Il mio rapporto con il PCI: una storia italiana (1a parte)
di Luciano Tas
Luciano Tas
Con la sinistra ho avuto a che far fin dalla nascita. Sei anni prima che io nascessi un mio zio materno aveva partecipato al famoso congresso scismatico del 1921 a Livorno, dove una fetta di socialisti si staccava dal partito socialista per formare il minuscolo partito comunista. Quel mio zio, ferroviere, sarebbe stato destinato, durante gli anni del fascismo, ad alternare il suo lavoro alle ferrovie con brevi soggiorni nelle galere di Genova (la città dove io sono nato e cresciuto) quando nel capoluogo ligure doveva arrivare qualche personaggio importante. Lo tenevano dentro tre o quattro giorni, poi tornava a casa. Di questo tipo di pendolarità ho sentito parlare fin da quando ho incominciato a distinguere le voci, praticamente fin dallo svezzamento. Alle FFSS però questo mio pericoloso zio era riuscito a restarci, sicuramente con qualche complicità all’interno. Infatti non avrebbero potuto tenerlo, dato che tra l’altro non aveva mai voluto prendere la tessera del fascio, detta “tessera del pane”, senza la quale era difficile trovare o mantenere un posto di lavoro. Poi nel 1938 le complicità non sarebbero bastate più e dalle Ferrovie lo avrebbero buttato fuori come ebreo, un crimine più grave del comunismo. La mia famiglia – la famiglia “stretta” voglio dire – era di origini diverse. Mia madre era genovese come me (ma i nonni venivano da Livorno), mio padre era nato in Belgio, ad Anversa, ma era di nazionalità inglese, per via di mio nonno, suo padre, nato a Londra, nel quartiere un tempo malfamato di Whitechapel. A sua volta quel nonno, come la nonna, erano di origine olandese e, più indietro nel tempo, portoghese. Del resto anche la famiglia di mia mamma veniva, quasi mezzo millennio prima, dalla Spagna, ciò che mi consente di rispondere freddamente a chi mi chiede, maliziosamente o meno e con qualche confusione storica, “Ma voi da quanto tempo siete in Italia?”. “Dal 1507, e tu?”.
Comunque i miei parenti, vicini e lontani, avevano in comune una cosa: erano tutti di sinistra. Una parte però, diciamo quella “proletaria” (almeno se si potevano considerare davvero proletari i lavoratori del porto i quali, salvo beninteso i camalli, non si può dire che esagerassero nel lavoro) era comunista, l’altra parte, “borghese” e sufficientemente benestante, era invece socialista, ma divisa a sua volta tra socialisti semplici e socialisti massimalisti. Tra i due rami famigliari questa divisione veniva sentita, eccome, ma nella più assoluta prudenza. Una prudenza che riguardava anche i rapporti con me. Nessuno infatti osava dirmi niente perché era condivisa la certezza diffusa che se i bambini parlano, qualcosa devono aver sentito a casa. E per “parlare” s’intende parlar male di Mussolini, oltre che di futuro “sol dell’avvenire”. Falce, martello e… Oppure no?. Da qui i diverbi a porte chiuse e fuori i bambini. Ecco, sono cresciuto così. Per un po’. Per un po’, perché la mia strada di sinistra me la sono trovata da solo. Devo dire però senza saperlo. E probabilmente per i motivi sbagliati. Le cose sono andate così. Mi è capitato di nascere nello stesso anno in cui nasceva il più piccolo dei figli di Mussolini, Romano. Romano pare che fosse un bambino molto intelligente e sveglio, tanto che gli fu concesso di andare a scuola non a sei anni, come tutti, ma a cinque. Non potendo però fare una sola eccezione, lo strappo lo fecero anche per me (e per tutti i nati nel glorioso1927) che avevo imparato a leggere e scrivere a cinque anni, seguendo mia cugina mentre faceva i compiti (chissà quale abiezione mi aveva spinto a passare così le mie ore).
Così mia madre, certa di avere un genio in casa, mi metteva in prima elementare. Ma ecco che la maestra vide che mi annoiavo, dato che le aste (l’uso era questo, settimane di “aste”, prima di affrontare i segreti dell’alfabeto) non potevano più soddisfare la mia sete del sapere. Ed eccomi scaraventato in seconda. Da lì la mia irresistibile ascesa per tutto il corso degli onori elementari, tanto da meritare in quinta il diritto e onore di recitare davanti a tutta la scuola il “giuramento”- Giuro di servire con tutte le mie forze e se necessario con il mio sangue la causa della rivoluzione fascista. Ecco il grande giuramento, e per davvero la rivoluzione fascista pochi anni dopo avrebbe tentato di prendersi il mio sangue.
Non ricordo esattamente come avvenne che, grazie a un perentorio intervento di un “gerarca” (Renato Ricci?) casuale cliente di mio papà, io venni promosso da balilla semplice a balilla moschettiere con iscrizione retroattiva al PNF, ciò che mi dava il grande onore di portare non semplici guanti ma guanti lunghi fino quasi al gomito, oltre che le giberne e un fuciletto (da qui “moschettiere”). Poco dopo però, entrato con duplice esame (della quinta e dell’ammissione) alle medie, la mia carriera doveva conoscere una svolta, anzi due. Anno scolastico 1936/1937. Avevo dieci anni ed ero in prima ginnasio (le medie non c’erano ancora). Non ricordo chi fosse l’insegnante di quel giorno, ma io mi stavo annoiando (i miei successi culturali si erano fermati con la quinta elementare e dico subito che non ne avrei mai più avuti) e guardavo distrattamente la parete dietro alla cattedra, forse per dimostrare alla professoressa che la seguivo con ghiotta attenzione. A quella parete c’era, come ora, il crocifisso, ma in più ai lati facevano bella mostra di sé la foto del re e quella di Mussolini. Giuro che in quello che mi scappò fuori non c’era alcun intendimento politico, nessun apprezzamento sintetico del fascismo e del Duce, insomma, nessun tipo di giudizio.
Fatto è però che dissi a voce alta, forse perché ero mezzo addormentato, “Toh, Cristo fra i ladroni”. All’insegnante si bloccò la parola e sembrò strozzarsi. Per i più giovani dirò che per molto meno in Italia si finiva in carcere o al “confino” (ragazzi, fatevi spiegare che cos’era il confino), e se si trattava di minori toccava ai loro padri. Non c’è dunque da stupirsi se alla professoressa venne, come si dice a Roma, uno “sturbo”. Le ci vollero diversi minuti prima di riprendersi. Poi, come ho immaginato molti anni più tardi, deve aver cominciato a riflettere. In primo luogo mi buttò fuori, quindi andò – immagino – dal preside con il quale doveva avere confabulato per parecchio tempo, e infine mi acchiappò nel corridoio per comunicarmi che ero stato sospeso per tre giorni e al rientro doveva farmi accompagnare da un genitore. A casa mia credo abbiano pensato “ma guarda un po’ questo deficiente, noi non diciamo mai nemmeno una parola sbagliata davanti al bambino e lui se ne esce con una frase considerata criminale da questi disgraziati”. Come mai la cosa finì lì? Quasi sicuramente perché né l’insegnante né il preside erano fascisti ed ebbero pietà dei miei genitori, ai quali – io però non l’ho mai saputo - devono essersi limitati a invitarli a una maggiore sorveglianza e prudenza. Fu però nel ’37 che incominciai a farmi due conti. Su cosa non si poteva dire e perché. Uno dei miei amici della strada (il figlio del portiere della casa vicina, quello del lattaio, del ciabattino e così via, questi erano i miei veri amici, più che i compagni di scuola), evidentemente edotto dal padre, mi persuase che la guerra all’Abissinia era una ignominia perché era stata fatta con i cannoni, i carri armati, gli aerei e i gas asfissianti contro gente che aveva solo lance e scudi. Il padre ciabattino era un asciutto toscano che ci cacciava dal cortile dove giocavamo facendo molto chiasso. Lui fingeva di inseguirci con la scopa che non avrebbe mai usato. Noi scappavamo fingendo di avere paura. Era un uomo saggio (a quel tempo c’era un’alta percentuale di filosofi tra i ciabattini) e molto buono ed inoltre era il primo comunista (a parte mio zio) che ho incontrato nella mia vita (ma che fosse comunista l’avrei saputo solo dopo la guerra, quando ci siamo trovati riuniti nella sede del PCI di Genova). Dicevo delle due svolte della mia vita.
La seconda, sempre del 1937, era altrettanto lontana dalla politica, ma determinante per la mia scelta inconsapevolmente politica. Come ho detto, ero diventato balilla moschettiere, e ogni sabato (appunto, il “sabato fascista”) c’era l’”adunata”, vale a dire che tutti noi, bambini, ragazzi e giovani. dai “figli della lupa” – i più piccini – fino agli “avanguardisti” e ai “giovani fascisti”, inclusi i sognati universitari del GUF (gruppo universitario fascista) dalle fantastiche divise nere con stivaloni e fez da gerarchi, dovevamo convergere di prima mattina fino a un determinato luogo (a Genova era Piazza della Vittoria) tutti inquadrati in manipoli e legioni dal piglio decisamente militaresco. Qui qualcuno – qualcuno importante – veniva da Roma (da Roma!) a parlarci degli “immarcescibili” destini imperiali, dopo l’immancabile “saluto al Duce”, cioè “salutate nel Duce il fondatore dell’Impero”. Non si capiva bene a cosa serviva farci buttare giù dal letto il sabato mattina un’ora prima dei giorni di scuola, metterci in ghingheri militareschi per arrivare al dunque – il discorso del Gerarca – mai prima delle undici o mezzogiorno, che era poi l’ora che a Genova si andava a pranzo. Con la primavera o, peggio, l’estate, il sole ci colpiva aggressivo nella vasta Piazza della Vittoria, priva di qualsiasi riparo all’ombra. (Io almeno ricordo così: non ho mai controllato nei miei non frequenti ritorni alla mia città). Insomma, non era tanto piacevole. Tuttavia la “svolta” vera e propria non doveva essere solo quella. Scusate una premessa. Sto parlando di quando avevo dieci anni, era il 1937.
Non sono affatto un lodatore dei tempi antichi, ma devo dire a puro titolo informativo che allora, più di settanta anni fa, i bambini erano meno scaltriti di oggi. Almeno per le cose relative alla sfera sessuale. A dieci anni magari non si credeva più alla cicogna che portava i bambini, né alle tendenze riproduttive dei cavoli usati come uteri, ma in genere s’ignorava del tutto il meccanismo che portava alla nascita. Non è che non fossimo curiosi, è che nessuno ci spiegava niente. “Mamma, come nascono i bambini?”, “Mamma, come si distinguono i maschi delle femmine quando sono neonati?”. A queste domande primordiali le risposte potevano essere anche fantasiose, certo più incredibili delle cicogne e dei cavoli, ma quasi sempre alle domande non faceva seguito alcuna risposta, forse per mancanza d’immaginazione di molte mamme. Tutto questo per dire che i bambini erano davvero spesso dei pupi. Bene, nella mia squadra (meglio, manipolo) del sabato fascista, il capo-manipolo, che noi vedevamo come un adulto già sulla via del tramonto (doveva avere una ventina d’anni), era solito fare spesso prolungate carezze a questo o quello, ed avere insomma un comportamento che mi pareva strano, come se fosse un gioco poco divertente a cui io ad ogni modo non intendevo partecipare. Intendiamoci, voglio ripetere, io non sapevo ancora come nascevano e beninteso ancora nascono i bambini, né vedevo il mio pisellino circonciso altrimenti che uno strumento adatto a fare la pipì, figuriamoci se pensavo a certe divagazioni del sesso. Eppure… eppure, quel capo-manipolo di cui ricordo ancora il nome, non mi piaceva. Per niente. Così, vuoi per la noia delle adunate, vuoi per le attese interminabili, vuoi per il caldo e la conseguente insoddisfatta sete, e vuoi soprattutto per quel capo-manipolo che armeggiava con i bambini, la mia decisione fu presa. Mai più alle adunate.
E mai più fu per davvero. Non ebbi poi nemmeno il tempo di conoscere le conseguenze della mia diserzione alle armi di legno perché un anno più tardi, nel 1938, fui cacciato “da tutte le scuole del Regno” per via delle leggi contro gli ebrei, leggi firmate, maledetti loro, da Mussolini e dal Re. Neanche per un attimo pensai che queste leggi, che oltre alla mia cacciata da scuola finirono presto per costare la licenza di artigiano di mio padre (e conseguente suo infarto), fossero state decise per causa mia, per il mio silenzioso voto contro un capo-manipolo. Ma tant’è. Torniamo però al 1937. Infuriava la guerra civile spagnola. I dettagli li avrei conosciuti molto dopo, anche qui però le mie scelte non furono politiche ma, come dire, estetiche (dannunziane?). Il fatto è che mio padre, di madrelingua francese, usava comprare un giornale di Parigi, mi pare si chiamasse “Le Journal”, in libera vendita probabilmente perché in quel tempo ben pochi avevano barlumi di conoscenza delle lingue. Quel giornale non si poteva definire “di sinistra” (oggi lo diremmo liberal-conservatore), non so bene che cosa era. Papà lo leggeva e poi lo guardavo anch’io (ero precoce, lo ricorderete). Lì scrivevano cose che da noi neppure potevamo immaginarcele. Per esempio che le truppe di Francisco Franco, il “Caudillo”, erano “ribelli” e quelle governative erano i “gouvernementeaux” (non so bene se si scriva proprio così). Ebbene, quella parola mi piaceva molto. Forse ho cominciato allora ad amare le parole in genere e alcune in particolare. Questa mi piaceva tanto da farmi immediatamente schierare dalla parte della “Izquierda” (anche questa era bellissima parola alle mie orecchie) repubblicana. Voglio ancora ricordare – insisto - che in quegli anni nessuno a casa mi diceva niente. Figuriamoci fuori casa.
Certo, il mio zio comunista doveva soffrire a non dirmi nulla. Lui già aveva riposto molte speranze su di me, più che sulla mia famiglia in toto, giudicata, non a torto, borghese e, a torto, infidamente socialista (moderata e dunque non innocente). La mia scelta di campo non m’impedì di fare amicizia con un gruppetto di ragazzini spagnoli della Spagna occupata dai ribelli franchisti, mandati in Italia per una pausa di pace ristoratrice, e siccome a scuola avevo scelto la lingua spagnola (quella francese mi sembrava indegna di un gentiluomo, visto che la parlavo già con papà) mi riuscì più facile il rapporto con quei coetanei. Non ero ancora contaminato dall’ideologia che sbrigativamente considera nemici mortali tutti quelli che non la pensano in modo “corretto”. No quindi a Franco, sì invece ai ragazzini spagnoli di ogni tinta. (La strage degli anarchici da parte dei comunisti non mi era ancora nota, né conoscevo ancora “La fattoria degli animali” di Orwell: “quattro zampe buono, due zampe cattivo”). Nel 1937 incominciò a mia insaputa una campagna di stampa contro gli ebrei. Il brutto è che nemmeno a casa mia, né nei paraggi, qualcuno ci fece troppo caso. Se vi date la pena di consultare in qualche emeroteca i giornali italiani di quell’anno, ve ne renderete conto. Troppo alta la percentuale di ebrei nelle università, troppi avvocati, troppi ingegneri. Troppo bassa per contro quella di operai e contadini.
Ma forse troppi ebrei e basta. Troppi anche nell’Esercito, che con la Marina e l’Aviazione contava oltre duemilacinquecento ufficiali circoncisi (più di tremila se si contano anche quelli dell'esercito fascista parallelo, la Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale) al servizio armato della Patria. Un anno dopo ci sarebbe stato il censimento nazionale, dove bisognava scrivere la propria religione e la propria “razza” (pene severissime per gli inadempienti). Sarebbe risultato che su quaranta milioni di abitanti gli ebrei erano quarantamila, uno su mille. Pochi ma pericolosissimi. Bene, per le nuove leggi o si era “ariani” o si era ebrei. Gli italiani erano tutti – si scriveva – di purissima razza ariana, visto che il miscuglio degli invasori, Goti, Visigoti, Unni e via con i Barbari, i Mori (“mamma li turchi”) e gli spagnoli e i francesi e i tedeschi, miracolosamente produceva la purissima razza ariana. Gli ebrei invece no, non erano italiani. E quindi andavano puniti, anche perché gli ebrei inglesi, francesi, americani erano tutti antifascisti, e dunque, per proprietà transitiva, antifascisti dovevano esserlo anche i quarantamila ebrei italiani. Eccoci quindi al 1938. A questo punto il mio antifascismo si andava precisando, ma ancora una volta non per mia scelta. Era più il fascismo ad avercela con me che io con lui. E allora che fare? (Lenin docet). Che fare? Dopo la prima paralisi dovuta alla “grandinata a ciel sereno” (o quasi sereno), le famiglie (italiane?) di “razza ebraica” si raggrupparono in veri e propri clan e tribù.
Eh sì, non era semplice districare i nodi famigliari, perché si andava da fratelli a cugini, da cognati e cognate a figli, nipoti, e via discorrendo. Per quanto mi riguarda i miei rami famigliari e para-famigliari si estendevano da Genova a Milano a Firenze a Livorno, con le ultime propaggini a Torino. (Avrei scoperto una settantina di anni dopo che queste ultime propaggini mi legavano anche a un mio caro amico con il quale avrei poi litigato politicamente per un paio di decenni prima di scoprire che la pensavamo più o meno nello stesso modo. Forse la vecchiaia). Congressi di famiglia, dunque, non semplici incontri. Per la mia famiglia e allegati il quartier generale venne fissato a Livorno, per motivi di spazio-tempo e numeri. Al “congresso” parteciparono, tra aventi diritto al voto e osservatori (in genere le mogli e i figli non troppo giovani), una cinquantina di persone. Lontani cugini che non avevo mai conosciuto, parenti lontani o acquisiti che non avrei mai più visto. 1938. Avevo undici anni. Dal “congresso” di agosto non scaturì niente. Io e i miei coetanei-parenti-vicini e lontani non fummo ovviamente ammessi a partecipare alle sedute, nemmeno come osservatori. Ma da osservare c’era ben poco. I partecipanti si divisero subito in due correnti di pensiero. I “bolladisaponisti” e i catastrofisti. I primi tendevano a credere che i provvedimenti contro gli ebrei si sarebbero risolti “all’italiana” (già allora!), cioè in una “bolla di sapone”. Le leggi non sarebbero state osservate, nessuno ci avrebbe fatto caso, e dopo un anno, al massimo due, non se ne sarebbe più parlato.
E tutto come prima. Al contrario i catastrofisti vedevano una via d’uscita solo nell’emigrazione. Obiezione: dove e come. I catastrofisti allora si divisero in altre due correnti. Una diceva: intanto andiamoci e poi si vedrà. L’altra si chiedeva: chi ci avrebbe accolto e che cosa saremmo andati a fare. Il secondo corno dell’interrogativo era decisamente respinto da elettricisti, idraulici e meccanici vari, sfortunatamente assai rari, anche più degli agricoltori, tutte categorie poco frequentate dagli ebrei italiani: per motivi storici, non c’è dubbio, ma poco frequentate. Per gli avvocati, gli impiegati, i giornalisti, questo secondo corno restava invece vivissimo e rendeva ancor più pessimisti i già poco allegri catastrofisti. Come la vedevo io, malgrado i miei pochi anni, e cioè che nessuno avrebbe fatto niente, finì per risultare la conclusione congressuale e anche quella, per così dire, storica. Ognuno se ne tornò a casa propria in attesa che il sapone andasse in bolle, proprio come non successe.
1938. Il dopo-estate
Si va spegnendo l’estate e la realtà si presenta agli ebrei in tutta la sua durezza. La sorpresa, l’incredulità lasciano spazio alla consapevolezza. Dolorosa per tutti, dolorosissima per gli ebrei “servitori dello Stato”, che a termine della vacanza estiva non trovano più la loro scrivania nei ministeri, nelle poste, nelle scuole di ogni ordine e grado, nelle caserme dell’esercito, nella marina, in aviazione, nelle assicurazioni, nelle banche, nelle FFSS e, in breve, in tutti i posti pubblici o para-pubblici. Come abbiamo già fatto cenno, a commercianti e artigiani lo strangolamento (ritiro delle licenze) sarebbe avvenuto qualche tempo dopo. A casa mia dunque, la ferita sembrava sanguinare poco. Papà continuava a lavorare, mio zio a commerciare, altri cugini a entrare ogni giorno al Porto, nella famosa (e a volte non a torto vituperata) compagnia chiamata UNICA. Anche qui si trattava solo di un rinvio. Lo zio comunista invece venne scaricato subito dalle FFSS, con moglie e tre figlie da mantenere. E io? Alla vecchia scuola non sarei rientrato. Ma mia madre pensò di avere una brillante idea, non so da chi suggeritale. Mi iscrisse all’Istituto Nautico, probabilmente tacendo sulle mie impure e delittuose origini. Dico subito che la mia carriera di marinaio durò una decina di giorni. Il Preside con molto garbo (e forse anche con autentico dispiacere) disse a mia madre che proprio non poteva tenermi. Ma intanto la Comunità ebraica genovese si era organizzata (e autotassata) per costituire una propria scuola, non parificata ma autorizzata come scuola privata.. Ne riparlerò.
Prima che si ristrutturasse l’amplissimo salone sotto la cupola del Tempio sito in una stradina (oggi intitolata al rabbino capo di Genova Riccardo Pacifici, assassinato ad Auschwitz) che dà su Via Assarotti, i ragazzi vennero divisi nei vari appartamenti messi a disposizione da ebrei genovesi che ne disponevano di molto grandi, proporzionati alle loro ricchezze. Così capitò a me di entrare in una terza ginnasio ospitata nel lussuoso appartamento dei cugini di Umberto Terracini, allora detenuto per via della sua appartenenza al Partito Comunista. Una appartenenza per lui molto difficile perché anni dopo avrebbe dovuto subire l’espulsione dal partito (mentre era in carcere!) per avere espresso il suo disaccordo con l’URSS che nell’agosto 1939 aveva stretto un patto (scellerato) con la Germania di Hitler. Per me Umberto Terracini rappresentava già allora un luminoso punto di riferimento. A favorire questo mio invaghimento fu – determinante – la vera e propria adorazione del mio zio comunista, che di Terracini aveva fatto il suo idolo. Lo fu dunque anche per me, sulla base della incondizionata fiducia che io avevo per lo zio Armando (il comunista), che ai miei occhi rappresentava il contrappeso salvifico alla imbelle “borghesia” dell'altro ramo famigliare, tra cui i miei genitori. Non ero ancora politicizzato, a meno di voler vedere nel mio essere genoano rossoblu e grifone nel cuore un fatto politico oltre che una insana passione che dura tuttora, ma sicuramente ero antifascista (non ci voleva molto, date le circostanze) e pensavo che se quel mio zio adorava Terracini, dovevo farlo anch’io. Di Terracini parlerò ancora perché avrebbe avuto su di me una grande influenza molti e molti anni dopo. Eccomi dunque intorno a un grande tavolo insieme ad una decina di altri ragazzi, fino ad allora a me del tutto ignoti, con i quali avrei condiviso alcuni anni e dove avrei trovato il primo sfortunato amore della vita. La vita scolastica non risentì minimamente delle condizioni che l’avevano fatta sorgere. Era una scuola (e una classe) assolutamente identica a quella che avevo lasciato. I professori non erano indulgenti, non si producevano in alcuna lamentazione. Si studiava e basta.
Compiti in classe, interrogazioni, voti. Anche in condotta. La mia vita “politica” si svolgeva fuori dalla scuola, e si limitava ad andare a comprare l’Osservatore Romano (la mia famiglia riteneva che se quel giornale lo avesse chiesto un bambino avrebbe dato meno nell’occhio e sarebbe stato meno pericoloso: errore grossolano, direi oggi) e, già che c’ero, il mio giornale preferito, l’Avventuroso, con le sue mirabolanti storie (rigorosamente a fumetti) e i suoi eroi, primi tra i quali l’extraplanetario Gordon, con la fidanzata Dale, lo scienziato Zarro, il bieco imperatore Ming dai tratti somatici minacciosamente asiatici, gli “uomini-falco” che se e andavano qua e là svolazzando. Che giornale! Non molti sanno che Wehrner von Braun, l’”inventore” dei razzi, progenitori delle odierne astronavi, proprio da questo fumetto, che aveva visto da bambino, doveva trarre ispirazione per i suoi lavori e le sue scoperte. Beh, al principio erano le V 1 e le V 2 naziste che sul finire della seconda guerra mondiale venivano indirizzate dai tedeschi sulla Gran Bretagna, ma poi si arrivò a mandare uomini sulla Luna e robot su Marte. C’era poi un terzo giornale, il Bertoldo, diretto da Giovanni Mosca, con Guareschi, Simili, e altri di cui ora non ricordo il nome. Certe vignette sono rimaste celebri.
La satira, l’ironia, non erano proprio in linea con la faccia feroce che faceva il fascismo, e qualche volta veniva sequestrato, come quando – eravamo già in guerra – Mosca polemizzò con Mario Appelius che alla radio aveva inventato una specie di saluto-tormentone, “Dio stramaledica gli inglesi”. Il Bertoldo sottolineava una certa mancanza di finezza e di buon gusto nell’imprecazione. Che cosa ricavavo da queste mie incursioni all’edicola dei giornali? L’Osservatore Romano lo leggevano naturalmente i “grandi” della famiglia (donne escluse, of course), ma alla fine, quando il giornale finiva di nuovo nelle mie mani, la mia attenzione cadeva su un pezzo fisso che si chiamava “Acta Diurna”, scritto però in italiano. Avrei saputo molto più tardi che l’autore, che firmava con uno pseudonimo, era Guido Gonella, che sarebbe poi stato molte volte ministro della Repubblica. I suoi scritti rappresentavano una boccata d’aria pulita, un’aria di verità nel mare fangoso dei giornali italiani, dove tutti gli articoli, anche le notizie di cronaca, venivano imbeccati dall’alto, da quelle che si chiamavano “veline” (non erano le veline dei nostri giorni, e sarebbe stato meglio), cioè gli ordini che spesso partivano dallo stesso Mussolini, che non dimenticò mai di essere un giornalista. La mia formazione politica incominciò dunque anche da qui.
A parte le lunghe chiacchierate con lo zio Armando, che aveva meno paura degli altri di poter essere involontariamente tradito da un bambino, la mia educazione politica non aveva al momento altre sponde. Per il momento ero dunque necessariamente quasi autodidatta. Ma cosa potevo imparare da solo e senza nemmeno avere a disposizione dei libri che non avrei capito e comunque assai poco gradito, come il soporifero “Capitale” di Marx, poi molto citato ma in realtà mai letto da grandi folle. Il 1939 portò – non è una grande scoperta – molto di nuovo e di disastroso. Già il 1938 aveva consegnato al nuovo anno giocattoli avvelenati. In Italia le leggi razziali, che comunque le si voglia guardare, non potranno mai essere viste come una pagina gloriosa negli annali del nostro paese e un motivo di orgoglio per gli italiani. In Europa l’occupazione dell’Austria, addirittura cancellata dalla carta geografica, da parte della Germania di Hitler che volle semplicemente inghiottirsela. La vergognosa resa di Francia e Gran Bretagna di fronte a Hitler che cominciò allora (per perfezionarla nei primi mesi dell’anno successivo) l’invasione della Cecoslovacchia, con la benedizione degli “accordi di Monaco” e con Mussolini nella parte del “compare”. Dopo quegli accordi l’allora Premier britannico Neville Chamberlain, scendendo dall’aereo che lo riportava in patria da Monaco, ebbe a uscirsene con la famosa e disgraziatissima frase “Peace in our time”, pace nel nostro tempo, aggiungendo un improvvido “pace con onore”. Più tardi Winston Churchill gli avrebbe detto dalla Camera: “Avrete comunque la guerra e avete perso l’onore”.
1939 dunque. Due nella mia memoria i lampi del ’39, a brevissima distanza uno dall’altro, agosto e settembre. Le nubi, già cariche e buie, continuavano ad addensarsi, sempre più minacciose. Non solo contro gli ebrei, che in Italia, scomparsi i “bolladisaponisti”, s’illudevano però di avere già toccato il fondo, ma contro il mondo intero. Il cielo degli ebrei era solo più gonfio di vento nero. Noi non ce ne rendevamo conto, è vero, ma su di noi – noi ebrei, noi famiglia – era calato un peso, una vibrazione negativa. E anch’io la sentivo. I miei dodici anni erano già stati avvelenati e mi avevano costretto a crescere in fretta, fino a farmi perfino soffrire per una sfortunata storia d’amore con una bambina della mia classe che sembrava contraccambiarmi solo quando c’erano compiti in classe o, più intensamente, esami pubblici (ci ritornerò) perché le fornivo qualche aiuto. Sarebbe venuta un’altra estate. Ad agosto ero con i miei in uno sperduto paesino delle Marche che non essendo meta turistica marina o montana era ancora concessa agli ebrei. Non so come ci eravamo capitati. Forse perché ci era stato indicato da qualche parente o amico che a sua volta aveva un parente laggiù, e ai miei genitori era parsa una buona idea per andare a “disintossicarci” per qualche giorno lontani da tutto. Ricordo che dalla stazione ferroviaria una corriera portava me e i miei genitori fino ai piedi di un paesino che si doveva poi raggiungere a dorso di mulo. Però poi eravamo ricompensati dalla bellezza dei luoghi, dal panorama che ci si offriva. L’alloggio era ovviamente molto semplice ma confortevole. Il padrone di casa che ci ospitava era ruvidamente affabile e di sicuro antifascista. Chi ci aveva indirizzato a lui lo sapeva bene.
Ricordo le lunghe gite a piedi, ricordo anche la mancanza di giornali (personalmente sentivo solo la mancanza dell’Avventuroso e del Bertoldo e solo da “grande” i quotidiani sarebbero diventati la mia “preghiera laica del mattino”), ma in compenso era lontana la città con il fascismo e le sue leggi razziali, e questo non si può e questo è vietato e così via. Qui di razza non si sentiva proprio parlare. I ragazzi del posto credo che nemmeno sapessero cosa sono gli ebrei. Con loro tornavo a giocare fuori dal “ghetto”. I giornali non c’erano, ma la radio sì. Un giorno, era il 23 agosto e noi ci accingevano a tornare a Genova, ecco all’improvviso un altro lampo nero. La radio parlava di una specie di alleanza – un “patto di non aggressione” – tra la Germania nazista e l’Unione Sovietica comunista con alcuni punti dell’accordo palesi ed altri, come si dice oggi, “segretati”. Sapremo solo molto più tardi che nel patto Molotov – Ribbentrop, i ministri degli Esteri dei due paesi, era compresa la spartizione della Polonia, di cui saremmo stati ben presto testimoni. Questa abnorme alleanza aveva colto tutti di sorpresa. Per me, che già cominciavo a credere che gli unici in grado di fermare Hitler sarebbero stati i sovietici, sarebbe stato Stalin, l’accordo Germania-URSS fu un po’ più e un po’ peggio di una sorpresa. Non capivo proprio. Pensavo di chiedere lumi a mio zio comunista che avrei visto prestissimo. Lui sì avrebbe saputo spiegarmi il mistero. Lo avrei invece trovato praticamente in lacrime. Les dieux s’en vont. Anzi, se ne erano per il momento andati. Nei giorni seguenti la radio e i giornali avevano avuto a loro volta il loro bel da fare per spiegare come mai i nemici acerrimi dell’URSS, quali erano il nazismo e il fascismo, nati per combattere il comunismo, erano passati (l’Italia seguiva a ruota la Germania) agli abbracci tra amiconi. Appena poco tempo prima da un romanzo era stato tratto un film che in Italia era diviso in due parti: “Noi Vivi” e “Addio Kira”, con la splendida Alida Valli e il bel tenebroso Fosco Giachetti. Il film era ambientato nella Russia comunista ed era, negli intenti dei produttori, una dura condanna del regime dittatoriale dell’URSS. Rivisto molti e molti anni dopo ci pareva che lungi dall’essere così mangia-comunisti come era nelle intenzioni, il film era anche troppo tenue e presentava un regime assai edulcorato rispetto alla realtà del comunismo sovietico. Ma il quadro che il film dipingeva della Russia di Stalin non poteva non rimandare il pensiero all’Italia del fascismo.
Così, dopo averlo esaltato, “Noi vivi” veniva ritirato dai circuiti per farlo dimenticare. All’epoca però ero abbastanza grande – dodici anni da portatore di peste – da rifiutarmi di andare a vedere un film dichiaratamente di propaganda, anche se più duro nelle intenzioni che nella realtà, una realtà che invece era proprio la nostra. Ed era un grande sacrificio per me, precoce cinefilo, rinunciare al cinema e al fascino di Alida Valli, davvero all’epoca “la più amata dagli italiani”. In quell’agosto 1939 l’alleanza tra i due dittatori ci sembrava la tomba delle nostre speranze. Non saremmo mai usciti dalla trappola. Se per tutti i miei parenti il colpo era stato davvero grande, per lo zio ferroviere, uno dei fondatori del partito comunista italiano nel 1921, rappresentava il crollo di tutta la sua vita politica, dei suoi ingenui ma fortemente sentiti ideali. Adoratore di Umberto Terracini (lo avrei conosciuto con inalterato rispetto ed affetto molti anni dopo la guerra, quando mi impartì una lezione politica che non dimenticherò mai e che bastò per giudicare a posteriori corretta la mia decisione nel 1953 di uscire dal partito), lo zio non poteva sapere che il suo idolo, in carcere, veniva espulso dal PCI per avere osato disapprovare quell’alleanza criminale. (Lo zio ferroviere avrebbe finito per restituire la tessera del partito per la posizione strumentalmente antisraeliana assunta dal PCI su ordine di Mosca dopo la guerra arabo-israeliana del 1967, detta dei sei giorni, una posizione che ha contribuito ad annaffiare la mala pianta dell’antisemitismo anche nei verdi prati della Sinistra).
Il 1° settembre dello stesso 1939 la Germania invadeva la Polonia e in pochi giorni sopraffaceva le fragili difese sparse nella troppo grande pianura polacca. Da Est i sovietici si affrettavano a occupare la metà del disgraziato paese, quella che costituiva la loro parte di bottino. La Francia e la Gran Bretagna decisero malvolentieri di onorare (troppo tardi! troppo male!) la garanzia che avevano assicurato alla Polonia. Incominciava così una drôle de guerre, una strana guerra che vedeva gli Alleati trincerati dietro la linea fortificata Maginot, ritenuta, a torto come vedremo, imprendibile, e i tedeschi dietro la loro Linea Sigfrido. La “strana guerra”, così chiamata perché in pratica non si sparò neanche un colpo, andò avanti per quasi nove mesi. L’insana gravidanza partorì mostri. A settembre riaprirono le scuole, come d’abitudine. Tutte, compresa la nostra piccola scuola ebraica di Genova, unita ora sotto un unico tetto, quello che ricopriva la Sinagoga, e divisa in classi le cui pareti erano di un materiale per noi nuovo, prodotto da una ditta veneta di Faè e per questo chiamato “Faesite”. La normalità è come l’erba che, qualunque cosa avvenga, sia l’asfalto che copre le strade, oppure i bombardamenti che le sconvolgono, cresce sempre e dappertutto. Le “erbe matte” tendono a riprendere il potere assoluto… Così è della “normalità”. La scuola ebraica aveva radunato un centinaio di bambini e ragazzi in un vero e proprio ghetto, chiuso da mura invisibili. I nostri rapporti con il mondo esterno erano spezzati, eppure, eppure… la scuola ebraica era una scuola normale a tutti gli effetti. I compiti, le interrogazioni, i trucchi tentati per evitarle, le pagelle, i nostri timori di studenti, le prime sigarette, i primi castissimi amoretti. L’erba matta si faceva strada, e noi vivevamo quell’erba, quella normalità, accettando il nostro essere appestati che nessuno poteva o voleva toccare.
Tra noi, solo tra noi. Era diventato tutto “normale”. Papà continuava (per il momento) a lavorare e i suoi clienti a servirsene senza sentirsi in colpa. Chi lavorava in porto continuava a farlo, lo zio gioielliere commerciava as usual. Solo lo zio comunista non poté essere salvato dai suoi “complici”. Le FFSS erano una cosa seria, la maggioranza di chi vi lavorava era antifascista, ma il regime aveva vinto. Lo zio ferroviere, sua moglie (peraltro cattolica) e le tre figlie avevano perso. Ciò malgrado – un incidente di percorso, un “danno collaterale” - la vita era ripresa, l’erba faceva capolino tra le crepe. Gli adulti non so, noi ragazzi eravamo quell’erba. Io continuavo anche ad avere gli stessi amici fuori dal “ghetto”. Non quelli della scuola pubblica”ariana”, che non ho mai più rivisto, ma il figlio del ciabattino, il figlio del lattaio, il figlio del carbonaio (che d’estate continuava a portarci le sbarre di ghiaccio da mettere nella ghiacciaia, un vero lusso per l’epoca), i “figli della strada”, l’unica breccia nelle mura del ghetto invisibile. Per loro non costituivo il pericolo giudaico descritto da tutti – tutti – gli intellettuali italiani con un’enfasi che forse non era nemmeno richiesta dal fascismo. In più avevo qualche compagno di scuola ebreo che abitava vicino. Da lui ero solito andare all’una (molto dopo l’ora del pranzo per noi genovesi) per sentire alla radio “I quattro moschettieri” di Nizza e Morbelli. La trasmissione, sponsorizzata dalla “Perugina” (quasi una prima assoluta) aveva un successo strepitoso, inimmaginabile, ed era davvero divertente. Normalità. Così arrivammo al 1940.
Una data importante per la mia famiglia. Il 4 febbraio compivo tredici anni. Il 10 dello stesso mese ci fu il mio Bar Mizvà, la cerimonia con cui per l’ebraismo il ragazzo diventa adulto. Al Tempio lessi e cantai una porzione della Torà, la “Parashà”, che mi consacrava uomo. Mi ci ero preparato un anno intero, sottoponendomi alle affettuose bacchettate di un maestro, Samuele Pacifici, zio del rabbino capo di Genova, Riccardo Pacifici, il quale sarebbe poi stato trucidato, e con lui la moglie, ad Auschwitz. Fu Riccardo Pacifici a darmi la solenne benedizione. Per il mio Bar Mizvà vennero tutti i parenti: da Milano, da Firenze, da Livorno, da Roma, da Torino, dove trovai un altro lontano parente, un Ottolenghi fotografo il cui figlio, Felicino (era alto un metro e novanta) era amico del principe ereditario Umberto. Un’amicizia che non gli servì a non farsi cacciare dall’esercito (era ufficiale di cavalleria come Umberto). Per effetto delle nuove leggi, molti giovani ebrei vennero costretti a certi “lavori utili”, in realtà del tutto inutili e solo umilianti (questo era esplicitamente l’intento). Felicino ebbe la sua corvée, a cui volle presentarsi con tanto di frac e cilindro, disorientando così quelli che dovevano sorvegliarlo. Pochi anni dopo anche lui finì ucciso ad Auschwitz. Il mio bar-mizvà fu l’occasione di un altro super-convegno, dopo quello del ’38.
Ma i suoi risultati furono identici a quello di due anni prima. I topi si agitavano nella gabbia. Per me fu una bella festa. Vennero i miei compagni di classe, qualche altro ragazzo e un grammofono, di quelli che per farli funzionare si doveva girare una manovella, che ci consentì di ballare, e sapevamo farlo proprio perché il rabbino Pacifici si era occupato durante l’anno scolastico di riunire la domenica i ragazzi e le ragazze nelle case che volevano ospitarci per restituirci un po’ di normalità. Lì ho imparato il valzer e il tango (“Maria Lao”, “Caminito”). Il 17 febbraio del 1940, giusto una settimana dopo il mio bar mizvà, la polizia venne a casa nostra e a casa dello zio gioielliere per ritirare le rispettive licenze. Agli ebrei non era più consentito di lavorare. Quell’anno e mezzo di distrazione governativa era stata una illusoria parentesi. Il 24 papà ebbe un infarto micidiale da cui non si sarebbe più ripreso. La normalità era proprio finita.
(segue giovedì 31.10.2013)