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Il Foglio Rassegna Stampa
19.10.2013 Yossi Klein Halevi. il suo libro per capire Israele
'Like Dreamers', nei libri raccomandati da IC

Testata: Il Foglio
Data: 19 ottobre 2013
Pagina: 10
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «Il Peccato d'Israele»

Sul FOGLIO di oggi, 19/10/2013, a pag.X, con il titolo " Il peccato d'Israele", Giulio Meotti recensisce il  libro di Yossi Klein Halevi "Like Dreamers", che IC segnala in Home Page fra i Libri Raccomandati.

Yossi Klein Halevi               La copertina

La scena che apre “Like Dreamers” è un ritorno alla notte del 6 giugno 1967. Guidati da Yitzhak Rabin, Moshe Dayan e Uzi Narkiss, i soldati israeliani in lacrime toccano il Muro del Pianto a Gerusalemme. Prima di entrare, Dayan, guardando da lontano le mura, mormora a Narkiss: “Che ci facciamo con tutto questo Vaticano?”. Rabin crolla e si chiude in una stanza con un sonnifero, nessuno riesce più a trovarlo per ventiquattro ore. Quella notte sette paracadutisti della 55ma Brigata delle Forze di difesa israeliane attraversano la “shetah hahefker”, la terra di nessuno che separa la sovranità israeliana da quella giordana nella città vecchia, addentrandosi nel luogo più sacro al mondo che non era stato sotto sovranità ebraica per oltre duemila anni. “Quegli uomini hanno cambiato la storia di Israele e del medio oriente”, scrive l’autore di “Like Dreamers”, Yossi Klein Halevi. L’intellettuale ebreo americano, che vive a Gerusalemme da trent’anni e dove lavora per quotidiani e centri studi, ha scritto una saga politica e insieme un racconto intimo straordinario. Alcuni di quei paracadutisti erano kibbutznik di sinistra, altri erano sionisti religiosi, un fatto che colpisce l’immaginazione di Halevi come emblematico delle tensioni che avrebbero rimodellato Israele durante il mezzo secolo e che seguirono quella che oggi è conosciuta come la guerra dei Sei giorni. Da allora i “territori occupati” fiatano come sul collo di Israele un nuovo, enigmatico e tragico destino. “In larga misura”, scrive Halevi, “oggi Israele vive il parziale adempimento e il parziale fallimento dei sogni contraddittori di quei sette”. Fra di loro c’era Avital Geva, cresciuto in un kibbutz che apparteneva a Hashomer Hatzair, il movimento sionista di impronta marxista. “Avital e i suoi amici erano stati educati a venerare l’Unione sovietica come la ‘seconda patria’”, spiega Halevi, e ricorda che la morte di Stalin nel 1953 fu compianta sulla prima pagina del giornale del movimento. E se il paracadutista Yoel bin Nun era membro di una organizzazione giovanile religiosa di destra, Bnei Akiva, e sognava la “costruzione del Terzo Tempio”, i paracadutisti che venivano dal kibbutz intendevano il lavoro fisico come un atto religioso rituale, di devozione, e paragonavano le strade costruite dai loro compagni ai filatteri del manto di preghiera dei religiosi. Al posto delle festività religiose, i kibbutz avevano i cicli agricoli, ammiravano l’antico Israele, ma senza Dio. Il libro di Yossi Klein Halevi ricalca l’operazione che ha reso celebre Leon Uris col suo romanzo del 1958, “Exodus”. Ovvero raccontare la storia d’Israele attraverso le biografie di alcuni suoi eroi. Uris era stato un marine americano nella Seconda guerra mondiale e poi corrispondente nella guerra di Suez del 1956. Il suo romanzo kolossal ha trasformato l’immagine degli ebrei da vittime passive della Shoah in eroici israeliani. Halevi passa poi a descrivere la guerra più dura e inattesa, quella del 1973: “Le sirene suonarono come una esplosione prematura dello shofar, che conclude il Yom Kippur”. Dopo la guerra, due dei protagonisti del libro, Yoel bin Nun e Yisrael Harel, avrebbero contribuito a fondare il movimento dei coloni. “Lo slancio pionieristico si era spostato agli ortodossi”, scrive Halevi. Nel frattempo, altri israeliani, fra cui Geva, stavano formando il “campo della pace”, credevano cioè che i territori conquistati nel 1967 dovessero essere restituiti agli arabi il più velocemente possibile, “perché le guerre e il terrore non finiscono mai”. Per loro, gli insediamenti sono stati un errore disastroso e il percorso negoziale è stato il solo mezzo per la salvezza. “Per una parte della nazione”, spiega Halevi, “rimanere nei territori era una minaccia esistenziale, mentre per l’altra parte la minaccia esistenziale era il ritiro. Come può Israele determinare il suo rapporto con i territori vinti nella guerra dei Sei giorni senza che ne venga distrutto?”. Israele continua a cercare una risposta a questa domanda. “La sinistra ha avuto ragione sui pericoli dell’occupazione”, scrive Halevi, “ma la destra era corretta sulle possibilità di pace”. Durante il Kippur del 1973, mentre le famiglie israeliane si trovano al tempio o in casa, digiune e assorte in preghiera, lo stato ebraico viene attaccato da nord e da sud e a malapena si svincola dalla tenaglia. Fu una guerra vinta con la forza della disperazione e che avrebbe piantato semi strategici e tragici nella coscienza del popolo ebraico. Quella guerra fu un trauma profondo, con “un governo laburista arrogante e laici inveterati”, i veterani europei del kibbutz, colto di sorpresa dalle forze egiziane e siriane. Per ore, nel caos più totale, le riserve non vengono mobilitate, il fronte arabo si sposta in avanti senza ostacoli, Abba Eban evoca una “nuova Pearl Harbor”. Quasi tremila sono i morti israeliani. Fu allora che il kibbutz, culla della leadership della nazione, ha iniziato a decadere economicamente e socialmente. Il kibbutz era stato il pilastro della costruzione dello stato, quello delle fotografie di Robert Capa con i pescatori che alla sera leggevano Dostoevskij, le ragazze in sella al trattore che imbracciavano il fucile e Konrad Adenauer con David Ben Gurion nel Negev, di fronte a due bicchieri vuoti sul tavolo. Per la prima volta dal 1992 alla Knesset, il Parlamento israeliano, non ci saranno rappresentanti dei kibbutz. Il nuovo potere è passato al “Gush Emunim”, il blocco dei fedeli, il movimento dei coloni caratterizzato da uomini come il rabbino Hanan Porat, un altro protagonista nel libro di Halevi, una leggenda, un maestro. “Il sionismo non era il rifugio, ma il destino, la redenzione”, ha detto Porat all’autore. Porat è nato nel kibbutz di Kfar Tzion, verde, fresco. Nacque lì poco prima che nel 1948 un assalto di terroristi palestinesi uccidesse tutti gli abitanti ebrei. Le donne erano a Gerusalemme con i bambini. Porat crebbe giurando di tornare a casa, e all’indomani della guerra del 1967 passò all’azione: “Lo chiedemmo al governo di sinistra, a Moshe Dayan, a Yigal Allon, a Shimon Peres. Dapprima ci fu esitazione, ma quando ci videro determinati, certi di tornare a casa, il permesso venne. Gerusalemme sarebbe stata altrimenti esposta a ogni attacco”. Tutti i figli si riunirono sulle tombe degli eroi che avevano combattuto nel 1948: “Dicemmo piangendo ai nostri genitori che tornavamo a casa”. Intanto, mentre Porat e i suoi la chiamavano “casa”, per alcuni compagni di brigata quella era una usurpazione. La pensava così Meir Ariel, che sarebbe diventato famoso per la canzone “Gerusalemme di ferro”. Oppure Arik Achmon che avrebbe diretto l’industria aerea israeliana, e Avital Geva che avrebbe fondato “Peace Now”, mentre Udi Adiv sarebbe diventato un militante antisionista, arrestato per aver fatto visita a terroristi in Siria. “Questi uomini hanno insistito sul lato utopico di Israele, ma non erano d’accordo non su quale lato dell’utopia scegliere”. Secondo Halevi, la guerra del 1967 ha fatto esplodere la contraddizione intima del sionismo: “Il genio del sionismo è stata la capacità di fondere la normalizzazione e il messianico”, si legge in “Like dreamers”. “Fino al 1967, la tensione fra le forze della normalizzazione e quelle della trascendenza è stata contenuta. Il 1967 ha aperto l’abisso. In termini pratici questi due movimenti messianici, il kibbutz e le colonie, hanno assunto posizioni politiche opposte, ma l’ironia è che vengono dalla stessa sensibilità utopistica, l’idea che Israele debba essere esemplare”. “Like dreamers” racconta la metamorfosi di Israele da “stato pionieristico guidato dal collettivismo idealista dei kibbutz” a “mini-potenza capitalistica guidata dall’individualismo e da un nuovo idealismo, quello degli insediamenti”. L’élite dei kibbutz è stata sostituita da quella dei coloni. Nahum Barnea, commentatore politico di prim’ordine in Israele, scrive che è il momento dei “kippot srugot”, dei copricapi religiosi. “La vecchia élite laica è scomparsa, sostituita da una generazione di nazionalisti religiosi politicamente ambiziosa”, ha scritto Barnea. “E’ il loro tempo”. Il calice di Halevi trabocca di compassione, quella che manca sempre a chi scrive di Israele, la comprensione delle scelte difficili che Israele deve affrontare. La guerra del Kippur, scrive l’autore, è stata il momento della trasformazione dell’anima di un paese. Entrambi i movimenti, il pacifismo e i coloni, sono stati guidati più dal “terrore apocalittico del 1973” che dai sogni di espansione del 1967. Se il 1967 ha rappresentato il trionfo ebraico sulla storia, il 1973 è stato la “controrivoluzione”, il dipanarsi del senso di invincibilità. Golda Meir, il primo ministro travestita da araba era andata a un incontro segreto con re Hussein di Giordania, che la voleva informare dell’attacco imminente, ma non ci aveva creduto. Israele era come paralizzato. E infatti al 1973 seguirà una delle guerre più disastrose e drammatiche per lo stato ebraico. L’invasione del Libano, l’operazione “Pace in Galilea”. Quella che Ariel Sharon aveva previsto come una guerra lampo per “ridisegnare la mappa del medio oriente”, con la sicurezza che avrebbe regnato fra Tripoli, in Libano, e il Cairo, in Egitto, si trasformerà nel “Vietnam israeliano”. Fu una vittoria militare, perché Yasser Arafat e la sua banda di assassini terroristi furono costretti a lasciare Beirut alla volta di Tunisi. Ma mille soldati israeliani persero la vita. “Peace Now” prese vigore proprio allora, come il movimento delle Quattro Madri e gli “Shministim”, gli obiettori dell’esercito. Israele perse il senso della giustezza della propria causa, e della propria invincibilità. Il risultato della guerra del 1973, secondo Halevi, è stato “la più grande crisi teologica tra gli ebrei dopo l’Olocausto”. Perché ogni tentativo di creare un normale rapporto con il mondo è fallito? Perché siamo stati maledetti? “La questione urgente che affronta la società israeliana dopo il 1973 è stato il modo di scongiurare il ritorno alla condizione di esiliati”. Il movimento dei coloni e il movimento per la pace sono stati entrambi tentativi di superare in astuzia l’imposizione del ghetto sul sogno sionista, “il primo attraverso la redenzione divina, il secondo attraverso la pace utopica”. E’ la grande paura, dettata negli anni Trenta dall’assimilazione alla Germania di Bach e Rilke, inveratasi nelle camere a gas, e negli anni Sessanta dal tentativo fallito di statuizzarsi e normalizzarsi come “stato fra le nazioni”. Peace Now e il Gush Emunim, scrive Halevi, sono stati entrambi tentativi di “espiare i peccati della società israeliana negli anni tra il 1967 e il 1973”. Per entrambi, la sinistra laica e la destra religiosa, quei peccati non erano errori meramente tattici, ma “difetti fondamentali del carattere israeliano”. Per la sinistra, il grande peccato d’Israele era l’arroganza, “l’intossicazione del potere”, i territori. Moshe Dayan, il generale laburista con la benda all’occhio, aveva detto: “Meglio Sharm el Sheikh senza la pace della pace senza Sharm el Sheikh”. Per la destra religiosa, il peccato era invece l’ingratitudine. Israele aveva ignorato l’occasione divina di ripristinare l’integrità biblica della nazione. “Se noi non colonizziamo la terra, Dio revocherà il suo dono”, pensava la destra. Una nazione che rifiuta la benedizione è destinata a essere perseguitata dalla maledizione. Il trauma della guerra dello Yom Kippur sta tutto nelle voci che circolano da anni secondo cui l’allora primo ministro Golda Meir, nelle fasi più convulse e nere di quel conflitto, stesse seriamente pensando al suicidio. Nel venticinquesimo anniversario del conflitto, il quotidiano Yedioth Ahronoth ha pubblicato il contenuto di una drammatica conversazione fra la signora Meir e il leader socialista Yaakov Hazan. “Durante la guerra del Kippur fui molto vicina a togliermi la vita”, disse Golda. “Proseguii nei miei impegni solo per un senso di responsabilità, solo perché mi chiedevo che effetto avrebbe avuto (un suicidio) su di loro, sui giovani combattenti, su tutto il popolo. Per loro dovevo continuare a vivere, ma la mia vita reale si concluse allora”. Pochi mesi dopo la Meir avrebbe rassegnato le dimissioni e abbandonato la vita politica. Fu l’inizio del secondo Israele. Fu quando Yossi Beilin, il rampollo di una famiglia religiosa, ha abbandonato la kippah per diventare l’architetto degli accordi di Oslo, ed Effi Eitam, il figlio dei kibbutz socialisti, ha indossato il manto di preghiera, il tallit katan, memento permanente di chi fa della propria vita una testimonianza sacra, ed è diventato uno dei capi dei coloni. Se Beilin ha visto nella guerra del 1973 “il fallimento di Dio”, Eitam l’ha letta come “il fallimento della politica”. Israele da allora cerca una via per espiare quel “peccato originale” ed è diventato più cinico, meno compiacente con la comunità internazionale, più spregiudicato, più isolazionista. Ma ancora una volta, come nel 1973, anche nel 2013, e stavolta la minaccia viene dall’Iran, Israele vince o scompare. Una espiazione.

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