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La Stampa Rassegna Stampa
18.10.2013 Iran: gli allocchi occidentali si bevono la farsa di Rohani/Moderato
Roberto Toscano vede segnali 'di apertura' sul nucleare e critica gli Usa

Testata: La Stampa
Data: 18 ottobre 2013
Pagina: 1
Autore: Roberto Toscano
Titolo: «L'Iran si apre, ma l'America vorrà capire ?»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 18/10/2013, a pag. 1-29, l'articolo di Roberto Toscano dal titolo "L'Iran si apre, ma l'America vorrà capire ?".


Roberto Toscano

Il titolo dell'articolo rispecchia in pieno le utopie scritte dall'ex ambasciatore Toscano nel suo articolo.
L'Iran non sta tendendo nessuna mano, non si sta 'aprendo'. Sta solo prendendo tempo mentre continua a lavorare al suo programma nucleare.
Non è cambiato niente rispetto a prima, semplicemente Rohani è meno rozzo del suo predecessore e si esprime meglio, anche se le sue dichiarazioni su Israele 'cancro da estirpare' sono passate pressoché inosservate. E la guida suprema Khamenei è sempre la stessa.
Ecco il pezzo:

Appare certo saggio, dopo i due giorni di negoziato sul nucleare fra Iran e i 5+1, tenere a freno – per prudenza e magari un po’ di scaramanzia – un ottimismo esagerato sulla possibilità che dopo Ginevra la soluzione della complessa e controversa questione sia ormai a portata di mano. Come ha detto il negoziatore russo, ci sono chilometri da percorrere, e per il momento si sono fatti soltanto alcuni passi (e, ha precisato, «di mezzo metro ciascuno»). Vediamo in concreto i segnali che emergono da Ginevra. Come accade nella prassi dei più difficili negoziati diplomatici, già la fissazione di un nuovo appuntamento fra le delegazioni (in questo caso, si tratta del 7- 8 novembre, una data molto ravvicinata), è un segnale che quanto meno le cose procedono. Non abbiamo invece alcun dettaglio ufficiale, e nemmeno sostanziali indiscrezioni, su quanto sia emerso nel corso dei due giorni di negoziato: principali punti di disaccordo, elementi di possibile convergenza. Ma è proprio questo a rappresentare un segnale molto positivo, se si pensa che nel decennio in cui il tema del nucleare iraniano è stato oggetto di vari incontri, in varie occasioni la già problematica ricerca di un terreno comune è stata resa ancora più difficile da un uso politico-propagandistico dell’informazione, con interpretazioni di portavoce o indiscrezioni riprese dalla stampa che spesso hanno addirittura «bruciato» le prospettive di successo del negoziato. Vale la pena di leggere invece il briefing alla stampa di un anonimo portavoce del Dipartimento di Stato (indicato semplicemente come «senior official») per capire con quanta serietà gli americani stiano cercando di evitare di alimentare equivoci e polemiche, e soprattutto di fornire armi ai non pochi e non secondari avversari del negoziato: Israele, i Sauditi, i radicali iraniani e il Congresso Usa, la cui radicata ostilità «agli ayatollah» non può certo essere sottovalutata. Ascoltiamolo: «Una delle caratteristiche distintive di un negoziato serio è il fatto che il negoziato non avviene per mezzo stampa». Non mancano altri segnali piuttosto significativi. Lo stile dei negoziatori iraniani, in primo luogo: sia il ministro degli Esteri Zarif che il viceministro Araghchi sono diplomatici estremamente competenti e sofisticati, che hanno condotto i due giorni di incontro con i 5+1 direttamente in inglese e con l’uso di «Power Point» per illustrare le posizioni iraniane. Una novità che non può essere ritenuta meramente tecnica. E infatti lo stile e l’atteggiamento della controparte iraniana sono stati apprezzati, anche al di là degli ancora non noti (e probabilmente non ancora pienamente articolati) contenuti, dal già citato portavoce del Dipartimento di Stato, quando ha detto – con un calore certo insolito fra rappresentati di due Paesi da tanto e tanto radicalmente contrapposti: «Mai prima d’oggi avevamo avuto un confronto cosi’ intenso, dettagliato, franco e candido con gli iraniani». Reciprocato in questo dal ministro degli Esteri Zarif che, parlando con la stampa, si è riferito ai suoi interlocutori – di certo rischiando di causare irritazione in qualche ambiente del suo Paese – come agli «amici del 5+1»). Due cose comunque emergono sulla sostanza del negoziato. In primo luogo il fatto che gli iraniani abbiano proposto, e i 5+1 accolto, un metodo negoziale che, pur strutturato per fasi da implementare gradualmente, punti a definire esplicitamente un «endgame», ovvero il punto di arrivo finale. Si tratta di qualcosa di molto importante, nel senso che in questo modo si evitano i reciproci sospetti che la controparte miri a usare il negoziato, frammentato in «piccoli passi» che possono risultare fine a se stessi, in modo dilatorio e senza impegnarsi fino in fondo. Il secondo elemento è la disponibilità iraniana a inserire fra i contenuti del negoziato la firma da parte iraniana di un Protocollo Addizionale, ovvero l’apertura alle ispezioni Aiea (che, non va dimenticato, non ha mai interrotto le ispezioni ai siti nucleari dichiarati) anche a siti non dichiarati, qualora sorga il sospetto che in essi si svolgano attività di tipo nucleare non monitorate dall’Agenzia. Per l’Iran, va tuttavia aggiunto, i due punti sono legati, nel senso che, come ha detto Zarif, la disponibilità iraniana a sottoscrivere ed applicare il Protocollo potrà solamente concretizzarsi nella fase conclusiva del negoziato, e non nelle fasi iniziali. Nonostante questi segnali, che gli osservatori tendono in modo praticamente unanime a considerare positivi, non mancano gli scettici. Si tratta di «scettici programmatici» che nemmeno potrebbero essere definiti come pessimisti contrapposti agli ottimisti che vedono emergere prospettive di successo del negoziato. Non sono pessimisti per il semplice motivo che il loro timore non è quello del fallimento del negoziato, ma il suo successo. Parlo dell’Arabia Saudita, che non da oggi vede nel problema nucleare la garanzia che gli americani non abbassino la guardia nei confronti di quella che per loro è la storica minaccia persiana, senza parlare dell’avversione viscerale nei confronti degli eretici sciiti. Parlo di Israele, e in particolare di Netanyahu, ormai sopra le righe nel caricare le dosi della sua descrizione del regime iraniano come nuovo nazismo genocida, e che, in questa scomposta campagna di denigrazione è arrivato a lanciare ai giovani iraniani, fra i più aggiornati in termini di mode e di musica occidentali, e soprattutto americani, il seguente messaggio attraverso Bbc in persiano: «Se non aveste quel regime, potreste mettervi i jeans e ascoltare musica occidentale». Evidentemente, anche i regimi peggiori possono essere calunniati. Ma se Obama - che, convinto della necessità di chiudere il contenzioso con l’Iran, intende cogliere l’occasione fornita dalla fase di «realismo di regime» avviata con l’elezione di Rohani - ha gli strumenti per gestire l’ostilità di israeliani e sauditi (uniti da un’occulta ma sempre più sostanziale alleanza), quello che invece avrà molta, anzi moltissima difficoltà a fare, è superare l’ostilità del Congresso. La vicenda del bilancio e del tetto del debito federale rivela quanto sia dura e assolutamente frontale l’opposizione del Partito Repubblicano, dove di fatto la minoranza ultraconservatrice del Tea Party è egemonica. Ma sull’Iran quello che più lo sta senz’altro preoccupando sono le voci di esponenti del suo stesso partito: sono infatti numerosi i parlamentari democratici che stanno già prendendo posizione nel modo più categorico respingendo in anticipo ogni eventuale ipotesi di accordo che, limitandosi a un aumento dei controlli e della trasparenza, non comporti la rinuncia iraniana a arricchire l’uranio nel proprio territorio. Se, come sembra, la trattativa con l’Iran procederà, Obama si troverà di fronte al negoziato più difficile, quello con il proprio potere legislativo. Negli anni del governo Khatami l’Iran aveva proposto formule di soluzione del problema nucleare che assomigliano molto ai probabili contenuti dell’accordo che si sta ora ricercando (riconoscimento di un diritto sottoposto a verifiche molto stringenti), ma allora vennero prima respinti da un’America che, con Bush, puntava soprattutto al crollo del regime iraniano, non ad un suo diverso comportamento internazionale, e successivamente bloccati dal Leader Supremo Khamenei e sostituiti con il nazional-populismo parolaio di Ahmadinejad. Oggi che il Leader Supremo, prendendo atto della difficile situazione del Paese, ha lasciato spazio a un presidente e ad un team diplomatico di segno totalmente opposto, vi è il rischio che un’operazione politico-diplomatica di estrema importanza a livello regionale e globale finisca con un pericoloso fallimento a causa di un Congresso ostile all’Iran, certo, ma soprattutto ostile a un presidente di cui i più estremisti, nel Congresso e nel Paese, negano addirittura la legittimità.

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