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La Stampa Rassegna Stampa
05.10.2013 L'anima ebraica nasce dalle parole
Commenti di Elena Loewenthal

Testata: La Stampa
Data: 05 ottobre 2013
Pagina: 4
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «L'anima ebraica nasce dalle parole»

Su TUTTOLIBRI-LA STAMPA di oggi, 05/10/2013, a pag.IV, con il titolo " L'anima ebraica nasce dalle parole ", Elena Loewenthal commenta due libri, "Gli ebrei e le parole" e " La biblioteca di Qumran".

Amos e Fania Oz                                           Elena Loewenthal

Gli ebrei e le parole: il nuovo libro di Amos Oz va dritto al cuore della questione. E lo fa a quattro mani con sua figlia, Fania Oz Salzberger, apprezzata studiosa, docente di storia presso l’Università di Haifa. Padre e figlia hanno scelto una lingua franca, l’inglese, per raccontare qual è il rapporto del popolo del Libro – o meglio dei tanti libri – con la parola scritta, dalla Bibbia in poi. Ne è venuto fuori un libro affascinante nel senso più pieno del termine, capace di avvincere come un romanzo, a volte d’amore, a volte d’avventura, più spesso tutte e due le cose insieme. O forse di viaggio: nel mistero della continuità ebraica. Nelle donne che parlano e raccontano dentro la Bibbia. Nell’idea di tempo e nella «Timelessness» (un concetto meraviglioso ma inafferrabile, soprattutto per chi, come chi scrive, si è dovuta cimentare con la traduzione…: indica infatti quella «assenza di tempo» che siamo portati a chiamare «eternità»). Nel nome proprio come traccia di vita. Nell’ebraismo come astrazione e nel destino ebraico A proposito di destino ebraico, papa Francesco ha detto di recente che il cristianesimo è grato agli ebrei «per quello che sono». Straordinario passo in avanti in una teologia che si è fondata per millenni sul disprezzo del perfidus judaeus e solo qualche generazione fa ha accolto l’idea di «riconoscere» gli ebrei «nonostante» quello che sono: i fratelli maggiori. Peccato che nella narrazione biblica i fratelli maggiori siano il più delle volte i reietti della storia, quelli che stanno dalla parte sbagliata. E’ questo giudizio che soggiace all’attestato teologico della primogenitura. Per capire come stanno le cose, non resta che fare un passo indietro, all’epoca remota e travagliata in cui la fede, per come la pensiamo oggi, si forma, prende corpo e sostanza. Ma soprattutto parole, come dicono Amos e Fania Oz, nella Bibbia ebraica. Fino al 1947, il più antico manoscritto della Bibbia risaliva al X secolo. Si tratta del codice di Aleppo, la cui storia è degna di Dan Brown (Matti Friedman ne ha fatto ora un avvincente saggio: The Aleppo Codex: In Pursuit of One of the World’s Most Coveted, Sacred, and Mysterious Books, Algonquin Books 2013. Quanto al codice, è visitabile alla pagina http:// www.aleppocodex.org/). Antico finché si vuole, ma almeno mille anni più tardo rispetto all’epoca in cui il canone biblico si assestò. Dieci e più secoli di disstanza fra un testo e il suo primo testimone sono davvero tanti. Poi nel 1947 un bambino beduino, forse annoiato dalla monotonia del deserto, si mise a giocare con i sassi, finché non ne tirò uno verso un buco nella parete di roccia che s’affaccia sul Mar Morto. Il sasso fece un rumore strano, come di rimbalzo contro qualcosa di cavo. Fu così che iniziò la più grande scoperta archeologica del secolo. Dentro la grotta c’erano decine di orci alti e panciuti, pieni di manoscritti ebraici: erano il deposito di parole della comunità monastica ante litteram di Qumran, attiva nel deserto di Giudea a cavallo dell’era cristiana. Anche questa è una storia dai contorni gialli, piena di colpi di scena e misteri. A quasi settant’anni di distanza, molti dei manoscritti – custoditi sotto la cupola bianca del museo d’Israele a Gerusalemme che riproduce i coperchi degli orci - sono ancora da pubblicare. Inedito è soprattutto il testo della Bibbia conservatosi a Qumran e che, secondo alcuni, avrebbe una versione dissimile da quella canonica. La pubblicazione dei frammenti – a volte ampi a volte minuscoli – procede a singhiozzo, regala agli studiosi un pezzetto per volta, come per tenerli sul chivalà. Oggi le Edizioni Dehoniane di Bologna offrono al lettore qualche interessante tessera di questo appassionante mosaico. Non si tratta della Torah – Genesi, come dice la copertina a caratteri cubitali, in senso stretto, bensì dei brani e frammenti del primo libro biblico contenuti in alcuni testi qumranici – il Libro astronomico di Enoc, il Libro dei Giganti, la Storia dei Patriarchi, l’Apocrifo di Giacobbe aramaico, il Testamento aramaico di Levi, per citarne qualcuno. E’ un’edizione bilingue, con testo ebraico (o aramaico) a fronte, uscita prima in francese e ora in italiano per la cura di Giovanni Ibba. Se risalire alle radici della fede, procedere a ritroso nel cammino di una storia comune, è fondamentale, altrettanto importante è non aggirare gli ostacoli di cui questa storia è generosa, non ignorare la montagna di malintesi su cui per millenni si è fondato il rapporto fra le fedi bibliche. A questo proposito, non si può dire che David Nirenberg, professore di storia alla Chicago University, usi un eufemismo: nel suo nuovo libro, Anti-Judaism: the Western Tradition, appena uscito presso Norton & Company, lo studioso sostiene che il sentimento antiebraico (da non confondersi con l’antisemitismo razziale, frutto di una perversa modernità) fatto di disprezzo per l’infedele e odio per il popolo considerato «deicida», è al cuore della cultura occidentale. La sua indagine sulle parole dell’antigiudaismo, sulle sue contraddizioni e la sua energia tenace, è un approccio originale alla storia di questo nostro mondo, alle sue debolezze, ossessioni e paure.

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