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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Aurelia Raszkiewicz, Piste di lacrime 21/10/2013

Piste di lacrime                              Aurelia Raszkiewicz
Traduzione di Augusto Fonseca
Zane editrice                                      euro 12


Si legge con rispetto e profonda commozione il libro “Piste di lacrime” di Aurelia Raszkiewicz; non è un romanzo e neppure  un saggio, bensì una drammatica testimonianza di vita vissuta, un documento storico prezioso che viene ad arricchire un ambito poco esplorato dalla storiografia, quello delle deportazioni e dei campi di concentramento rosso-sovietici.
E il merito di averci fatto conoscere questo piccolo gioiello letterario va ad Augusto Fonseca, esperto di letteratura macedone, italianista e slavista poliglotta, che lo ha tradotto con grande efficacia lasciando inalterate le emozioni che scaturiscono da un racconto di forte impatto emotivo, arricchito da una scrittura semplice, oltre che da uno stile linguistico così fluido da coinvolgere appieno il lettore nelle vicende narrate dall’autrice.
Pubblicato nel 2011 nella collana Slavica (ora denominata Memento) della casa editrice Zane che raccoglie opere delle letterature slave, il libro narra con gli occhi di una bambina di 11 anni del crimine perpetrato dall’Unione Sovietica, uno Stato civile, ai danni di tante famiglie polacche che furono deportate su carri bestiame durante la seconda guerra mondiale. Per i bambini quel dramma fu immane perché non solo vennero privati della loro patria, “luogo dell’anima rifugio e palestra spirituale”,  ma anche dell’infanzia e costretti a vivere in condizioni disumane per lunghi anni, strappati ad una quotidianità fatta di giochi, scuola e amici.
Il racconto di Aurelia prende avvio con una descrizione dai toni aulici della città natia, Pinsk, un luogo che rimarrà per sempre nel cuore e nella memoria dell’autrice: “…situata in una regione di pianure, boschi e specchi d’acqua, giace sul fiume Pina, solcato da battelli, pescherecci e canoe….gli alveari nei boschi, negli orti vicino a casa e nei giardini erano colmi di miele odoroso e di cera per le candele…”
Da questa magnifica cittadina abitata da Polacchi, Ebrei, Armeni, Ucraini , gente di diversa provenienza culturale ma accomunati dall’atteggiamento cordiale e da “uno spiccato senso dell’ospitalità”, in una gelida notte del 1940, Aurelia è strappata al calore e alla sicurezza della sua casa dai soldati sovietici e, insieme ai fratellini e ai nonni, caricata su carri bestiame e condotta in Siberia: “..da quel momento cessai di avere un padre, una madre, una casa, restavano solo il nonno e la nonna che, asciugandosi le lacrime, carezzavano con lo sguardo per l’ultima volta la nostra casa paterna, l’orto, il giardino dei vicini..”
Per la giovane Aurelia si spalanca un inferno di tormenti, privazioni, malattie e sofferenze che, lungi dall’intaccare la sensibilità e la generosità del suo cuore, accelera bruscamente quel processo di maturazione umana che, in condizioni normali, avrebbe richiesto anni e anni di tempo; Aurelia invece a soli 11 anni è costretta ad assumersi compiti e responsabilità da adulta, occupandosi dei fratellini e proteggendoli dalle insidie di un mondo malvagio.
Le pagine che seguono ricche di fascino, di descrizioni accurate di luoghi geografici e spazi temporali diversi l’uno dall’altro, conducono il lettore con un linguaggio semplice, privo di orpelli letterari, a conoscere una tragedia immane che non si può dimenticare.
Dalle gelide baracche sparse nella tajga siberiana ove par quasi di sentire lo scricchiolio della neve sotto i piedi, alle chiatte sul fiume Amudarjà con le acque torbide che conducono i poveri deportati in Uzbekistan, dal caldo infernale del deserto del Karà-Kum ai campi dove Aurelia, scossa di brividi della malaria, raccoglie il cotone, dalle rive del mare d’Aràl alle zone montuose senza una goccia d’acqua del sovhòz Skalistyj in Ucraina in cui con dita intirizzite si scava la terra in cerca di patate congelate per sopravvivere alla fame devastante: un percorso di privazioni e sofferenze lungo sei anni che l’autrice racconta senza mai lasciarsi andare ad espressioni di odio o disprezzo, anzi spiccano fra le pagine gli episodi di solidarietà e la riconoscenza verso quelle persone che hanno saputo porgere loro una mano.
Due elementi ricorrono nel racconto e guidano come un faro luminoso nell’oscurità la piccola Aurelia: la fede in Dio che le consente di non abbandonarsi ad una rassegnazione priva di speranza e la tenace volontà di ricongiungersi alla famiglia, tenendola unita anche nei momenti più avversi.
Nel 1946, alla fine della guerra, l’autrice torna in una Polonia profondamente cambiata e grazie a persone meravigliose riesce a trovare un’abitazione a Kortowo,  riprende gli studi e nel contempo lavora per mantenere la sua famiglia. Nonostante le gravi ripercussioni che i lunghi anni in esilio avevano lasciato sul suo fisico debilitato, Aurelia “trova altresì energie e risorse sufficienti non solo per ricostruire una dignitosa esistenza per sé e per i propri familiari, ma anche per fornire aiuto e assistenza ad altri connazionali, ritornati in patria dopo un analogo spietato destino”, partecipando all’Associazione di Ex Deportati in Siberia, in cui dal 1989  ricopre il ruolo di vice presidente del Consiglio regionale di Olsztyn.
Inno alla vita e omaggio alla Memoria di coloro che non sono tornati dall’esilio, la testimonianza di Aurelia Raszkiewicz, così come quella di tanti ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio, è un tassello di Storia prezioso, uno strumento per tramandare alle giovani generazioni le vicende di un passato che non può cadere nell’oblio perché la Storia ci insegna che il rischio che tali crimini possano ripetersi è sempre presente.
“Fissare sulla carta una storia è un po’ come incidere uno scritto sulla corteccia di un albero secolare”.


Giorgia Greco


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