La morte del Rabbino Ovadia Yosef commento di A. B. Yehoshua
Testata: La Stampa Data: 14 ottobre 2013 Pagina: 1 Autore: A. B. Yehoshua Titolo: «Quel rabbino era un cattivo maestro»
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 14/10/2013, a pag. 1-31, l'articolo di A. B. Yehoshua dal titolo " Quel rabbino era un cattivo maestro ".
Pubblichiamo come sempre gli articoli di A. B. Yehoshua tradotti in italiano sulla Stampa. Segnaliamo, però, la mancata pubblicazione di due suoi articoli usciti negli ultimi mesi e spediti alla Stampa per la traduzione. I titoli sono "Chi è un ebreo" e "Chi è un israeliano". Essendo ovvio il loro interesse anche per il pubblico italiano, ci auguriamo che vengano tradotti al più presto. Ecco il pezzo:
A. B. Yehoshua Ovadia Yosef
Qualche giorno fa 850 mila persone hanno seguito il corteo funebre di Rav Ovadia Yosef che non era considerato un funerale di stato e si è svolto un paio d’ore dopo la sua morte a causa del divieto halakhico di lasciare insepolto un morto a Gerusalemme. Ciò significa che queste esequie, avvenute senza preavviso e senza particolari preparazioni, sono riuscite a radunare in maniera spontanea un numero di partecipanti mai visto prima in Israele. Ashkenaziti e sefarditi (pochi i laici fra loro) che hanno reso l’ultimo omaggio a un rabbino considerato un grande maestro di Torah. Occorre ricordare che più della metà degli abitanti ebrei di Gerusalemme sono religiosi od osservanti delle tradizioni religiose ed era quindi piuttosto facile raccogliere un così grande numero di partecipanti. Se Rav Ovadia fosse morto a Tel Aviv e vi fosse stato sepolto è probabile che i presenti alle sue esequie sarebbero stati in numero molto inferiore. Occorre anche ricordare che, in mancanza di concerti rock o di attività sportive di massa che servono da valvola di sfogo alla gioventù laica, le esequie di un rabbino famoso e importante sono per i giovani studenti delle accademie talmudiche una sorta di happening. Un funerale simile non è quindi solo un obbligo ma anche una forma di intrattenimento, una possibilità di incontrare altri giovani, di condividere emozioni e di godere, consapevolmente o meno, dell’attenzione dei media. Eppure, malgrado tutte queste spiegazioni, noi laici siamo rimasti stupiti, e aggiungerei confusi, dinanzi all’enorme folla presente al funerale di Rav Ovadia che avrebbe anche potuto essere potenzialmente più numerosa. Se infatti, secondo le stime della polizia, alle esequie hanno partecipato circa 850.000 persone, per lo più uomini, a queste andrebbero aggiunti non solo chi non è riuscito ad arrivare a Gerusalemme dal resto del paese ma anche le donne e i bambini rimasti a casa. Non si parla più perciò di ottocentocinquantamila partecipanti ma di un milione e mezzo o di due milioni di individui in lutto, quasi un terzo della popolazione ebraica di Israele. Un numero enorme che desta preoccupazione in persone come me. E perché mai desta preoccupazione? Perché ritengo che il danno provocato alla società israeliana dalla personalità e dall’attività di Rav Ovadia sia molto più grande, a lungo termine, dei benefici arrecati a essa. Ma prima di spiegare questa mia affermazione concedetemi una breve premessa di carattere personale. Io sono il nipote di Rav Hanania Gabriel, presidente del tribunale rabbinico sefardita di Gerusalemme e molto somigliante nell’aspetto a Rav Ovadia Yosef (fatta eccezione per l’abito dorato che quest’ultimo ha cominciato a indossare dopo la sua elezione a rabbino capo di Israele). Anche mio nonno ha scritto libri halakhici, per quanto non pari a quelli di Rav Ovadia per livello e audacia, ma lui e altri rabbini sefarditi hanno seguito su un piano ideologico una strada opposta a quella di Rav Ovadia. Invece di favorire l’organizzazione dei sefarditi in partiti separati erano favorevoli a una loro integrazione in partiti esistenti, ognuno secondo una propria visione ideologica e politica. Invece di spingerli a un’educazione religiosa estremista, chiusa in se stessa, erano favorevoli a un’identità religiosa che si integrasse nel sistema educativo del paese. Mio nonno, per esempio, iscrisse mio padre, Yaakov Yehoshua, a un istituto superiore frequentato da ragazzi e ragazze, laici e religiosi. Mio padre rispettava la tradizione religiosa, si recava regolarmente in sinagoga e manteneva una cucina kosher, così che suo padre potesse tranquillamente mangiare a casa nostra. E tutto questo senza quell’estremismo religioso imposto da Rav Ovadia ai suoi seguaci. Ammetto di non conoscere gli scritti halakhici e filosofici di Rav Ovadia. Posso però affermare di non avergli mai sentito esprimere un’idea che racchiudesse un qualche nobile e umano insegnamento. Al contrario, ha fatto commenti oltraggiosi e razzisti sulle donne e sui non ebrei e si è permesso di proferire ingiurie terribili contro esponenti politici della sinistra israeliana. Ha spinto la comunità sefardita, che era sulla strada di una auspicata integrazione nella società israeliana, verso l’estremismo religioso e il separatismo. Grazie alla forza del suo partito politico, Shas, ha aperto scuole dedicate principalmente agli studi religiosi, dove ragazzi e ragazze, rigorosamente di discendenza sefardita, studiano separati gli uni dalle altre. Ha gestito con il pugno di ferro il partito da lui fondato come se fosse un ayatollah iraniano, senza permettere liberi dibattiti ideologici e scegliendo personalmente i suoi rappresentanti alla Knesset. Shas è il partito più corrotto del sistema politico israeliano e tre suoi ex ministri sono stati condannati dai tribunali israeliani e incarcerati. Rav Ovadia è stato una grande delusione per i sostenitori della pace. Malgrado avesse affermato che da un punto di vista halakhico non ci fossero impedimenti a restituire i territori palestinesi occupati nel 1967 in cambio della pace il suo partito di fatto si è sempre alleato ai partiti della destra nel fare affondare tutte le iniziative di pace possibili. Nonostante le sue affermazioni moderate non si è mai opposto alla presenza di colonie ebraiche in Cisgiordania, che ancora oggi sono il principale ostacolo a un accordo di pace con i palestinesi. Sebbene fosse nato in un paese arabo e avesse servito come rabbino capo in Egitto prima della fondazione di Israele e, grazie alla sua padronanza della lingua araba, avesse avuto numerosi incontri con personalità arabe in Israele e all’estero, la speranza che gli israeliani sefarditi sostenessero la pace si è frantumata più volte negli ultimi anni. Quando una figura carismatica e dotata di un potere politico nocivo esce di scena la speranza non è che il suo sostituto, pur mantenendo gli stessi poteri, sia una persona più gradevole ma piuttosto che la sua uscita di scena rappresenti l’inizio di un cambiamento nella struttura dei poteri politici e religiosi che ha fatto regredire la democrazia israeliana.
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