheria che dice “no” a Mosca) invadono la Cecoslovacchia, a venti anni precisi del golpe che nel 1948 aveva portato i comunisti al potere (cinque anni più tardi, come ho già detto, quasi tutta la dirigenza comunista cèca finirà fucilata, dopo un processo con pesanti connotazioni antisemite che sarà la copia esatta dei Grandi Processi-farsa di Mosca conclusi – potenza del numero 8 – nel 1938. L’occupazione sovietica mette fine al tentativo di Alexander Dubcek di dare vita a un “comunismo dal volto umano”, una contraddizione in termini e la fine della “primavera di Praga”. In Cecoslovacchia non smettono di funzionare i plotoni di esecuzione e le botole del capestro. Le carceri sono piene. La condanna per l’azione sovietica, che riporta alla mente le analoghe azioni tedesche prima della seconda guerra mondiale, è quasi unanime in Europa e nel mondo. Persino nei partiti comunisti dei paesi democratici c’è disagio. La “cortina di ferro” di churchilliana memoria incomincia a mostrare delle crepe. Per farla crollare ci vorranno altri vent’anni. Sono arrivato alla fine del mio rapporto con il PCI. Gli anni a venire mi sono serviti per studiare a fondo l’Unione Sovietica e la sua storia sanguinosa, per ripudiare non solo il comunismo italiano, ma tutto il marxismo, il cui fallimento totale mette in risalto il fallimento catastrofico di un sopravvalutato filosofo come Carlo Marx la cui valigia dei sogni ha finito per attirare milioni di persone, soprattutto in quei paesi dove i partiti che a lui si sono richiamati non sono mai, per fortuna, arrivati al potere.
Fine