Riportiamo da SHALOM di ottobre, a pag. 16, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo "Israele si sente sola".
Hasan Rohani Bibi Netanyahu Barack Obama
Fiamma Nirenstein
La passata sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU è stata particolarmente interessante. Non perchè l’ONU sia cambiata: il fatto che subito dopo la grande riunione sia stato dato annuncio dell’ immissione dell’Iran in una posizione particolarmente importante nel comitato per il disarmo nucleare ci dimostra che non è vero che il presidente Rouhani come ha detto Netanyahu, sia “un lupo travestito da pecora”, ma semplicemente un lupo parte di un branco sempre a caccia di Israele. Di fatto, negli stessi giorni, l’Unesco, braccio culturale dell’ONU comminava a Israele le solite condanne, stavolta 6, dato che “melius abundare quam deficere”. Non è stato interessante neppure il discorso di Rouhani, che tutti aspettavano con ansia: infatti non è stato possibile scorgervi neppure la traccia della promessa che nelle trattative che l’Iran desidera sarà discusso l’arricchimento dell’uranio, e che le centrifughe che preparano senza ombra di possibile dubbio l’arma atomica potranno fermarsi. Ciò che risultava evidente era solo la necessità iraniana di porre un freno alle sanzioni che mettono la sua economia in ginocchio.
Invece sono stati significativi, per motivi diversi i discorsi di Obama e di Netanyahu.
Mi sono molto interrogata, dopo l’indirizzo di Obama, sulla sua scelta di mettere sullo stesso piano come i due maggiori problemi che gli USA individuano per la stabilità del Medio Oriente la prospettiva di una bomba atomica iraniana, di un fungo islamista che si levi su tutto il medio Oriente e il conflitto israelo-palestinese. Certo, si sa bene che si tratta di un conflitto molto difficile, che da vent’anni le due parti cercano invano di capirsi, che i palestinesi soffrono mentre tuttavia rifiutano rigidamente di riconoscere Israele come Stato del Popolo Ebraico. Ma il suo peso sulla stabilità dell’area non è in questo momento comparabile all’attacco di Assad al suo stesso popolo, che ha fatto 100mila morti; sullo scontro con Al Qaeda che scuote di nuovo il mondo e dal Medio Oriente si estende con terribili attentati terroristi ovunque; con la mobilitazione iraniana e degli hezbollah per difendere Assad e la contro mobilitazione di forze estremiste sunnite dall’altra parte; con i 1000 morti al giorno che gli attentati fanno in Iraq; con la tempesta egiziana che non accenna a chiudersi; con lo sconvolgimento libico; le stragi di cristiani; la marea di profughi che attraversano i confini; l’insorgenza curda; lo scontro sunnita-sciita che sta letteralmente cambiando la geografia mediorentale. Ce n’è per tutti I gusti, e il conflitto israelo-palestinese non è né un motore né una causa collaterale di questo terremoto anche se è importante.
Ma la ragione per cui Obama l’ha citato è di carattere ideologico. Ovvero, la sua è una presa di posizione dovuta, cioè identica a quella della baronessa Ashton quando, dall’Europa stavolta, disegna lei stessa i confini di Israele e del futuro stato palestinese tracciandoli con le famose “guidelines” che definiscono come intoccabili i beni e le idee prodotte al di là della Linea Verde proibendo all’Europa di averci a che fare; è identica anche, se si vuole un altro esempio, all’allarme espresso pubblicamente e senza remore per uno sciopero della fame da parte di un prigioniero palestinese in un carcere israeliano mentre Assad nel silenzio generale uccide donne e bambini, uguale alla formidabile comparazione degna della peggiore ottusità politica, fra I bambini ebrei uccisi dal terrorista islamico e i bambini di Gaza che imprevedibilmente e contro ogni volontà sono stati uccisi nella guerra che contrappone Hamas a Israele. Si tratta di atteggiamenti ormai identici in tutto il mondo: un tempo l’antagonismo antisraeliano non era diffuso omogeneamente nel mondo.
L’idea che Israele sia un problema, una minaccia per la stabilirà, un’entità problematica di per sé , anzi, la più problematica, è però ormai una coperta ideologica globale su cui intellettuali e politici di tutto il mondo, da Chomsky a Saramago a Theodorakis a Dario Fo, hanno teso una tela dello stesso colore, il colore della globalizzazione, per cui Obama, a differenza di altri presidente americani, per esempio Clinton, non si considera, di fronte all’Europa e al mondo, il difensore di Israele dalle accuse più ingiuste: segue invece la corrente della rete, è membro del club cibernetico ormai pervaso dall’ accusa globalizzata a Israele di essere un trouble maker, un piccolo stato (“that shitty little country” disse l’ambasciatore francese a Londra) dal destino incerto. La calunnia originaria che non vede negli ebrei il popolo aborigeno della zona, ma invece un colonizzatore con cui, purtroppo, bisogna scendere a compromessi e che per la zona non è una ricchezza ma un problema, è ormai molto simile nella leadership europea e in quella americana. Per la prima volta nella storia, ambedue sono profondamente influenzati da una larga presenza della cultura islamica e dal suo incistamenti antiebraico sia da fuori che da dentro i suoi confini, dove vivono larghe comunità di immigranti. Così, abbiamo oggi in campo un’idea unificata a livello globale del fatto che Israele sia un problema pesante, difficile… e questo stato d’animo è stato significativamente rappresentato da Obama all’assemblea dell’ONU.
La risposta indiretta di Bibi Netanyahu è stata altrettanto decisa, ed è proseguita col discorso all’Università di Bar Ilan del 6 ottobre, dove Netanyahu ha chiarito che non ci sarà accordo con i palestinesi finchè essi non riconosceranno Israele come Stato nazionale degli ebrei. All’ONU Netanyahu ha tenuto un discorso diretto e duro, senza paura di violare la norma del buonismo mondiale che in questo periodo, contro ogni evidenza, concede a Rouhani il beneficio di un dubbio positivo. Bibi dimostrato che non c’è nessuna traccia di una volontà di fermare le centrifughe, ma che al contrario il personaggio Rouhani, negoziatore nel 2005, è uno degli inventori della tecnica della dilazione durante la quale mentre si parla va avanti il progetto nucleare. Lo disse Rouhani stesso. Il primo ministro israeliano però non si è limitato a dire che l’Occidente si sta nutrendo di un’illusione molto pericolosa e che l’Iran è guidato solo dal desiderio di porre fine alle sanzioni. Bibi ha detto senza infingimenti che Israele non avrà paura, prima di affrontare il rischio di essere annichilito da una bomba iraniana, di fronteggiare da solo, se del caso, la possibilità di un intervento militare. E ha avuto il coraggio di radicare il suo punto di vista in una scelta morale, cioè quella di proibire il possesso di armi di distruzioni di massa a uno stato canaglia pericoloso per tutto il mondo.
“Se Israele dovrà resistere da solo, lo farà” ha detto Netanyahu. Il giorno dopo il New York Times, che già aveva sostenuto l’accordo al tempo in cui il Nord Corea prometteva il disarmo mentre di nascosto preparava la bomba atomica che oggi è una minaccia per tutti, biasimava il Primo ministro israeliano. Come osava mettere in discussione l’ottimismo obbligatorio che oggi circonda la disponibilità dell’Iran a un accordo? Osava, perfino, che cattivo gusto, ricordare come suo nonno era stato assalito in Europa dagli antisemiti e, gettato per terra nel suo sangue, aveva gridato :”Che vergogna, i figli dei Maccabei nel fango senza potersi difendere” per poi volgersi verso Gerusalemme? Questo radicare il proprio diritto all’autodifesa nella storia è una rivendicazione controcorrente e molto innovativa. Quando dopo diecimila missili da Gaza l’Europa ha condannato l’intervento israeliano a Gaza il diritto degli ebrei alla vita, come del resto durante l’Intifada, era di nuovo, ancora una volta, un elemento del tutto trascurabile della storia umana.
A Bar Ilan Netanyahu ha detto che non potrà esserci pace finché il diritto degli ebrei alla loro patria non verrà riconosciuto, perché è proprio nel continuo suggerimento all’opinione pubblica internazionale che si tratta di un’usurpazione colonialista, di una prepotenza fatta al popolo palestinese, il pregiudizio che impedisce l’accordo. I palestinesi sentono che il tavolo delle trattative non è il vero luogo dove si decide il futuro dei confini, di Gerusalemme, del futuro stato palestinese. Esso è invece neli luoghi della mente, dove si compie la delegittimazione del diritto di nascita degli ebrei in Israele, la negazione del diritto di autodifesa, è nei discorsi di Obama, nelle guidelines della signora Ashton. Da qui I palestinesi aspettano la loro soluzione, non dalle trattative, e Obama e Ashton fanno di tutto per dargli ragione. Netanyahu sta semplicemente con le sue utlime mosse cercando di riportare il discorso alle sue reali ragioni, ai suoi termini reali: qui c’è una nazione misconosciuta, che invece deve essere guardata come tutte le altre nazioni del mondo, un Paese del suo Popolo, col suo diritto a difendersi, con confini che ne disegnino la sicurezza e anche il retaggio storico, tenendo conto dei rapporti di forza e delle opportunità che la storia concede. Ma nessun altro le deve decidere: solo il popolo ebraico e il popolo palestinese, se finalmente avrà il coraggio di muovere un passo per il suo proprio tornaconto reale, disegnando dei confini possibili e accettando finalmente, dopo 65 anni, una diversa concettualizzazione del conflitto.
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