L’uomo che pensava di essere il Messia Curt Leviant
Traduzione di Rosanella Volponi
Giuntina Euro 15
All’uscita in America, nel 1990, il Premio Nobel Elie Wiesel lo osannò come “toccante e meraviglioso”. “Un libro “incantevole, magico e sensuale”, gli fece eco la New York Times Book Review mentre Publishers Weekly e Los Angeles Heritage lo definirono, rispettivamente, “ipnotico e brillante” e “un capolavoro degno di Kafka e Bellow”. Il libro è L’uomo che pensava di essere il Messia dello scrittore americano Curt Leviant, uno dei massimi esponenti della letteratura ebraica contemporanea (‘La ragazza Yemenita’ e ‘Diario di un’adultera’) nonché illustre traduttore di classici in lingua Yiddish. Al centro del suo nuovo romanzo (edito in Italia dalla Giuntina di Daniel Vogelmann) vi è la profonda crisi spirituale di Rabbi Nachman di Bratzlav, famoso maestro chassidico pronipote di Israel ben Eliezer, il santo Baal Shem Tov, fondatore del chassidismo. Un’inaspettata tentazione nelle sembianze di una giovane non ebrea suscita in Nachman un desiderio irrefrenabile che gli fa smarrire la conoscenza dell’alfabeto ebraico, fondamento di tutto il suo sapere e dell’intera creazione. E’ allora costretto ad allontanarsi da Bratzlav per recuperare le sue amate lettere e insieme la capacità di sentire il sussurro segreto di Dio, anch’esso improvvisamente svanito. Da Vienna, dove stringerà amicizia con Beethoven (“di origine ebraica”) a Istanbul fino in Terra d’Israele, Nachman intraprende un viaggio fitto di tentazioni alla riconquista della propria anima. “Sono felice che un libro tanto ebraico, tradotto dalla bravissima Rosanella Volponi, esca in Italia”, racconta a Sette Leviant, seduto nel luminoso salotto della sua casa di Edison, in New Jersey, dove la moglie ungherese Erika, farmer biologica e cuoca eccezionale, è dedita ai fornelli. “Ho appena trascorso due mesi a Venezia grazie alla fellowship dell’Emily Harvey Foundation. Adoro il vostro paese e la prego di scrivere che ho detto le seguenti parole in italiano: ‘mi piace la lingua e la letteratura italiana. Ho letto Giorgio Bassani, Italo Calvino, Alberto Moravia, Primo e Carlo Levi e Natalia Ginzburg’”. Come nasce l’idea di questo libro? “Rabbi Nachman era una persona eclettica, musicista e narratore di leggendarie storie mistiche che hanno influenzato persino Kafka. Per la prima volta nella storia del movimento chassidico, alla sua morte non venne individuato un successore. La sua sedia fu smontata e portata di nascosto dall’Unione Sovietica a Gerusalemme dove oggi si trova nella Sinagoga Breslover, circondata da protezioni, per evitare che venga toccata dai tantissimi fedeli che ogni giorno vi si recano in pellegrinaggio”. Il senso di colpa che affligge il fornicatore Nachman non è poi così diverso da quello che tormenta molti cattolici. “E’ un tema universale. Se cerchi di incatenare qualcuno, l’istinto naturale è sempre quello di rompere le catene”. La sua vocazione letteraria è nata nel Vecchio Mondo? “In realtà sono nato a New York 69 anni fa da genitori ebrei conservatori emigrati dalla Russia, ai quali devo la passione per le arti. Mi portavano a teatro, ai concerti e la nostra casa era piena di libri, non solo di autori russi come Cechov e Tolstoj, ma anche Yiddish, la lingua che si parlava in famiglia. Sholem Aleichem, che ho scoperto a 10 anni, è stato il mio primo amore letterario”. E’ stato difficile imporsi nell’affollato mondo delle lettere americane? “E’ sempre stata la fortuna a guidarmi. Anni fa, quando studiavo alla Columbia, Saul Bellow venne per tenere una lezione. Quando finì, mi avvicinai chiedendogli in Yiddish, la sua prima lingua, se potevo inviargli una copia del libro di Aleichem che avevo appena tradotto. Lo ricontattai nuovamente tempo dopo per domandargli se volesse leggere il manoscritto de La ragazza yemenita. Anche in quella circostanza acconsentì generosamente e, dopo due settimane, mi scrisse una lunga lettera elogiando il libro e dandomi anche il contatto del suo agente. Poi mi permise di utilizzare le sue parole per promuovere l’opera che nel 77 vinse il premio Wallant come migliore romanzo dell’anno”. Ha mai incontrato Isaac Bashevis Singer? “Avevo chiesto anche a lui di leggere il mio libro ma mi rispose senza mezzi termini di no, bollando la trama come ‘irrealistica’: proprio lui, il maestro della letteratura fantastica. Singer, individuo difficile e scontroso, era gelosissimo di Bellow, vincitore del Nobel prima di lui, perché riteneva che oscurasse il suo talento. E vedeva come un rivale anche Chaim Grade, uno dei più grandi esponenti della letteratura ebraica del XX° secolo”. E’ vero che l’Yiddish sta conoscendo una rinascita? “Solo da un punto di vista intellettuale e accademico. Ma non basta perché la sua sopravvivenza è legata al numero, in continua diminuzione, delle persone che lo parlano. Oggi è vivo soprattutto nelle comunità chassidiche ma purtroppo non è l’Yiddish della grande tradizione letteraria secolare”. Che cosa intende dire? “La lingua degli ortodossi chassidici è una lingua pratica e terra terra, influenzata dalla vita di tutti i giorni, e non quella ricca ed espressiva della letteratura, della poesia e della musica ebraiche di matrice mitteleuropea”. L’Yiddish è una lingua del passato che non può descrivere il mondo moderno? “Non è esatto. Basti pensare alla rivista trimestrale della League for Yiddish che, oltre a racconti di fiction ambientati nell’America contemporanea, offre editoriali e commenti su argomenti di attualità e politica”. In un’intervista lei ha affermato che le sue opere provengono dall’inconscio. “Dio crea ex nihilo e noi scrittori tentiamo di imitarlo quando, dal nulla, trasformiamo un blocco di fogli bianchi in un racconto pieno di vita, con parole, aneddoti e personaggi di nostra creazione. A volte però la magia della scrittura si realizza dietro dettatura: quella che ti sveglia nel mezzo della notte perché un’idea si fa strada nella mente ed è così lungimirante che per appuntarla non vuoi aspettare fino al mattino, quando inevitabilmente verrà dimenticata. E’ quella che io chiamo la “dettatura dall’inconscio”. Ci parli del suo nuovo libro. “Mi hanno chiesto perché il titolo sia Zix Zexy Ztories quando i racconti sono in realtà sette. La mia risposta è semplice: il gioco di parole, l’allitterazione, la canzonatura offerta dalla lettera X si sarebbero persi con un titolo quale Zeven Zexy Ztories. Proprio l’altro giorno, sul treno per New York, ho visto un signore leggere Zix Zexy Ztories e ridere ad alta voce. E’ stata una bella soddisfazione ma devo ammettere una cosa: quella persona ero io”.
Alessandra Farkas
Il Corriere della Sera