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Informazione Corretta Rassegna Stampa
22.10.2013 Fiamma Nirenstein ricorda l'eroismo di Tzhal durante la guerra del Kippur
In un convegno a Milano con Avigdor Kahalani

Testata: Informazione Corretta
Data: 22 ottobre 2013
Pagina: 1
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Hai mai conosciuto un eroe ?»

Ecco l'intervento di Fiamma Nirenstein tenuto in occasione del convegno "Hai mai conosciuto un eroe?" tenutosi a Milano domenica 20 ottobre presso l'Aula Magna Benatoff della Scuola Ebraica per celebrare l'anniversario della Guerra del Kippur. Ospite l'ex generale Avigdor Kahalani, comandante in capo del suo battaglione, che durante la guerra dello Yom Kippur era posizionato sulle alture del Golan dove con 177 mezzi ha dovuto affrontare l’avanzata di 1650 carri armati dell’esercito siriano:


Fiamma Nirenstein,   Gen. Avigdor Kahalani

Sono onorata di essere qui a parlare insieme a Avigdor Kahalani, l’eroe della guerra del Kippur dopo che, non dobbiamo dimenticarlo, era stato gravemente ferito nella guerra del’67. Questo non gli tolse il coraggio di osare tutto e di salvare Israele sul fronte nord proprio come Ariel Sharon lo salvò sul fronte egiziano. Avrebbe potuto facilmente darsi per vinto, rinunciare, piegarsi a piangere i suoi soldati, uccisi o feriti in battaglia, e invece ordinò di andare avanti contro i carri armati siriani, e inaspettatamente riuscì a respingerli, a recuperare, a ristabilire il primato di Israele sul Golan e oltre. Sono stata pochi giorni fa nell’Emek ha-Bachà, la valle delle lacrime. Probabilmente la conoscete. Una valle gialla e rossa sul Golan, orlata di verde, col Monte Hermon all’orizzonte, dove un monumento ai caduti e uno scheletro di carro armato siriano aprono come una quinta lo scenario delle guerra più crudele: 800 carri armati siriani che si avventano oltre le linee del cessate il fuoco sulle alture del Golan, che vengono sostituiti rapidamente quando vengono colpiti, che sono coperti da elicotteri che occupano quelli che sono chiamati gli occhi di Israele, i radar sul monte Hermon. Alla tv Israeliana, in questi giorni in cui ricorre l’anniversario della guerra del Kippur, ci si seguita a stupire per due cose, una che fa disperare, l’altra che lascia a bocca aperta.
1) Perchè Golda Meir, Moshe Dayan, David Elazar, Sharon, Raful, Ben Gal, non sapevano cosa sarebbe accaduto? Dove era l’intelligence, dove era il proverbiale senso di preveggenza, la bravura e la forza della leadership e dell’esercito d’Israele? Quanto giocò il peso della briglia tirata da Nixon e Kissinger sul collo di chi invece avrebbe voluto richiamare le riserve molto prima di quanto non fu fatto? Com’è stata possibile, dopo il trionfo del 67, tanta sofferenza, tanta disperazione, tanti ragazzi morti? Dayan perse le testa per qualche ora, di Golda si dice addirittura che abbia pensato al suicidio. Come fu che i tank Israeliani si trovarono senza raggi infrarossi a combattere con quelli siriani che invece li avevano e quindi potevano prenderli di mira al buio, mentre Kahalani racconta che non vedeva niente ed era costretto nel fuoco e nel sangue, a sparare nel buio?
2) Come alla fine la sconfitta, sia al Nord che al Sud, si sia trasformata in una vittoria, come sei carriarmati, piano piano aumentati a venti grazie all’arrivo di qualche rinforzo guidato da Kahalani, riaprirono la strada Kuneitra Masada, tanto che Eytan chiamò e disse “avete salvato Israele”, ed era vero.
Kahalani ci può raccontare meglio di qualunque altro come sia andata la vicenda, come ancora una volta si sia compiuto il miracolo della salvezza di Israele. Se si ascoltano le testimonianze di allora, tuttavia una prima risposta appare evidente: è il soldato d’Israele, la sua integrità, la sua determinazione che salva questo piccolo paese ad ogni attacco, ad ogni aggressione. Sulla via che aveva portato il 9 l’esercito a recuperare le linee dell’armistizio del 67, c’erano 867 carri armati siriani distrutti, le macchine, le armi… tutto quello che l’esercito siriano aveva gettato nella battaglia con cui credeva di distruggere Israele, ora giaceva ammonticchiato agli angoli della strada. Kahalani ci racconterà. Ho visto nelle testimonianze dei soldati che ricordano quella guerra la quintessenza della storia d’Israele. Vi fu un’incredibile giravolta che ha portato un esercito che nelle prime 12 ore di combattimento si era visto bloccare le proprie formazioni di carrarmati e le sue mitiche forze aeree – quelle che avevano portato il successo nella guerra dei sei giorni - che per la prima volta vedeva i soldati arabi, dalle due parti, ferocemente decisi a batterlo, a riuscire poi ad arrivare sino alle porte di Damasco e a minacciare il Cairo. Secondo i maggiori storici (come John Keegan and Donald Kagan), nessun’altra vicenda storica somiglia a questa vicenda, né in tempi moderni né nell’antichità. Forse per trovare episodi di pari valore bisogna andare alle Termopoli, che però si conclusero con una strage, o ai tempi dei romani.
La chiave della vittoria è stata la capacità di combattere del soldato israeliano, la sua resistenza nata dell’allenamento e soprattutto nella motivazione. Un soldato al fronte non si lamenta, non si dispera, non si spaventa, si chiede solo come fare a salvare la sua casa, come battere il nemico, come dare di più e ancora di più. E qui la leadership dei comandanti, specie di quelli sul campo come i capi battaglione, è fondamentale. Il coraggio di Kahalani, la sua versatilità, la sua capacità di improvvisare e di non mollare mai, in una parola ciò che noi chiamiamo eroismo, è quello che ha consentito di fermare i soldati arabi e di stabilizzare la situazione. Anche se i carrarmati degli arabi avevano i raggi infrarossi ed erano di un modello sovietico nuovissimo, i nostri sparavano più velocemente, la mira era migliore, la portata più lunga.
Kahalani vi ricorderà come, nelle ore prima dell’attacco, Dayan e David Elazar si siano trovati in disaccordo, come Dayan non abbia accettato di lanciare un attacco preventivo e di mobilitare le riserve, come Golda fosse con Elazar e tuttavia tutto ciò fosse stato realizzato in ritardo, come Sharon alla fine con il suo atteggiamento deciso, sempre criticato dal governo, abbia deciso la guerra sul fronte del Sinai. Io penso che da quella guerra, l’esercito israeliano e tutti gli ebrei del mondo abbiano imparato una grande lezione, che consiste nel tenere la guardia alta, di conoscere a fondo le intenzioni del nemico, di sapere ciò che bolle in pentola, di rendersi conto fino in fondo della determinazione del nemico a battere Israele senza mai sentirsi superiore o arrogante di fronte a una situazione di acuto pericolo qual è quella mediorientale. Quella guerra ha anche insegnato che lo spirito alla fine è quello che conta.
Nella mia esperienza, il contatto con l’esercito mi ha sempre rassicurato e anche intenerito. Fella mia lunghissima battaglia contro la delegittimazione di Israele, una delle cose più difficili da far capire alla vecchia Europa che odia le guerre è il diritto all’autodifesa e anche l’eccellenza umana del soldato israeliano.I nemici di Israele lo sanno bene: tutte le mitologie negative che cercano di bollare le azioni militari come crimini contro l’umanità, che puntano sulla pietà verso i bambini, che disegnano il palestinese che lancia la pietra contro il mitra del soldato israeliano, che inventano addirittura, come fece il giornale svedese Aftonbladet, il commercio di organi, che dipingono la Mavi Marmara come una nave pacifista in soccorso della popolazione civile di Gaza… negli anni sono diventati sempre più raffinati. Si è capito che l’Europa, che ha attraversato le immense stragi della prima e della seconda guerra mondiale, non ha nessuna possibilità di comprendere la guerra, non vuole riconoscere che talora la necessità di impugnare le armi è pari a quella di sopravvivere. Non sa più, e rifiuta con tutto il suo essere il concetto di Guerra Giusta. Tutte le istituzioni internazionali, dall’ONU all’Unione Europea, considerano impossibile e comunque insopportabile l’idea di usare le armi, il concetto stesso di esercito gli è inviso, e infatti qui comincia il sospetto con cui Israele è considerata ad ogni sua mossa.

Mohammed Al Dura: un delitto dei soldati che poi si è dimostrato falso. Il rapporto Goldstone, basato su un concetto di civili palestinesi ormai totalmente inesistente. Lo stesso in libano nella guerra del 2006. Quante storielle, per esempio quella del bambino che lanciava i sassi arrestato, che invece era stato semplicemente ricondotto da suo padre, mai toccato, sempre accompagnato da un altro ragazzo amico suo. Per questo è indispensabile conoscere l’esercito israeliano, conoscerne il codice di comportamento basato sulle più ferree regole morali, tanto che alle volte risulta terribilmente pericoloso per i soldati stessi (se lui ti sta sparando puoi reagire, un minuto dopo o prima no), bisogna vederli i ragazzi ai checkpoint, nel caldo e nel freddo, di notte e di giorno, durante gli hagim mentre tutti sono a casa con le famiglie. Sono ragazzi che vengono cresciuti, in una società democratica e liberale, come le pupille degli occhi della loro famiglia, bambini che attraversano la strada per mano che vanno in piscina o a imparare uno strumento musicale con la mamma, ed ecco che poi a 17, massimo 18 anni, si ritrovano tutti insieme un giorno di buon mattino per inaugurare la vita vera, quella in cui il loro Paese è in pericolo. Questa vita vera i ragazzi occidentali non la conoscono più, se non in piccola parte. L’abbandono dell’individualismo per il senso della collettività, l’amore reciproco, il gruppo come un valore, il sacrificarsi gli uni per gli altri, non lamentarsi mai, cantare le stesse canzoni, condividere il cibo tanto diverso da quello di casa e faticare per un fine comune, quello del proprio Paese… a tutte queste cose l’Europa dovrebbe guardar come un valore, un ideale, e la Agudà Lemaan ha-Chaial deve portare gruppi di parlamentari, di intellettuali, di giornalisti, ad ammirare come i soldati d’Israele sanno ancora essere altruisti, ingenui, felici, pieni di voglia di vivere e di divertirsi… mentre tanti ragazzi d’oggi cercano disperatamente la loro identità. Israele e il suo esercito, che poi lascia un segno indelebile nella vita di tutta la nazione, devono diventare un esempio, un modello, e credo che ne abbiano tutte le possibilità.
Israele, e concludo, è un Paese che rappresenta insieme, per un miracolo di intelligenza e di equilibrio, un’oasi di serenità e di democrazia e nel contempo un fortino assediato. L’esercito è là per preservare queste caratteristiche. Il libro di Saul Singer “The Start-Up Nation” fa vedere come l’incredibile primato dei ragazzi israeliani nell’HIGH TECH, che li rende secondi solo al gigante americano, in gran parte si acquisisce nell’esercito. Un esercito che è forte, ben preparato, che sui confini della guerra del 73 oggi, a nord e a sud, vede Paesi travolti e confusi dalle loro rivoluzioni. Ma non dobbiamo mai dimenticarci che sono anche Paesi in cui non esiste nessun controllo statuale e istituzionale, che la loro cultura è dominata sempre dall’odio antiebraico, che l’Egitto ancora è in piene convulsioni, e che in Siria Assad è il centro di una coalizione malefica, di cui l’Iran è il capo, e gli Hezbollah la feroce longa manus. Il fronte sciita è per altro fronteggiato da un fronte sunnita in cui Al Qaeda balza all’orizzonte di nuovo. Israele sa che è sola, e coma ha detto Bibi Netanyahu, se dovrà affrontare il problema del nucleare iraniano da sola, lo farà. A noi il compito di sostenere il Paese e l’esercito migliore del mondo nella situazione più difficile che si possa immaginare.

Kahalani è qui a insegnarci come fare. Ho letto il suo bellissimo libro “A Warrior’s way”, in cui si impara l’abc di come nasce nel cuore di un uomo l’eroismo, la disponibilità di dare la vita, il rapporto minuto fra comandante e soldati, la compenetrazione con i loro problemi, la disperazione contenuta per la loro perdita uno a uno, il rapporto con le famiglie di ciascuno, l’incredibile determinazione a imparare minuto per minuto l’ulteriore lezione che ti aiuta a correggere gli errori, a superare le difficoltà, che ti fa fare autocritica e ti insegna a vincere. A costo di un coraggio senza limiti. Alla fine l’ultima frase del libro di Kahalani ci dice tutto sul suo spirito indomito: “Per quanto io abbia dato di me stesso, l’esercito mi ha dato di più. Era una casa, una famiglia in uniforme che ho lasciato con un’esperienza di vita,  con una grande ricchezza, con conoscenza e anche con ferite. Da ragazzo, ho sentito molto parlare del Sionismo, di costruire il mio Paese e difenderlo. Oggi penso di essere una parte di tutto ciò, come ogni ferita sul mio corpo testimonia”.
www.fiammanirenstein.com


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