venerdi 27 dicembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
24.10.2013 Negoziati Israele/palestinesi: Bibi Netanyahu incontra John Kerry
commenti di Paolo Valentino, Franco Venturini, Pio Pompa

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Paolo Valentino - Franco Venturini - Pio Pompa
Titolo: «Negoziati fra Israele e palestinesi ,Kerry fa pressione su Netanyahu - I paletti dello Stato ebraico: 'Teheran deve disfarsi di tutto l’uranio arricchito' - C’è una vecchia conoscenza dietro all’ira dei sauditi con Obama»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 24/10/2013, a pag. 17, l'articolo di Paolo Valentino dal titolo " Negoziati fra Israele e palestinesi ,Kerry fa pressione su Netanyahu ", l'articolo di Franco Venturini dal titolo " I paletti dello Stato ebraico: «Teheran deve disfarsi di tutto l’uranio arricchito» ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'articolo di Pio Pompa dal titolo " C’è una vecchia conoscenza dietro all’ira dei sauditi con Obama ".

E' la prima volta che due analisi (quelle di Valentino e Venturini) rivelano quanto chi le ha formulate conosca la realtà mediorientale che descrive. Un plauso, quindi, al Corriere della Sera.

a destra, Bibi Netanyahu con John Kerry

Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Paolo Valentino : " Negoziati fra Israele e palestinesi, Kerry fa pressione su Netanyahu "


Paolo Valentino

ROMA — Almeno su una frase, l’uno ha fatto eco all’altro: «No deal is better than a bad deal», nessun accordo è meglio di un cattivo accordo. Parlavano dell’Iran naturalmente, John Kerry e Benjamin Netanyahu. Ma per il resto, il capo della diplomazia americana e il primo ministro d’Israele sono rimasti fedeli ai propri, diversi canovacci, con il primo a fornire rassicurazioni che gli Stati Uniti non si faranno incantare dalle sirene persiane nella trattativa nucleare appena riaperta. E l’altro pronto a raffreddare ogni entusiasmo, tracciando l’invalicabile linea rossa: «Teheran non deve avere alcuna capacità atomica militare».
Eppure, la maratona diplomatica romana di oltre sette ore tra l’inviato della Casa Bianca e il leader ebraico è stata comunque un fatto eccezionale e promettente. Di sicuro ha mandato il segnale fin qui più forte e inequivocabile che Washington «means business», fa sul serio nella grande partita mediorientale e chiede altrettanto impegno al suo principale alleato nella regione.
Ufficialmente, il dossier iraniano non era neppure all’agenda dei lavori, concentrati soprattutto sui negoziati di pace israelo-palestinesi, dove le posizioni rimangono distanti. I palestinesi non intendono rinunciare al diritto al ritorno dei profughi, una prospettiva improponibile per Israele. E insistono sul ritorno alle frontiere del 1967 e sul riconoscimento di Gerusalemme Est come capitale del futuro Stato palestinese. Israele invece continua a minimizzare la questione degli insediamenti nei Territori Occupati, già più volte sospesi, che agli occhi dei palestinesi creano situazioni di fatto impossibili da gestire.
Eppure, grazie agli sforzi e alla nuova determinazione dell’Amministrazione Usa, il clima appare diverso. Lo suggeriscono le dichiarazioni di ieri di Netanyahu, prima di iniziare i colloqui: «L’obiettivo è di fare passi avanti verso una soluzione con due Stati». Posizione difesa anche dal leader palestinese Abu Mazen, che in visita a Bruxelles ha dichiarato: «Non possiamo permetterci il lusso di fallire». Per questo, la maratona romana è vista come un passo molto importante verso l’ambizioso obiettivo di arrivare a un’intesa finale entro nove mesi.
Ma ugualmente l’Iran ha finito per occupare una parte importante dei colloqui. «Porteremo avanti la nostra iniziativa diplomatica con gli occhi ben aperti - ha detto il segretario di Stato al suo interlocutore a proposito del negoziato con Teheran -, coscienti che le parole non possano sostituire le azioni. Sarà vitale che l’Iran rispetti gli stessi standard delle altre nazioni che hanno programmi nucleari, nel momento in cui proverà che il suo programma è pacifico». Secondo Kerry, le sanzioni potranno essere revocate soltanto quando ci saranno da parte iraniana «azioni che dimostrino in modo cristallino e innegabile che qualunque programma stiano realizzando, sia veramente un programma pacifico». E’ qui che il primo ministro israeliano ha colto lo spunto per ripetere la frase di Kerry: «Meglio non raggiungere alcun accordo che farne uno cattivo». Netanyahu ha spiegato che Teheran «non deve possedere centrifughe per l’arricchimento, non deve avere reattori ad acqua per produrre plutonio, tutti strumenti che servono a produrre un’arma nucleare».

CORRIERE della SERA - Franco Venturini : " I paletti dello Stato ebraico: «Teheran deve disfarsi di tutto l’uranio arricchito» "


Franco Venturini

Alla maratona negoziale di ieri a Villa Taverna il premier israeliano Netanyahu è arrivato con un vantaggio sul Segretario di Stato americano John Kerry: quello di avere alle spalle posizioni ben definite sul nuovo dialogo con l’Iran, sulla trattativa in corso con i palestinesi, e anche sulle prospettive della guerra civile siriana. Non è detto che le «linee rosse» difese dal governo di Gerusalemme possano portare a un assetto mediorientale più pacifico, ed è noto che su alcuni punti Israele non condivide gli approcci del suo grande alleato americano. Ma ora che tutti i giochi sono aperti i paletti israeliani hanno se non altro il pregio di sgomberare il terreno da equivoci che sarebbero comunque di grave ostacolo. Per esempio quando su una eventuale intesa con Teheran dovrà pronunciarsi il Congresso di Washington.
Israele non capisce e non approva l’ottimismo creato dall’arrivo sulla scena del nuovo presidente iraniano Rohani, e considera che l’Occidente commetterebbe un «tragico errore» se per imbrigliare i programmi nucleari di Teheran accettasse un accordo parziale. Il ragionamento prevalente a Gerusalemme è che per fermare la bomba atomica iraniana non basta più eliminare le scorte di uranio arricchito al venti per cento. Il numero e la qualità delle centrifughe di cui oggi dispone l’Iran sono tali che anche partendo dall’uranio arricchito al tre o al cinque per cento (livello che agli Usa, agli europei e alla Russia parrebbe tollerabile) Teheran potrebbe raggiungere in poche settimane la massa critica per l’arma nucleare. La linea israeliana è dunque che un accordo con l’Iran sarebbe accettabile soltanto se vietasse ogni forma di arricchimento dell’uranio e garantisse nel contempo la disattivazione delle centrifughe, la rinuncia alla centrale ad acqua pesante che può produrre plutonio, e lo smantellamento di basi segrete o sotterranee a cominciare da quella di Fordo. Gerusalemme riconosce che le sanzioni economiche stanno funzionando, ma pensa che proprio per questo bisogna ottenere dall’Iran, quando sarà il momento, una totale e credibile rinuncia al nucleare. Alleggerire prima i provvedimenti adottati sarebbe una colpevole prova di incoerenza da parte dell’Occidente. E non è un caso che diversi Stati arabi, a cominciare dall’Arabia Saudita, la pensino su questo come Israele .
Molta fermezza anche nel negoziato con i palestinesi, direttamente sponsorizzato dagli americani. Israele non pensa che una intesa sugli insediamenti sia troppo difficile da raggiungere, ma quello ed altri punti passano in seconda fila davanti alle due priorità cui Gerusalemme non intende rinunciare: il riconoscimento da parte palestinese di Israele come Stato ebraico, e l’accettazione di una presenza militare israeliana lungo la valle del Giordano. A quest’ultima garanzia di sicurezza, tra l’altro, non possono provvedere forze internazionali. E se Abu Mazen su queste richieste non fa concessioni, è anche perché americani ed europei non premono abbastanza su di lui.
Quanto alla Siria, bene se il disarmo chimico continuerà, ma un pessimismo più generale è obbligatorio mentre Assad rifiuta di farsi da parte, gli oppositori qaedisti sono i suoi principali avversari e i libanesi sciiti di Hezbollah invece lo difendono. A proposito, abbinando la Siria all’Iran: l’Occidente sarebbe forse contento se Assad si impegnasse a distruggere soltanto una parte delle sue armi chimiche?
Un codicillo economico: Israele cresce, ed è la terza potenza al mondo nella sicurezza cibernetica. Qualcuno è interessato? Ma di questo probabilmente Netanyahu con Kerry non ha parlato.

Il FOGLIO - Pio Pompa : " C’è una vecchia conoscenza dietro all’ira dei sauditi con Obama "


Re dell'Arabia Saudita

L’attuale capo dei servizi segreti sauditi, il principe Bandar bin Sultan, non avrebbe mai sospettato di ritrovarsi un giorno a dover fronteggiare la minaccia nucleare iraniana con al fianco soltanto Israele. L’Amministrazione Obama si ostina, specie sui dossier siriano e iraniano, a non prestargli ascolto. Dopo l’abbaglio preso da Washington con il dittatore siriano Bashar el Assad a cui l’America, con la giravolta sull’intervento, ha allungato di fatto la permanenza al potere, se ne profilerebbe un altro nei confronti del presidente iraniano Hassan Rohani, salutato come un “riformatore”. Da qui l’estrema irritazione di Riad, culminata nel rifiuto del seggio non permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu, e la sua controffensiva (che potrebbe portare a una riduzione della collaborazione tra i sistemi d’intelligence) affidata a Bandar bin Sultan. Cioè a colui che viene ritenuto uno dei migliori conoscitori di Rohani e dello stato dell’arte del programma nucleare di Teheran. “In un certo senso – racconta al Foglio una fonte d’intelligence araba – Bandar si sente responsabile, sia pure indirettamente, del fatto che il suo paese si trovi ad affrontare il principale nemico in una condizione di oggettiva inferiorità avendo ceduto, nei lunghi anni della sua permanenza a Washington, alle pressioni americane volte a dissuadere l’Arabia Saudita dal varare un proprio programma nucleare temendone l’uso per scopi militari. Una responsabilità fattasi ancora più pesante dopo le indiscrezioni ricevute secondo cui, sulla base di accordi segreti in corso di perfezionamento tra Russia e Stati Uniti, all’Iran verrebbe concesso l’utilizzo del nucleare, sia pure per scopi civili, sorvolando incoscientemente sui possibili sviluppi in campo militare. Rohani, dopo il capolavoro diplomatico compiuto nel 2003 quando annunciò all’Aiea (allora presieduta dal controverso Mohamed ElBaradei) il blocco, in realtà mai avvenuto, del programma nucleare iraniano, si accinge a compierne un altro ottenendo che il suo paese possa muovere tranquillamente i primi passi nel nucleare civile ritenuto una copertura ideale per proseguire nella realizzazione dell’atomica. Eppure Bandar bin Sultan, pur rischiando di entrare in rotta di collisione con le posizioni prudenti e attendiste assunte al riguardo dal ministro degli Esteri, Saud bin Faisal, aveva più volte avvertito il governo statunitense di diffidare delle lusinghe di Rohani, fornendo prove inconfutabili sulla corsa iraniana verso l’atomica”. A Riad l’aria che si respira è quella di essere stati traditi da Obama, anche se le avvisaglie verso un esito del genere si erano manifestate chiaramente sin dal 2011 con l’esplosione della primavera araba. Ancora una volta era stato Bandar a mettere inutilmente sull’avviso l’Amministrazione americana della possibile deriva islamista dei sommovimenti che stavano sconvolgendo il mondo arabo e del ruolo che avrebbe assunto il movimento salafita forte di un esercito itinerante di oltre 180 mila uomini. Fu ignorata dagli americani anche la dura presa di posizione dell’Arabia Saudita contro il rovesciamento del presidente egiziano Hosni Mubarak. Tuttavia i rapporti tra i due paesi restarono ancora solidi, tant’è che Riad sottoscrisse in quell’anno con le industrie militari americane la più grande commessa della sua storia per un importo di 24 miliardi di euro. “Oggi – continua la nostra fonte d’intelligence – la situazione è radicalmente cambiata e, fatta eccezione per alcune operazioni antiterrorismo, Bandar non ha alcuna intenzione di soggiacere alla politica estera obamiana, continuando a rifornire di armi i ribelli siriani che combattono Assad e le formazioni qaidiste presenti nel paese e a opporsi a ogni forma di compromesso sul nucleare iraniano anche qualora fosse costretto a stringere un’alleanza tattica con Israele”.

Per inviare la propria opinione a Corriere della Sera e Foglio, cliccare sulle e-mail sottostanti


lettere@corriere.it
lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT