Portico d’Ottavia 13 Anna Foa
Laterza euro 15
Non ci sono foto sulla razzia del ghetto, il 16 ottobre del 1943. Eppure i nazisti avevano l’abitudine di riprendere ogni cosa, perfino le esecuzioni di donne e bambini nei villaggi russi. Ma di quella giornata non ci sono rimaste immagini. Quasi a riempire un vuoto inspiegabile, a settant’anni dalla retata che portò a morire oltre un migliaio di ebrei, esce un saggio singolare che non è solo ricostruzione storiografica ma anche efficace racconto di persone e luoghi, di angosce e illusioni, di viltà e coraggio, di gesti un po’ folli contro un destino di tragedia. La storia di una casa, al numero 13 di via Portico d’Ottavia. Un edificio antico, di impianto medievale, pieno di bizzarrie e impreviste fughe, dove perdersi o anche ricominciare a vivere.
Il caso ha voluto che una decina di anni fa in quella casa andasse a vivere una storica, Anna Foa, autrice di libri importanti sulla storia degli ebrei. Entrando nel suo appartamento, all’ultimo piano tra labirintiche terrazze, s’interrogò su quel luogo del passato. Chissà quante vite, nel succedersi delle generazioni. E quanti lutti, quante morti. Ma quella non era una casa eguale alle altre. Là, tra la loggia interna e le tante deviazioni inaspettate, all’alba del 16 ot-
tobre, gli uomini del capitano Theodor Dannecker cominciarono la razzia nel vecchio ghetto. Cosa accadde quel sabato nero? In che modo fu segnata l’esistenza di un centinaio di persone, per lo più povera gente, stracciaroli, ambulanti, sarti, falegnami con mogli, figli, cognate, certo tra i più umili della comunità? E quanti riuscirono a scappare attraverso i tetti e le cantine? Frugando negli archivi e nelle testimonianze dei sopravvissuti, la studiosa è riuscita a comporre una microstoria che accanto ai dettagli della vita
quotidiana pone le questioni essenziali della storia più grande (
Portico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del 1943,
Laterza, pagg. 144, euro15; sarà presentato a Roma, il 14 ottobre alle 18,30, alla libreria Arion di via Cavour).
Non è facile scrivere un libro sul 16 ottobre del 1943, specie dopo un capolavoro come quello di Giacomo Debenedetti. Ma Foa riesce a vincere la sfida. Il lettore si ritrova a risalire le scale del grande edificio come devono aver fatto i nazisti di Dannecker. Ecco gli uomini che fuggono sui tetti, le donne no, le donne, con i bambini e gli anziani, vengono spintonate sui camion. Qualcuno cerca di consegnare i più piccoli in mani sicure. Nelle cantine giù in fondo c’è grande agitazione. In quelle stesse cantine, dopo qualche giorno, Giulia Sciunnac avrebbe dato vita a una bambina, per poi portarla dalla nonna, imprigionata a Regina Coeli in attesa di Auschwitz. Si trattò di coraggio o incoscienza?, s’interroga la storica. E il pensiero corre alla
sua personale vicenda quando i genitori, Vittorio Foa e Lisetta Giua, la condussero a Torino a conoscere la bisnonna, in una casa sorvegliata dai nazisti. Anche quello «un modo di sconfiggere il terrore privilegiando la vita quotidiana e gli affetti».
Molte cose, settant’anni dopo, restano inspiegabili. Perché quasi nessuno aveva abbandonato la casa, pur sapendo della minaccia nazista? E perché ci si illudeva che donne e bambini fossero esclusi dall’orrore? La studiosa non si ferma alle prime plausibili spiegazioni: si trattava di una comunità povera, che non poteva beneficiare delle stesse risorse dei borghesi. Ma interviene anche una motivazione più profonda, legata al sentimento d’appartenenza, alla tradizione, all’essere ebrei. Anche la paura di lasciare i recinti famigliari. Ci si sentiva più sicuri, tra le spesse mura di quella vecchia casa. E in molti vi fecero ritorno all’indomani della deportazione, solo per dormire nel proprio letto, cuocere le azzime o prendere le lenzuola. Fu la ragione per cui, se 35 furono gli ebrei arrestati all’alba del 16 ottobre, altri 14 sarebbero stati presi nelle settimane successive. Sei assassinati alle Fosse Ardeatine, nel marzo del 1944.
«Stanno bene, non vi preoccupate», aveva rassicurato Celeste Di Porto, una tragica figura di ebrea che ritroviamo in molte delle storie. Era una spia al soldo di bande criminali, cacciatori di ebrei in una Roma governata dal caos. Il padre, per la vergogna, si sarebbe consegnato ai nazisti. Celeste nel 1947 viene condannata a 12 anni, di cui cinque condonati. Il saggio fa riflettere anche sulla mitezza delle sentenze, nel dopoguerra segnato dall’amnistia. Processi che cercano la conciliazione omettendo la verità. Ma non c’è conciliazione senza giustizia. E la storia della casa è anche un modo per rendere giustizia
a quei morti.
Simonetta Fiori
La Repubblica